Distortionverse - Il Cigno di Carta (2015, incompleto)

Per anni, dopo avere (non) finito "Neonlight", ho provato a riutilizzarne i personaggi e le situazioni in altri contesti: volevo assolutamente introdurre Red e Roger nel mondo di Distortionverse. Dopo aver terminato "Sweet Dreams", ero stato colpito dall'idea di dare più spazio a Ban e Shu, due personaggi secondari che interagiscono con Mizar e Silman. Avevo lasciato la vera natura di Shu senza una spiegazione. L'idea era che lei fosse un robot che avesse sviluppato una personalità propria, prima di poter essere riprogrammata. "Il Cigno di Carta" doveva essere la storia di come Ban e Shu si sono incontrati e come Shu è diventata quella che è in "Sweet Dreams". Sfortunatamente, così non è stato. "Il Cigno di Carta" tra l'altro cita l'imperatore Arkaneis, poi rivisto in Schwarzerblitz, e fa comparire parecchi personaggi morti in "Rosenmaester". Questa è una delle storie che vorrei aver terminato, ma è diventata superflua dopo che Sweet Dreams non ha visto la luce della pubblicazione. La backstory di Red e Roger è stata alterata in modo significativo da Schwarzerblitz, rendendo impossibile un vero recupero di questa storia.
2060 – Northern Algol, Britannia
1. Roger Wades
Luci rosse lampeggianti, una sirena in sottofondo. La notte squarciata da rauchi ululati, continui, ripetuti.
Passi, rumore di passi. Agenti della sicurezza, in tenuta d'assalto. Corrono, i mitra imbracciati, caricatori trattenuti dalla bandoliera.
Fari alogeni dalla torre di guardia, droni con visione termica, la zona scandagliata palmo a palmo. Il responsabile sfiora il comunicatore, comunica con i sottoposti. Appostamento sul tetto, dieci metri dal suolo. Controllo totale sui dintorni della fabbrica.
“Procedete come da programma. Non può essere troppo lontano...”
La sirena persiste nel suo tetro lamento, percuotendo l'aria con violenza.
“... e spegnete questo maledetto affare! Mi sta perforando i timpani!”
“Roger.”
Un sopracciglio inarcato, la mano stampata sulla fronte.
“Ti sembra il momento di fare dell'umorismo, Seizer? Vedi di trovare quel coso prima che la notizia arrivi al proprietario, altrimenti ti spacco la faccia. Chiaro?”
“Roger.”
Un grugnito seccato, un gioco di parole abusato fino allo sfinimento. Uno stupido caso di omonimia.
Triste chiamarsi come la risposta ad una comunicazione radio.
Roger inforca il visore notturno, le lenti settate sull'infrarosso. Il ragionamento di un secondo.
Mi serve davvero?
Un secondo, non di più. La mente torna sovrana, nasconde le preoccupazioni.
Certo che mi serve. Quel coso emette calore. Non è schermato.
L'arma estratta dalla sacca, il mirino montato con precisione maniacale.
Se quel bastardo passa qui davanti, gli crivello le gambe.
Uno sguardo al cielo terso, alla falce di Luna oscurata dall'inquinamento luminoso. Troppi proiettori per ammirare le stelle. L'occasione sbagliata per cercarle, nascoste nel tessuto notturno. Gli occhi guizzano in avanti, oltre il muro di cinta, oltre le barriere elettrificate. Ottimi strumenti per tenere lontano visitatori indesiderati o per evitare la fuga di spie industriali.
Di solito. Non questa volta
Il fucile da cecchino caricato con cura, il proiettile entra nella canna, l'indice a debita distanza dal grilletto. Sachson 70, ogive da esecuzione. Teste aperte come un fiore a primavera.
Una goccia di sudore, rumore bianco alla radio. Un tocco leggero sul ricevitore.
“Lo avete trovato, Seizer?”
“No, Roger. Ma non è neanche uscito, i rivelatori lo avrebbero segnalato. Dev'essersi nascosto qui attorno, in attesa di un'apertura. Non credo sia in grado di sfondare il muro... e neppure di scavalcarlo. I suoi muscoli non sono completi.”
“Meglio così. Rimango in attesa. Prima o poi dovrà uscire allo scoperto.”
L'uscita principale sorvegliata a vista, il portellone blindato chiuso da un codice biometrico di protezione.
Non può lasciare questo posto nemmeno se prega. Avrebbe fatto meglio a starsene zitto e buono nella sua camera d'incubazione.
Un riflesso sul vetro della finestra, il proprio aspetto passato in rassegna. Divisa nera, l'incarnato leggermente più chiaro, capelli a spazzola, corti, corvini.
La megalopoli a fare da sfondo, i grattacieli, i rigeneratori atmosferici. La skyline brulicante di bagliori corruschi, i rumori delle industrie trascinati dal vento. Un panorama ammirato nello specchio, meraviglia soppressa sul nascere.
Adesso non ho bisogno di distrazioni.
Un rapido controllo alle postazioni di guardia, ai riflettori semiautomatici. Ogni centimetro quadrato di terreno passato in rassegna, pochi angoli ciechi.
Quelli per cui serve l'intervento umano.
Un movimento improvviso.
Un lampo di eccitazione.
“Bingo.”
Il dito scivola sul grilletto, l'arma spianata, il mirino collegato al visore, immersione totale dei sensi, identificazione della preda.
Passi lenti, claudicanti, insicuri. La figura oscilla in avanti, recupera l'equilibrio. I giroscopi tentano di stabilizzarla, di riportarla in asse. Qualche istante di esitazione.
“Così è troppo facile, però. Non c'è divertimento.”
Roger sorride, mostra i denti bianchi alla notte, il naso aquilino quasi a sfiorare il metallo.
“Cheeeeeeese!”
Uno scoppio violento, metallo asportato, l'avambraccio esploso in mille pezzi. Schegge ardenti come residui di un fuoco d'artificio, il resto del corpo crolla all'indietro, la schiena a terra, a contatto con l'asfalto.
Immobile.
Roger attiva il comunicatore nell'orecchio, sogghigna divertito mentre libera la fronte dal visore tattico.
“Qui Wades. L'ho centrato. Ora non ci sfugge più.”
Il collo scrocchiato con estrema calma, il sudore evaporato dalla pelle scura.
“Seizer, ci vai tu a... eh?!”
Gli occhiali inforcati, il binocolo attivo, la mano a cercare i proiettili, il fucile ricaricato al volo.
“Si è... rialzato?!”
Il bersaglio a fuoco, lo sguardo indugia sulla struttura esterna, sulla plastica protettiva attorno alle ossa di titanio e carbonio. Cavi e servomotori a vista, perdite d'olio all'altezza del gomito. Uno scheletro smussato, ingentilito dal rivestimento. Viso liscio, inespressivo, privo di lineamenti. Due fari nel buio, led azzurri lampeggianti in luogo degli occhi.
