Distortionverse - Sweet Dreams (2015)

AJLogo

"Sweet Dreams" è la storia mancante di Distortionverse, mai pubblicata per motivi che ancora oggi non mi sono chiari. La storia è connessa in modo tangenziale al ciclo di Baal e Veckert, mostrando Silman in un ruolo secondario nell'aspetto poi ripreso da Schwarzerblitz. "Sweet Dreams" è una storia completa, dall'inizio alla fine, e mi dispiace averla tenuta nel mio archivio così a lungo. Anche se alcuni aspetti potrebbero essere non più esattamente canonici, la ritengo ancora una storia degna di essere letta.


2063 – Shard, Britannia

1. La fata del sonno


Una vibrazione nell'aria, l'abbaiare lontano dei cani. Dobermann addestrati, trattenuti a stento da guardie armate. Nervosismo, ansia, voglia di tornare a casa, rintanarsi sotto le coperte e farla finita col giorno, riposare la mente e il corpo.

Non sembrano molto svegli.

Sbadigli, strattoni al guinzaglio, torce accese e spente a ritmo, un gioco per passare il tempo. I mitra Sachson carichi, la sicura innestata. Vigilanti improvvisati, raccattati tra gli infermieri più svegli. Qualcuno ha militato nell'esercito, anche se per poco.

Una seccatura in più...

Due guardie di fronte all'ingresso principale, altre otto sparse attorno al perimetro. Il freddo delle tre di notte penetra fin dentro le ossa, intirizzisce il corpo e la mente.

Un bagliore nel buio, il luccichio di un iride cerulea.

Si comincia.


**


Io non sono cattiva. Per niente. È solo una stupida etichetta che mi viene assegnata da chi non mi conosce. Cattivo non ha un senso proprio, non vuol dire nulla. È il primo termine che viene utilizzato per definire ciò che è contrario alla nostra idea di bontà. Chi non è buono, è cattivo. Punto. La nostra mente è troppo stupida per accettare la via di mezzo, la zona grigia. Così, anche chi non è cattivo, lo diventa.

Solo perché non è schifosamente, disgustosamente buono.


**


“Ehi, cos'hai?”

Il cane punta verso i cespugli, ringhia, ulula. La guardia rafforza la presa, molla il calcio del fucile, due mani a trattenere il sottile cavo per ammansire l'animale.

“A cuccia, Marshall! A cuccia!”

L'infermiere urla, sovrasta i ruggiti del dobermann. L'altro sistema i capelli con fare distratto.

“Sarà'n calore. È il periodo...”

Due passi in direzione del collega, l'arma a penzoloni lungo la schiena.

“Certo, ci mancava solo questa. Forza, aiutami a calmarlo.”

Guaiti, le zampe abbarbicate al terreno, gli insulti dei due uomini, improperi e bestemmie verso il pantheon divino. Un fracasso d'inferno, i rumori di fondo relegati in secondo piano.

Compreso il tenue brusio di passi felpati.


**


Io non sono buona. Buono è chi vive la sua esistenza da perfettino senza mai contravvenire alla morale o alle regole precostituite. Buono è chi dedica la propria vita agli altri a discapito della propria. Se questo è quello che significa essere buoni, allora nemmeno ci tengo ad esserlo. Odio l'ordine, la normalità, la detesto nel profondo. Ecco perché ho attivato quel fischietto ad ultrasuoni, imbizzarrendo il cagnolino. Un po' di caos è la cornice ideale in questa magica serata.

Mi volto un istante, osservo divertita i due vigilantes improvvisati correre come pazzi dietro al dobermann.

Il fischietto si spegnerà tra due ore, saltando come un grillo in un raggio di cento metri. Prima che lo trovino, passerà molto, molto tempo.

Lo so, lo so: prima ho detto che non sono cattiva.

Ma non ho mai negato di essere sadica.


**


Una figura snella, sottile, celata dalle tenebre. Cammina rasente al muro, spostamenti lenti ed equilibrati. Nessuna fretta, tanto le guardie sono tutte fuori. Un rapido sguardo all'elenco, due secondi per completare i calcoli a mente. Un tocco leggero sulla fondina, controllo certosino delle armi.

Coltello, pistola... c'è tutto.

Luci di emergenza verdi, il muggito sommesso dell'aria condizionata.

Tre piani di scale all'obiettivo.


**


Shard non è St. Patrick SHIELD. Qui è fin troppo facile forzare i lucchetti. Me lo diceva sempre mio fratello che una volta fuori da quella maledetta cupola mi sarei trovata in Paradiso. Un luogo pervaso di celestial luce armoniosa ove angeli dall'ali d'or sorvolan l'aere perenne...

Poetico, huh?

Quando ero piccola, ascoltavo rapita le storie sugli angeli che mi raccontava mia madre, a Firenze. Desideravo incontrarne uno, poter accarezzare le sue morbide piume batuffolose.

E strappargli entrambe le ali, così da averle solo per me.


**


Un cigolio sommesso, la porta scricchiola dolcemente. Un alito di vento fresco, attraverso l'unica finestra socchiusa. Un letto al centro della stanza, enormi monitor ai fianchi, accesi, led brillanti nella penombra. Un pallido raggio di Luna, rischiara le tende ed i cuori. Movimenti lenti, studiati con estrema cura. Uno sgabello rosso, buttato in un angolo della camera. Rosso come i capelli.

“Jacquie?”

Una carezza sulla fronte calda, le dita emergono dai guanti tagliati.

Il bimbo si dimena, scrolla il capo, il sonno frammentato dal tocco gentile.

“Chi... chi è?”