Diretti verso di lui.
Roger incontra quegli occhi, per un istante soltanto. La mandibola spalancata, l'arma trema tra le mani.
“Ma che diavolo...”
La creatura mantiene il contatto, protende il braccio integro, in direzione del carnefice. Le dita aperte, quasi a volerlo raggiungere. Pattern indistinto, i led si accendono, si spengono a ritmo casuale, fluidi viscosi abbandonano il corpo martoriato.
Uno stridio acuto, un lamento prolungato, inumano.
Roger esita, esita per un attimo. L'attimo necessario a riprendere il controllo, a ricordarsi il motivo per cui si è pagati.
L'attimo necessario a cancellare le emozioni.
“Sorridi, pezzo di latta!”
Il grilletto premuto a fondo, il torace perforato, frammenti di plastica fusa proiettati in aria, eruttati da un vulcano. Il corpo – o quello che ne resta – si accascia al suolo, esanime.
E gli occhi si spengono con lentezza esasperante, riconsegnano l'essere al buio.
“...”
Roger si mette a sedere, sgancia gli occhiali. Respiri, respiri profondi. Lenti. Incostanti. Un ronzio nella mente, fastidioso, incessante.
Cos'è? Cosa succede? Cosa...
“Roger, tutto a posto? Abbiamo sentito uno sparo.”
La radio. La voce di Seizer. Uno sparo, certo. Bello forte.
“Qui... qui Wades. Sono stato io. L'ho distrutto... credo.”
Una bestemmia dall'altro capo del comunicatore. Parole pesanti, imprecazioni.
“Distrutto?! Dovevamo soltanto riprenderlo! Che cazzo ti è saltato in mente?”
“Il responsabile sono io, Seizer. Sono io che prendo le decisioni. Ora taci e chiama il dottor von Kreen. Non mi interessa se sono le tre di notte. Buttalo giù dal letto, se necessario. Digli che abbiamo avuto problemi, okay? Che deve venire qui, alla fabbrica. Al più presto.”
“Va bene, ma...”
Un tasto premuto con rabbia, il trasmettitore spento. Gli occhi lucidi, il cuore in subbuglio.
“Mio Dio...”
Una sensazione orribile, impossibile da allontanare.
La sensazione di aver visto qualcosa in quegli occhi.
La sensazione di averne avvertito il dolore.
2. Ban Cardia
Fari nel buio, lampeggianti blu e rossi. La sirena spenta – inutile attivarla alle tre di notte. Un grugnito seccato, uno sbadiglio di sonno.
“Maledetto turno di notte.”
Le mani strette sul volante, il corpo malamente accomodato sul sedile sdrucito. Una mole eccessiva per il volume dell'abitacolo, i muscoli compressi per guadagnare centimetri di spazio vitale. La radio gracchiante, trasmette musica classica. Opera lirica, il secondo atto de Il Regno dei Dannati.
Un fischio malinconico, segue la melodia, le note del Trionfo di Arkaneis. Il tenore e il baritono all'unisono, voci armonizzate, in controcanto.
Un altro sbadiglio.
“Forse è meglio cercare qualcosa più ritmato...”
Le dita enormi armeggiano con lo schermo sensibile al tocco, desistono dopo pochi secondi.
“... no, meglio di no, altrimenti non sento le comunicazioni di servizio.”
La mente ritorna a pochi minuti prima, all'ufficio, alle chiacchiere con Larkie e la Kranzner. Larkie poteva capirlo, sì. Era robusto quanto lui, avevano gli stessi problemi di movimento. Solo che Larkie era così di natura. Era quella l'unica differenza.
Il piede spinge sull'acceleratore, sprona i cavalli della Kramers Onega, lo sguardo vigile sulla strada, sui tornanti, sulle fioche lampade ai lati della carreggiata, ricoperte da nugoli di mosche.
Qualcuno sta sparando! Ho sentito due esplosioni! Presto correte!
Il classico escursionista al posto sbagliato nel momento sbagliato. E tutta la centrale in subbuglio, una volta ricevute le coordinate.
Ma dico... chi mai andrebbe in giro di notte nei pressi delle industrie von Kreen?
Il pensiero scacciato, accantonato. Non è importante al momento.
Se c'è una segnalazione dobbiamo almeno verificare. Certo, certo. Ma contattare il responsabile della sicurezza prima era troppo difficile?
Gli occhi arancio vivo nuotano nelle orbite, controllano gli angoli della strada. Il pericolo di attraversamenti improvvisi, colonie di animali selvatici, cinghiali, cervi.
Uno sguardo al navigatore.
Un chilometro all'arrivo.
Un'eternità.
Corvi di pece appollaiati sui rami, occhi di sangue puntati sull'auto, in fervente attesa.
Il coro intona il crescendo finale, il soprano irrompe nella composizione.
Le dita tamburellano sul cruscotto, seguono il ritmo dei timpani, tengono il tempo.
“Allor saprai il mio nome, saprai ch'io sono il re...”
Un doppio tornante, la marcia scalata con rapidità.
“... e il Regno striscerà per sempre in fronte a me...”
Un lungo rettilineo, il motore imbizzarrito, un sorrisetto appagato sul viso del gigante.
“... sconfitto è il tiranno, egli è morto, sepolto! Ai figli, suoi cari, recate l'addio...”
La bocca spalancata, emula il tenore, canta a squarciagola.
“... tranquilli in eterno, di decision privi. Sarà tutto affar mio...”
La mano sinistra mulinata con foga, quasi ad imitare il direttore d'orchestra.
“... fratelli, compagni, più nulla temete...”
L'organo ad accompagnare la voce infernale, l'attenzione distolta per un secondo.
“... un nuovo Dio forte, potente e sincero, di fronte a voi avete!”
Rombo d'inferno, lo schianto, il parabrezza incrinato, il paraurti rientra nel cofano. Ban sterza, ruota il volante con foga, allarmi e sistemi impazziti. Solo la radio continua a funzionare.
“... chi sceglie già sbaglia, non scegliere è meglio!”
Gli pneumatici stridono, aggrediscono il fondo, tentano di frenare la corsa.
“... lasciate il fardello, seguite i comandi...”
Il veicolo ruota su se stesso, in testacoda, le ruote stridono, la gomma urla, consumata dall'attrito.
“... umani non siete, non siete mai stati...”
Il retro impatta contro un larice, i fari posteriori spaccati, frammenti di vetro sparsi attorno al tronco.
“... soltanto buratti dai fili intrecciat...”
Il finale tranciato di netto, le casse spente per il contraccolpo.
“Merda! Merda!”
Ban apre la porta, traballa, barcolla, crolla, cade in ginocchio, le mani aperte, i capelli neri sparsi sul volto, sulla pelle olivastra. L'uniforme intrisa di sudore, il piacevole tocco del vento. Un rapido controllo del proprio corpo, le ossa, i muscoli. Un sospiro di sollievo, la quiete prima della tempesta. La frustrazione emerge dal caos, prende possesso del suo corpo.
“Era rettilineo, non c'erano ostacoli! Ho controllato, cazzo! Ho controllato!”
L'asfalto percosso con violenza, un pugno a tutta forza. Il rimbombo, schegge di pietrisco proiettate in cielo.
“Devo aver investito un animale, sì. Un cervo, forse...”
Ban guadagna posizione eretta, gira attorno al veicolo, focalizza i dettagli. I lampeggianti impazziti, il cofano sfondato, il motore emerge dalle lamiere come un dente dalla gengiva.
“... o forse no?”
Una sagoma biancastra incastrata nella carcassa. Plastica candida, solcata da crepe, bruciature. Arti di titanio rivestiti, incompleti. La mano destra assente, le gambe tranciate di netto nello schianto. Il viso ovale, quasi umano, privo di lineamenti. Solo due fessure viola luccicanti, occhi persi nel vuoto.
“... un robot?”
I servomotori ronzano, tentano di districarsi dall'abbraccio del rottame. Ban scuote il capo, afferra i due estremi del cofano, li strappa come fogli di carta, estrae la creatura dal groviglio, la trattiene tra le braccia come un neonato.
“E tu cosa ci fai qui?”
L'automa si dimena, ruota il capo, non emette alcun suono. Un lampo a rischiarare le tenebre della mente.
Qualcuno sta sparando! Ho sentito due esplosioni! Presto correte!
“Sei tu la causa del trambusto, non è così?”
Uno scatto repentino, un goffo tentativo di liberarsi dalla presa. La plastica contorta, alcune placche si sfaldano, lasciano scoperti gli organi interni. Il braccio monco si solleva, punta in direzione dell'abitacolo, lo indica con insistenza.
Un grugnito seccato.
“Vuoi che ti metta nella macchina? È questo che cerchi di dirmi?”
Le spalle scrollate, lo sguardo al cielo.
“Beh, cosa mi costa? Tanto senza gambe non scappi. E devo chiamare la centrale per farmi venire a prendere. Con la volante in questo stato, posso fare ben poco.”
Ban trascina il corpo sino ai resti della vettura, lo adagia sul sedile del passeggero, appoggia la schiena alla portiera, bloccando ogni possibile uscita.
L'androide quasi immobile, la cassa toracica si comprime ed espande, un respiro simulato. Ban osserva ammirato, la mano destra a massaggiare il pizzetto corvino.
Questo è solo uno scheletro, la prima parte del lavoro. Manca tutto il rivestimento, è ancora ricoperto dalla plastica protettiva. Di solito, la rimuovono prima di installare i muscoli facciali e gli attributi estetici. Com'è che un droide incompleto è libero di andare a zonzo a quest'ora del mattino?
I lampi viola incontrano le iridi arancioni, fissi, immobili. Il polso destro sollevato, i cavi per la mano inesistente penetrano nel cruscotto, si agganciano alla radio, la avviluppano.
Ban come incantato, osserva senza reagire.
“Che... che cosa stai facendo?”
Led azzurri lungo tutto l'avambraccio, comunicazione seriale col processore, impulsi convertiti in onde di pressione, il timpano le traduce in suoni.
“>P... portami via.”
Gli altoparlanti riportati alla vita, una voce a permeare l'atmosfera. Una voce prima artificiale, poi sempre più nitida, sempre più vera.
“>T... ti prego.”
Una voce femminile, fievole, atona.
“Ma cosa...”
“Ti... ti scongiuro! Portami via! Non... non lasciare che mi prendano!”
La perfetta riproduzione di un tono umano, nessuna traccia della macchina. Una ragazzina spaventata, intimorita. Una punta di disperazione, di terrore.
“Cos'è, uno scherzo?”
Ban si gratta i capelli con poca convinzione, tenta di trovare una logica.
“Guarda che se ti riportiamo là, ti mettono a posto. Ti ricoprono di sintopelle, ti installano un sintetizzatore vocale... insomma, ti fanno diventare un vero ginoide.”
“No!”
Gli occhi viola brillano, vibrano disperati, accompagnano il suono delle parole.
“Non... non voglio che mi completino!”
3. Roger Wades
Un grumo di saliva inghiottito a fatica, gli occhiali ripuliti in modo maniacale. La divisa d'ordinanza sostituita da una comoda camicia, un medaglione al collo, il simbolo della pace oscilla all'altezza dello sterno.
Roger sbadiglia, in attesa di ordini, in attesa di essere chiamato a rapporto. Un'occhiata svogliata alla sala di controllo, alle decine di schermi interconnessi, ai muri bianchi tinteggiati di fresco, alle sedie sufficientemente scomode da impedire un pisolino sul posto di lavoro.
La porta scorrevole si anima, un led verde a scandirne l'apertura. Roger alza lo sguardo, incrocia il nuovo arrivato. Un uomo, mediamente alto, corporatura snella. Completo scuro, lungo cappotto beige, guanti neri. Capelli brizzolati, piuttosto lunghi. Accenni di barba, basette cespugliose. Occhi luccicanti, ricolmi di vitalità.
Il proprietario della struttura.
Victor von Kreen.
“Buonasera, Wades. A cosa devo questo dispiacere?”
Dritto al punto, il vecchio bastardo.
Roger lascia la sedia, cammina tranquillo, le iridi verde palude a scannerizzare il suo interlocutore.
“Un tentativo di fuga. Uno dei droidi in costruzione ha provato a svignarsela.”
Kreen arretra, uno scatto improvviso del braccio sinistro.
“Uno dei... droidi?”
Uno schiocco di dita, la porta spalancata. Seizer compare dall'ingresso posteriore. Un carrello da trasporto merci, le ruote graffiano il pavimento. Rottami accatastati sulla portantina, resti metallici, aggrovigliati. Il petto esploso di una figura umanoide. Kreen si avvicina, accarezza la plastica fusa. Pietà impressa sulla retina, i muscoli tremano, impediscono il movimento.
Roger se ne accorge, un colpetto di tosse, previene la domanda.
“Non era mia intenzione distruggerlo. Si è spostato all'improvviso, mentre miravo alle gambe. Non ho fatto in tempo ad accorgermene.”
Un rivolo di sudore freddo, un blocco in gola.
Roger sistema gli occhiali nel taschino, mantiene la calma. Fingere, recitare la parte del cecchino fallito. Sempre meglio che ammettere di avergli sparato in preda al panico.
Kreen afferra la testa inattiva, la osserva rapito.
“Era appena nata, Wades. Non aveva alcuna esperienza del mondo. Solo... solo i preconcetti di base.”
“Mi dispiace, capo.”
“Dispiace più a me.”
Seizer saluta con rispetto, abbandona la stanza, lascia i due uomini soli. Roger fa per allontanarsi a sua volta, un passo in direzione dell'uscita.
“Non l'ho ancora congedata, Wades!”
La voce del capo. Un boato autoritario, tutta l'energia incanalata in un grido rauco. Roger immobile, attende istruzioni. Tranquillità apparente, tumulto interiore. L'attesa di un segnale.
“Capo, posso tornarmene a casa? Sono le tre e mezza, siamo tutti stanchi. Perché non ce ne andiamo a nanna e la finiamo lì?”
“Voglio sapere, Wades. Mi racconti tutto dall'inizio.”
Uno sbuffo inacidito, il fastidio palesato da un gesto eloquente.
“Come vuole che sia andata? Suona l'allarme, ci alziamo dalle brande, prendiamo i fucili, andiamo al centro operativo, ci accorgiamo che c'è stato un hacking di una porta e che due sensori danno risposte incoerenti. Mando Seizer e Rovatti a controllarli, trovano un utero di stasi aperto. Capiamo che c'è un automa a piede libero, allerto le sentinelle, mi piazzo sul muro, faccio spegnere la sirena, inquadro il droide, gli sparo prima che varchi il cancello. Punto. Finita qui.”
“Capisco...”
Le dita sfiorano i resti esanimi, ne seguono il profilo con dolcezza.
“... l'ingresso posteriore lo avete aperto dopo per farmi entrare?”
“L'ingresso posteriore?”
“Non faccia il finto tonto, Wades. Il cancello secondario, quello che dà sulla collina. Sono arrivato da lì, come ogni volta. Mi è più comodo.”
“Ma capo...”
Un tuffo al cuore, la sensazione di impotenza, il controllo perduto per un istante.
“Capo... noi non... non abbiamo fatto nulla. Dopo aver preso... distrutto il robot ci siamo radunati nel cortile per capire se era ancora attivo. Eravamo solo in sette e... sì, perché avremmo dovuto...”
Un lampo vivace negli occhi, curiosità, interesse.
“Quindi non siete stati voi. Io non sono stato...”
Uno sguardo ai poveri resti dell'automa.
“... e nemmeno lei, credo. Questo porta ad un'unica conclusione.”
Un tocco sulla parete, il terminale emerge dall'interstizio. Le dita battono sui tasti virtuali, le pupille balenano a destra, a sinistra, seguono il flusso di testo.
“Non era sola.”
Lo schermo ruotato, l'indice a segnalare un minuscolo riquadro.
“Non era... sola?”
“Wades, osservi la lettura di questo sensore. Indica il numero di uteri aperti. Dia un'occhiata al valore.”
“Due?”
Le mani battute con foga, eccitazione alle stelle, un bambino di sei anni nel corpo di un uomo formato.
“Esatto! Esatto, Wades! Due! Erano due! Una di loro ha attirato la vostra attenzione per permettere all'altra di fuggire! Straordinario! Straordinario!”
Le dita sottili armeggiano con i comandi, richiamano le registrazioni dei sensori.
“A quanto pare, la più giovane è riuscita a lasciare la struttura. Il numero di serie di quello che avete recuperato è associato al primo utero...”
Roger balza sull'attenti, i muscoli contratti, il telefono in mano.
“Quanto mancava al completamento dello scheletro principale?”
“I muscoli della gamba destra e parte del braccio. Sarebbe stata terminata entro domani mattina.”
“Perfetto, non può essere troppo lontana. Mobilito subito la squadra. In un paio d'ore...”
“No.”
“No?”
Kreen mulina il bastone, lo punta al petto del suo sottoposto.
“Quel robot, quella creatura spaventata... ha scelto di fuggire. E la sua fuga è costata la vita alla sua gemella.”
La testa scrollata con forza, Roger incredulo.
“Non capisco.”
“Il suo corpo era ancora in costruzione, ma il cervello artificiale era già completo, seppur vergine. Nonostante non avesse ancora una personalità impiantata, ha deciso. E io voglio comprendere il motivo, il perché.”
“Se la riportiamo indietro forse sarà più facile. Non trova, dottore?”
La mano inguantata massaggia il mento, la sottile peluria grigia, ispida.
“Preferirei che tornasse da sola, che mi raccontasse tutto di sua spontanea volontà. Io saprò accoglierla.”
“Da sola?!”
Un grugnito animalesco, il pugno sbattuto con forza sul tavolo, lo sguardo fisso, carico di rimprovero.
“Non viviamo nel mondo delle favole, capo! Quella cosa è in giro per le colline – un concentrato ambulante della nostra tecnologia migliore, ancora da formattare! Se un suo concorrente riuscisse a metterci le mani sopra, sarebbe un disastro! Mi lasci carta bianca. La troverò, si fidi di me. Ho i contatti giusti. Se si è rifugiata a Northern Algol, non sarà difficile individuarla.”
“La concorrenza, dici...”
Kreen in silenzio, un silenzio surreale. Passi lenti, tranquilli, verso la macchinetta del caffè, l'indice preme sul pulsante dell'espresso.
“Non hai pensato a quanti ginoidi vendiamo ogni giorno in tutto il mondo? Credi davvero che i miei concorrenti non ne abbiano già acquistato almeno uno per studiarlo? Wades...”
Il liquido nero riempie la tazza di ceramica, sollevando nuvolette di vapore. La mano rotea in un ampio gesto, disperdendole con estrema calma.
“... evidentemente, il suo cervello non è fatto per pensare. Si limiti a fare la guardia e premere il grilletto al momento giusto.”
“Ma un robot impazzito in giro...! Insomma, cosa succederebbe se...”
“Può tornare a casa, Wades.”
“Eh?”
“Torni a casa, si faccia una bella dormita e dimentichi dell'accaduto. Gestire questa situazione è compito mio.”
“...”
“Siamo intesi, Wades? Non farà di testa sua anche questa volta, vero?”
Roger immobile, un'espressione indecifrabile sul volto. Un lungo sospiro rassegnato.
“D'accordo. Non prenderò iniziative personali.”
Un sorrisetto malcelato, un lampo guizzante nelle iridi cupe.
… almeno, non per i prossimi quindici minuti.
4. Ban Cardia
“Cosa abbiamo qui?”
“Questo dovresti dirmelo tu, Emmelyn. Non sono io quello laureato in medicina legale robotica.”
Le rughe attorno alle labbra a formare un ampio arco, marcando sottili labbra cremisi. Pelle rovinata dal Sole, capelli ispidi neri.
“Sono le quasi le quattro di notte, Ban. Ho la stessa lucidità di un bradipo in letargo.”
E più o meno lo stesso fascino.
Parole mai pronunciate, ricacciate in gola. Pensieri onesti, reali, ma scomodi. Insultare l'unica collega utile a sciogliere il nodo può essere controproducente.
Emmelyn si stiracchia, scaccia via il sonno residuo. L'indice accarezza la plastica di rivestimento, incontra una kappa azzurra in rilievo, contornata da cerchi bianchi.
“Questo è il marchio delle industrie von Kreen. Non dirmi che non te ne sei accorto perché non ci credo.”
“Sì che me ne sono accorto.”
“Allora, perché non l'hai riportata là? Gli spari erano sicuramente delle guardie.”
Perché me l'ha chiesto lei.
Risposta sbagliata, troppe domande. Emmelyn è brava, ma non capisce. Fredda scienza, nessun calore umano. Nessuna empatia.
“Ban? Ci sei?”
Il gigante scuote il capo, le treccine ricadono sul collo.
“Scusa, stavo raccogliendo le idee. Allora...”
Il pollice sollevato, come per iniziare a contare.
“Primo, sono quasi le quattro di notte, come mi hai giustamente ricordato. A quest'ora la fabbrica è chiusa alle visite... e poi, non avevo voglia di farmela a piedi fino alla cima della collina mentre aspettavo Jeff col SUV. Secondo, questo è un corpo del reato, oggetto di una segnalazione. Terzo, non credo succederà niente se gliela riportiamo con comodo domani mattina.”
“Ci sono almeno quattro falle logiche nel tuo ragionamento... ma se te ne prendi la responsabilità, io non ho niente in contrario.”
I guanti di lattice indossati, le mani intrecciate, scrocchiate.
“È sempre eccitante dissezionare una macchina morta. Al contrario, ripararne una attiva è una noia mortale. Lo faccio solo perché ti devo un favore.”
Il droide osserva i due umani, tenta di comprendere i loro discorsi. L'uomo è lo stesso che l'ha soccorsa, la donna è una sconosciuta. Capelli neri, occhi scuri, naso molto pronunciato. Per nulla interessante. L'attenzione distolta, uno sguardo all'ambiente, alla stanza in cui l'hanno portata. Mura bianche, tinteggiate di fresco, neon freddi ad illuminare l'ambiente. Ventole accese, ronzio di sottofondo monotono, ripetuto. Un letto al centro, lenzuola di carta assorbente. Cassette degli attrezzi impilate, strumenti di precisione affiancati a brugole e chiavi inglesi. Un'unica finestra. Chiusa.
“Non sarebbe meglio spegnerla, prima di operare? Potrebbe provare dolore.”
“Cristo, Ban! È una macchina! Possibile che al giorno d'oggi ci sia così tanta gente fissata con queste discussioni? Sono solo seghe mentali: questi affari simulano una personalità. In realtà, sono poco più che ammassi di circuiti. No, ci siamo completamente rincretiniti. Colpa di quei maledetti cartoni giapponesi.”
“Cosa volete farmi?”
Una voce flebile, preoccupata. Le casse dello stereo ancora connesse alla mano destra. L'unico modo per emettere suoni.
La dottoressa indossa la mascherina, passa in rassegna gli strumenti.
“Aggiustare le condutture d'olio lubrificante prima che i tuoi ingranaggi si inceppino. Per ora, ho solo bloccato la perdita.”
Un cenno della testa artificiale.
“Non volete distruggermi, quindi?”
“Non ne abbiamo motivo.”
Ban siede accanto al letto, gli avambracci titanici incrociati sul petto, incrocia i led violacei.
“Hai un nome?”
“No.”
“Brutta storia. Se non hai un nome, dobbiamo dartene uno. Non possiamo continuare a chiamarti droide.”
“No.”
“No?”
“Il nome è tutto ciò che di caro e importante avrei. Devo pensarci bene prima di scegliere. E voglio che rifletta la mia essenza, che accenda qualcosa in me.”
La dottoressa Kranzner scuote il capo, esasperata, gli occhi rivolti al cielo.
“Sì, come no. Proprio quello che ti dicevo, Ban: le programmano per sembrare umane, così la gente ci casca e crede che siano veramente in grado di pensare. Se la sottoponessimo ad un test di Turing, dubito che lo passerebbe. Puoi lasciarmi sola, adesso? Non riesco ad operare se c'è qualcun altro in sala.”
“Come farai con gli stagisti dell'università, allora?”
“Ci penserò quando sarà il momento.”
**
“Sì, l'ho trovata. È una Kramers della polizia. Doveva essere nuova fiammante... fino a poco fa.”
“Ottimo. Il mio cliente sarà contento.”
“Il nostro cliente. Siamo soci alla pari, no? Cinquanta e cinquanta.”
“Rilassati, negretto. Poi ne parliamo.”
“Ne parliamo?”
“Settanta-trenta. Non negoziabile. Trovarmi la tua faccia da culo attaccata al videocitofono alle quattro del mattino è stato uno shock. A momenti mi viene un infarto.”
“Sempre meglio che il tuo sguardo da pesce bollito.”
Roger controlla la scocca, individua a spanne il luogo dell'impatto, attacca il telefono all'orecchio.
“Non ho dubbi. Il nostro amico meccanico è stato investito. Scommetto che l'hanno portato in centrale”
“Capito. Ci penso io.”
“Niente spargimenti di sangue. Un solo morto e ti denuncio.”
“Sparare ad un agente di polizia all'interno di un commissariato in piena notte? Non sono così imbecille.”
“Me lo auguro.”
“Anch'io. A dopo.”
**
Uno sbadiglio profondo, annoiato, la rivista sfogliata con disinteresse. I soliti pettegolezzi, le solite storie, le indiscrezioni sul finale della terza stagione de La principessa dei petali di luce. Uno show infantile per adolescenti in crisi ormonale o adulti bavosi, secondo la Kranzner. Il costume di Eliphya non lasciava molto spazio all'immaginazione, in effetti. La pagina voltata, l'argomento successivo. Pubblicità di componenti e protesi meccaniche, parti di ricambio per esseri umani, corpi biologici con innesti artificiali. Un tonfo sordo, il giornale gettato a terra. Un moto di rabbia, le dita tremano, i denti serrati.
Un respiro. Un altro respiro. Calma, calma. Nessun bisogno di scomporsi.
Non ne guadagni nulla, Ban. Il passato non si può cambiare, concentrati sul futuro. Quello è ancora tutto da scrivere. Hai un lavoro, una casa, tre pasti caldi al giorno. Io... cosa dovrei dire?
Le parole della piccola rimbombarono nella sua mente. La piccola. Una bambina albina, di circa dieci anni. Senzatetto.
“Ha ragione. Devo smetterla di farmi del sangue marcio. E ricordarmi di portarle della cioccolata.”
Ban lascia la sedia, comincia a camminare in cerchio, in attesa. La porta del laboratorio ancora chiusa, il ronzio dei motori elettrici, gli strumenti di tortura della Kranzner.
All'improvviso, il silenzio.
Ban immobile, di fronte all'uscio, alla maniglia, indeciso se premerla o meno.
Un movimento, la serratura sbloccata, l'imbarazzo eliminato dalla fonte.
“Puoi entrare. La tua bella di plastica è a posto... almeno fino a domani mattina.”
Emmelyn sulla soglia, la mascherina abbassata, vistose occhiaie scure, un saldatore ancora in mano.
“Come sta?”
“Ha parlato per tutto il tempo – non che io l'abbia ascoltata, eh – ma ora sembra che dorma. Io vado a prendermi un caffè, poi filo a nanna. Tu fai quello che ti pare.”
Ban annuisce col capo, le treccine seguono il movimento. Un passo in avanti, l'ingresso in sala operatoria, lo sguardo al lettino. Rivestimento bruciato, fuso dal calore. Valvole e chiusure ermetiche, parti completamente assenti prima dell'intervento.
“L'arpia ha fatto un buon lavoro.”
Un sguardo tenero al viso inespressivo, ai led spenti, al movimento ritmico del torace.
E una stretta fraterna delle braccia enormi, quasi a rassicurarla.
A vegliare su di lei.
**
Il maniglione antipanico premuto con fastidio, il desiderio di tornare a casa, sotto le coperte. Quattro di notte, l'ora più buia. L'aurora ancora lontana, l'eco dei passi, delle proprie parole. La solitudine, il vento a trascinare le foglie, le nuvole di polvere. L'inquietante sensazione di non essere sola. E il rumore degli stivali sulle grate metalliche.
“Chi è là?”
Una voce dalle tenebre, nasale, stridula.
“Mi scusi...”
Emmelyn punta i piedi, i sensi in allerta, la mano sul calcio della pistola. Una figura delineata dalla fioca luce dei lampioni. Viso squadrato, occhi sottili, capelli rossi come il fuoco, barba ispida, corta. Giaccone da barbone, guanti a mezze dita, bandana bluastra attorno alla fronte. Una sigaretta artigianale tra le labbra.
“... è lei la responsabile di questo distretto?”
Un moto di sorpresa, lo sguardo puntato sull'uomo.
“Può darsi.”
“Sono qui per il robot, quello che è fuggito qualche ora fa dalle industrie von Kreen. So che lo avete trovato voi.”
“Lavora per loro?”
“Sono un collaboratore esterno.”
La mano protesa in avanti, il biglietto da visita tra l'indice e il medio. Emmelyn lo prende, tenta di leggere il nome stampato in caratteri sgraziati. Solo tre lettere.
“Red... e poi?”
“Red e basta. Ora, può essere così gentile da portarmi dal robot? Il dottor von Kreen non vede l'ora di riabbracciarlo.”
Interludio I - Klari
La lancetta dei secondi scatta a fatica, una tacca alla volta, segue il flusso del tempo. Quattro e diciassette minuti, un'ora infame. Troppo tardi per andare a dormire, troppo presto per mettersi al lavoro. Il giaccone beige appeso all'attaccapanni, il bastone appoggiato al muro della villa vittoriana. Quadri e statue ad attendere il suo ritorno, i ritratti di giovani donne e ragazze discinte. Riproduzioni in scala, ologrammi, disegni. L'intero piano terra ricolmo da volti perfetti, lo sguardo diretto all'ingresso. Ventidue anni di prove e design, l'arte classica come ispirazione, il Giappone come riferimento.
“Perché progetta soltanto ginoidi? Perché non costruisce anche robot di sesso maschile?”
“Perché devo donare al mondo la bellezza ideale. L'immagine a cui tutti potranno ispirarsi, anche nei momenti più cupi. Devo donare al mondo la purezza di cui ha bisogno.”
Risposta standard per giornalisti, curiosi, associazioni femministe. Una risposta insoddisfacente.
“E se fossi solamente un depravato? A cinquant'anni, continuo a progettare robot con l'aspetto di ragazzine appena maggiorenni. Già, questo spiegherebbe molte cose...”
Passi incostanti verso la rampa di scale, il salone principale lasciato alle spalle. Una foto appesa alla parete, l'unica diversa. Un uomo, quarant'anni, capelli azzurri, tatuaggi blu sul viso abbronzato, occhialoni da sabbionaio, una bimba di qualche mese stretta tra le braccia. Una carezza sulla carta lucida, un sorriso malinconico.
“Sei stato tu a dirmi di crederci fino in fondo. Sei stato tu a procurarmi l'yrite. Cosa dovrei fare ora? Fermarmi perché... perché...”
Il capo scrollato con forza, la schiena voltata al ritratto.
“Devo essere proprio rincretinito per parlare ad una foto... e sperare che mi risponda.”
Passi lenti, verso l'ala est, verso la camera, una porta di rovere laccato ad accoglierlo. La chiave estratta dalla tasca, un movimento rapido della mano, la serratura scatta. E un raggio di luce filtra all'interno, nell'ombra di pece.
“Sei tu?”
“Sì. Posso entrare?”
“Lo stai già facendo.”
Una voce stanca, vuota. Un brivido lungo la schiena.
“Non è che così mi aiuti, Klari.”
“Smettila.”
Un passo, un altro passo. La mano scivola lungo la parete, preme l'interruttore. Il lampadario si anima, fiamme di vetro scintillano sul soffitto. Una ragazza, seduta per terra, al centro di una stanza spoglia. Incarnato europeo, iridi candide, capelli di neve lunghi sino al pavimento. Vestaglia bianca, piedi scalzi, i polsi nascosti dalle maniche lunghe.
“Lo faccio per il tuo bene. Io non voglio che tu muoia.”
“E io? Ti interessa qualcosa del mio parere?”
Kreen incrocia le braccia, la schiena appoggiata all'intonaco. Disegni multicolori ad ornare le pareti, affreschi, scene di vita gioiosa.
“No, hai ragione. Ti sto trattenendo contro la tua volontà...”
La mano massaggia la fronte, stropiccia le palpebre per allontanare il sonno.
“... ma prova a metterti nei miei panni. Ho dovuto sospendere la produzione, a causa del tuo... del vostro comportamento.”
Kreen abbassa lo sguardo, incontra solo specchi inespressivi.
“Il mio sogno si è infranto proprio sulla linea del traguardo. E voglio capire il perché.”
Silenzio, silenzio di tomba.
“Klari...”
“Non è il mio nome. Io non ho un nome. Klari è un'altra.”
L'esplosione della voce, il gran finale dell'orchestra riunita.
“Allora chiamala, quest'altra! Chiamala e dille di venire qui, di rispondermi, di spiegarmi perché ho dovuto smontarti le mani, perché mi ha costretto a rinchiuderti in una stanza vuota, perché ho dovuto abbassare al minimo la tua soglia del dolore...”
Gli occhi sgranati, l'orrore sul volto.
“... per impedire che tenti ancora di suicidarti?”
5. Red
Camminata claudicante, il piede sinistro trascinato, le mani nelle tasche. Fumo denso dalla punta della sigaretta. Fumo profumato, niente tabacco. Miscela di erbe, un vago senso di euforia. Emmelyn mulina la mano, disperde la nuvola dolciastra.
“Come avete saputo del ritrovamento?”
Le spalle scrollate con noncuranza, occhi invetrati, fissi.
“Il mio collega su alla fabbrica ha rinvenuto i rottami di una volante a pochi chilometri dalla cima della collina. L'auto ha investito qualcosa di sufficientemente resistente da distruggere il cofano e piegare il paraurti. Il daino era dato a dieci, il cinghiale a sette. Per un po' ho ventilato persino l'ipotesi che fosse stata colpa di un albero. Solo per un po'. In genere, gli alberi se ne stanno buoni ai margini della strada.”
“I... in genere, sì.”
Il lampione si accende, si spegne a intermittenza. Buio e luce si alternano in una danza di ombre cinesi improvvisate. Emmelyn segue l'uomo a breve distanza, non lascia che si allontani troppo.
“La vedo un po' tesa, signorina. Qualche problema?”
“Non vi aspettavamo così presto.”
“La mia paga è legata alla mia efficienza. Prima agisco meglio è.”
I quattro gradini superati, un sguardo sospetto alla porta del commissariato. Red preme la maniglia, spinge, tira, lascia la presa. Ispeziona l'ingresso, cerca freneticamente il pulsante di apertura.
“Come cazzo si entra qui?!”
“A quest'ora, bisogna citofonare alla guardia.”
“Installare un lettore biometrico?”
“Non è sicuro quanto una persona vera.”
Emmelyn supera l'uomo, preme il comando di chiamata. Una voce assonnata in risposta.
“Commissariato di Northern Algol. Chi è?”
“Jeff, sono io. Abbiamo visite.”
“Visite?”
“Un dipendente delle industrie von Kreen. È qui per il robot.”
“Capisco. Apro la porta?”
“Fai tu.”
Fai tu. Parola chiave, scambio di complicità. Nel gergo interno, controlla le sue credenziali. Un'immagine scattata dalla telecamera di sicurezza, riversata nell'archivio, in cerca di corrispondenza. Check incrociati, dati emersi in un paio di secondi.
Jerediah Horowitz. Trentatré anni. Nessun precedente noto in Britannia. Il logo olografico delle industrie sulla scheda. Collaboratore occasionale.
“Okay, nulla da segnalare.”
Il tasto premuto dal grosso indice, la porta d'ingresso sbloccata.
“Scusate se non suono la fanfara, ma non voglio disturbare i vicini.”
Red varca la soglia, solleva la mano in segno di saluto.
“Nessun problema. Prendo il rottame e me ne vado.”
Emmelyn lo supera di nuovo, raggiunge il corridoio principale.
“Forse sarebbe meglio aspettare fino a domani. L'abbiamo dovuta sottoporre ad un intervento di ricostruzione per evitare che si danneggiassero i centri cognitivi.”
Lo spinello spento nel posacenere della guardina, senza quasi ascoltare.
“Non mi interessa. Devo solo riportarla indietro, viva o rotta, il prima possibile. Sarebbe un disastro se uno dei nostri concorrenti potesse analizzarne la struttura. Ha idea di quanti brevetti sono in ballo?”
“Non saprei. Quanti?”
“Più degli anni che cerca di nascondere immergendosi nel botulino.”
Le unghie graffiano i palmi, Emmelyn trattiene un insulto, mantiene il sangue freddo. Inutile scatenare una rissa per un'offesa. Specie, a quest'ora della notte. Un respiro rumoroso, un ringhio mascherato, passi veloci senza guardarsi indietro.
“Mi segua.”
Red prosegue senza fretta, la suola sinistra striscia sul pavimento. Una sagoma pallida sul muro scuro, la porta chiusa della sala di dissezione.
“È qui?”
“Sì. Aspetti, ora la faccio entrare.”
Uno scatto della maniglia, la stanza bianca immersa nella luce dei neon. Cassette degli attrezzi, un lettino per le operazioni, armadi e credenze ricolme di strumenti fino all'orlo. Un uomo di colore seduto in un angolo, treccine rasta, mento squadrato, pizzetto. Avambracci sproporzionati, pettorali gonfi, colossali.
Panca e anabolizzanti, eh?
Iridi arancioni ad incrociare pupille sottili, immobili.
“Chi è questo, Emmelyn?”
“Il signor Red, un inviato delle Kreen Industries. È qui per il robot.”
Un movimento sul lettino, il respiro accelerato, il battito del cuore meccanico. Luci viola abbaglianti, risveglio traumatico, il volto liscio ruotato verso Ban, una voce implorante dalla radio.
“No! Non voglio! Non riportarmi là!”
Red scrocchia il collo, arriccia i capelli con le dita.
“Ehi, bellezza... non rendermi le cose difficili . Tu sei scappata e io ti riporto a casa. Punto.”
Led lampeggianti, movimenti convulsi delle braccia. Il bacino si inarca, tenta di attivare gambe inesistenti.
“No... no... vi prego, no! Vi scongiuro!”
Red piegato in avanti, le mani sulle ginocchia, il viso a pochi centimetri dalla plastica bianca.
“Non mi incanti. Sei solo una macchina. E sai che le macchine si possono spegnere, vero?”
“Ora basta.”
Un rombo di tuono, l'intera stanza scossa da un tremito, per un interminabile secondo. Il gigante in piedi, le braccia imponenti lungo i fianchi, i pugni chiusi. Red distoglie lo sguardo dal robot, fissa Ban senza cambiare espressione.
“Ehi, negretto, rilassati. Io sono qui per fare il mio lavoro, a quest'ora di merda. Sono stanco, siamo tutti stanchi. Vorremmo essere nel nostro letto a dormire, invece siamo qui a litigare per un automa. Se mi lasci fare, andrà tutto a posto, sul serio. La riporto in fabbrica e fine della storia, senza bisogno di scomodare nessun pezzo grosso.”
Ban incrocia le braccia, i bicipiti contratti.
“Lei ha detto che non vuole tornare alla fabbrica. Perché?”
“Lei...?”
Una risata acuta, ad alto volume, la mano premuta contro gli addominali.
“Oh, andiamo! È solo un fottutissimo, stupido rottame!”
“È un corpo del reato soggetto a custodia. Anche se lei lavora per le industrie von Kreen, mi dispiace informarla che non ha il diritto di prelevarla. Dobbiamo compiere ancora degli accertamenti sui fatti avvenuti stanotte.”
Una sigaretta estratta dalla tasca della giacca, portata alle labbra.
“Come ti chiami negretto? Dai, dimmelo, così poi so dire al capo chi è che mi ha messo i bastoni tra le ruote.”
“Non si può fumare qui dentro.”
“Ah, no? Peccato.”
La nicotina riposta nel portafoglio, un sospiro sconsolato.
“Comunque, non mi hai ancora risposto.”
“Ban Cardia, agente dell'unità speciale.”
“Il piacere è tutto tuo. Bene, ora che ci siamo presentati, cosa ne dici di lasciarmi fare quello per cui sono venuto?”
Red si allontana dal colosso, passi svelti verso la branda.
“Ti prego... non riportarmi là...”
“Mi dispiace, bellezza.”
Una mano sulla spalla, un forte strattone.
“Non ho ancora finito, Red.”
Rotazione del busto, Red si libera dalla presa, stabilizza la posizione. La mano sinistra scosta il giaccone, la mano destra insinuata all'interno, a sfiorare un oggetto metallico. Un luccichio nella penombra, il neon riflesso sulla superficie lucida.
“Invece credo proprio di sì. Se la vostra decisione è questa, non mi resta altra scelta che...”
Uno scoppio improvviso, onda d'urto esplosiva. Il pugno di Ban raggiunge lo stomaco, onde di pressione nell'aria, concentriche, anelli di condensa. Gli occhi sgranati, il respiro mozzato, la bocca spalancata in un'espressione di sorpresa. Il corpo di Red immobile, piegato a quarantacinque gradi, per un istante.
Un istante solo, prima di volare contro la parete, di schiantarsi contro l'intonaco fresco.
La nuca impatta contro i mattoni, contraccolpo brutale, caduta di faccia. Red riacquista il controllo, proietta le mani in avanti, attutisce il colpo, il naso a due centimetri dal pavimento. Il grido rauco di una donna, il crepitio del cemento, una nuvola di polvere, di calcinacci. Red rotola per terra, si mette in ginocchio, solleva la maglia, tasta la superficie del giubbotto antiproiettile. Una rientranza a livello dell'addome, un cratere di venti centimetri. Lo sgomento di un attimo, il tempo di alzare lo sguardo, di non trovare traccia del robot.
“Ma che cazzo...”
Red ruota la testa, ringrazia la bandana imbottita, la corazza tattica nascosta. Un contenitore di latta a pochi centimetri dai piedi, un orsacchiotto rosa disegnato sul coperchio.
“... io volevo solo offrirgli una caramell...”
Emmelyn Kranzner appiattita alla porta d'ingresso, il cuore a mille. Un attimo di esitazione, la testa segue la direzione del suo sguardo. L'intero corpo attraversato da un sussulto.
“...ah.”
Un respiro rumoroso, la reazione di chi è abituato all'assurdo, il numero digitato sulla tastiera virtuale, il telefono portato rapidamente all'orecchio. Uno squillo, due squilli, tre squi...
“Roger, sono io. Credo di aver bisogno di aiuto. Come dici? No, non è colpa mia stavolta. È solo che...”
Le dita sfiorano tremanti l'intonaco, le crepe, i mattoni frantumati.
“... be', anche se te lo dicessi, non ci crederesti. Ci vediamo lì tra cinque minuti. A dopo.”
Red termina la chiamata, ripone il cellulare, senza staccare gli occhi dal muro.
O quello che ne resta.
Un buco di due metri di diametro.
Aperto con un pugno.
6. Ban Cardia
“Devo essere completamente scemo.”
Gli stivali percuotono l'asfalto, feriscono il manto stradale con violenza. Palazzi scuri, la notte padrona delle strade, sguardi di vetro tra lampioni sfocati. Le finestre a specchio fissano dall'alto, borbottano tra loro. Sibili e scricchiolii, ghigni nascosti dal cigolio di una porta. I bidoni osservano muti il passaggio del gigante, il minuscolo corpo martoriato tra le sue braccia. Bagliori purpurei nell'aria pesante, speranza covata nel cuore d'acciaio. La mano sottile si stringe alla giacca, tenta il contatto con la pelle scura, ne brama il calore. Una carezza sul viso liscio, come a ricambiare l'affetto ricevuto. Un cenno del capo, l'amplificatore collegato al collo, appena sotto il mento.
“... grazie.”
Ban ascolta, mugugna, scuote la testa.
“Grazie di cosa? Se ci prendono, siamo belli che finiti. Io vado in gattabuia, tu in discarica.”
Gocce di sudore lungo la fronte, l'ululato dei cani in lontananza. Branchi di randagi affamati, escono alla Luna per placare l'appetito. Ban scarta a sinistra, vicoli stretti, le spalle a raschiare contro i mattoni sporgenti. Un tuono in lontananza, guaiti, lamenti. Gli animali avvertono il cambio nel tempo.
“Solo questa ci mancava.”
La mente vaga senza meta, tenta un'analisi lucida.
A casa non posso tornarci, è il primo posto che controllano.
Uno sguardo all'essere indifeso, alla ragione della sua fuga.
…ma non posso fuggire in eterno. Anche se mi nascondessi tra i senzatetto, lei non sopravviverebbe a lungo.
“Che cosa faccio, che cosa faccio, che cosa...”
Rapida occhiata ai dintorni, un ampio spiazzo tra i palazzi, graffiti e murales, disegni osceni tratteggiati con vernice fosforescente. Un emofago con il dito medio sollevato, insulti razziali in varie lingue, mostri, macchie di colore, una ragazza in preghiera, fiori gialli sovrimpressi al vestito rosa, sulla sfera bianca luccicante tra le sue mani.
Un lampo di consapevolezza, ricordi vividi.
“... un momento.”
Passi svelti, nuvole addensate nel cielo, le palazzine a nascondere le stelle, la direzione imboccata senza esitare, verso il nido, verso l'underground.
“Non ho alternative.”
Rombi cupi, in sottofondo, la pioggia in attesa, asserragliata nelle nuvole, in attesa del momento migliore per scatenarsi e dominare la città.
Le pareti opache, il cielo coperto, intonaco scorticato sulle facciate dei palazzi. Grigiore soffuso, fumi di scarico, ventole di aerazione in movimento continuo.
All'improvviso, un'apertura, luce lunare trasmessa.
Un albero secco, in mezzo alla strada.
Ed una bambina, seduta al suo fianco.