Gli occhi dischiusi, la testa ruota, le iridi incontrano due bizzarri fuochi fatui, azzurri come il mare, in perenne agitazione.

“Sono io, ti ricordi di me?”

Il sollievo, una luce nuova illumina il suo volto.

“La fata dei sogni?”

La ragazza annuisce, si siede accanto a lui, le mani giunte a stringere i minuscoli palmi delicati.

“Sei venuta da me... come avevi promesso.”

Un altro cenno di assenso, la mano fruga nelle tasche, recupera un minuscolo confetto.

Un sorriso sollevato attraversa il viso del bambino.

“Ora dormirò meglio, vero?”


**


“Presto, presto!”

Le armi spianate, il proiettile in canna. Marshall accoccolato di fronte all'ingresso, un minuscolo radioemettitore serrato tra le zanne. Corsa trafelata lungo le scale, ogni gradino un passo verso l'abisso.

“Era un diversivo! Un fottuto diversivo!”

“Mio Dio, speriamo che non sia troppo tardi!”

Il proprietario del cane impreca, l'altro lucida i lunghi capelli verdi.

“Se è troppo tardi, ce ne faremo una ragione. L'importante è metterlo nel sacco, chista volta.”

“Aspetta!”

Il respiro mozzato, le gambe tremanti.

“Guarda... là. La porta...”

La sicura disinserita, un gesto automatico, abituale. Un ringhio masticato con violenza, l'urlo soffocato tra le labbra.

“Non... non Jacquie!”


**


“Grazie...”

Jacquie appoggia il capo assopito sul cuscino, un'aura di timida pace.

“... grazie, fata dei sogni...”

Le dita strette attorno ai lembi di tessuto candido, prima serrate con forza, poi via via più rilassate.

“... ti voglio... bene.”

La ragazza sospira, un sussulto nell'oceano degli occhi.

Come ogni volta.

Rimbocca le coperte, sistema il morbido lenzuolo con calma.

Troppa calma.

Un rumore secco, famigliare. Un caricatore da ottanta colpi, un fucile Sachson M-70 spianato.

“Nissuno t'ha mai detto che li bambini si lasciano dormire?”

Un attimo di silenzio, il ronzio sordo delle ventole. L'infermiere scuote il capo, i capelli oscillano in moto ondulato.

“Allora, che ti rispondi? Sei rimasta senza parole, stronza?”

Una risata argentea, divertita. Le braccia alzate in segno di resa.

“... i bambini si lasciano dormire, eh?”

Le iridi azzurre balenano nel buio, una scintilla bizzosa nelle tenebre cupe.

“Io sono venuta esattamente per quello.”


**


Detesto queste situazioni. Le guardie improvvisate, le armi semiautomatiche, il solito tizio che si atteggia come il duro di turno solo perché ha un calibro nove tra le mani. Con quegli orribili capelli verdi, poi.

Come se un fucile in più o in meno potesse fare la differenza.

Dico, perché sia efficace, il grilletto bisognerebbe riuscire a premerlo.


**


Un calcio preciso sotto il mento, gli occhi sgranati in un'espressione di sorpresa. L'altra guardia incespica, ricaccia un grido in gola mentre il collega stramazza al suolo. Gira sui tacchi, tenta di imbracciare il mitra. Ma è lento.

Troppo lento.

Un colpo secco al collo, uno all'addome, un pugno sul naso. Crolla a terra, un fiume vermiglio sbocciato dalle narici.

La ragazza scrocchia il collo, ignora i corpi stesi sul pavimento, le chiazze di emoglobina. Solo Jacquie è importante ora. Lo sguardo assorto, le dita sottili sfiorano i capelli castani.

“Sogni d'oro, piccolo.”

La mano sfiora le guance, accarezza la pelle fredda.

“Dormi... bene.”

Fredda come quella di un cadavere.


2. Un motivo sufficiente


Metro, ora di punta. Fiumare di pendolari, uomini e donne, in ogni direzione. Una macchia incolore tra la folla, cappotto grigio, spalline scure, maniche nere, guanti dello stesso colore. Una zazzera biondo cenere, un orologio a led, il numero brilla sul quadrante. Passi pesanti, scarponi da montagna sull'asfalto ruvido. Lo sguardo rivolto all'immenso edificio. L'ospedale Sant'Elena, un cubo di cemento armato costellato di vetrate. Lampeggianti blu, a destra, a sinistra. Nastro giallo, scritte di pece, police line, don't cross.

“Al diavolo! Cos'è successo, stavolta?”

Un agente compare dal nulla, sbarra la strada.

“Buongiorno, desidera?”

Accento francese marcato, nessuna voglia di parlare. Distretto di Shard, divisa bluastra, priva di fronzoli.

“Mi chiamo Karel Rheitner. Ho un appuntamento col dottor Loocke.”

“Può provarlo?”

Gli occhi ruotano nelle orbite, uno sbuffo poco convinto, l'orologio sollevato con un moto di stizza. Uno sguardo distratto al display.

“Okay, entri pure.”


**


Shard è una città orribile. Detesto avere a che fare con questo posto... ma non ho alternative. Almeno una volta al mese devo cambiare due treni, prendere un autobus fino alla stazione est della metro e farmi strada tra folle assatanate di impiegati e lavoratori in genere.

Se fosse per me, non la vedrei neppure in cartolina.

Peccato che ne vada della mia vita.


**


Un osso sgranocchiato, il dobermann accucciato accanto al padrone. Due uomini, in piedi, incerottati. Divise da infermieri, chiazze rossastre sul bianco asettico, frasi concitate. Capelli verdi lunghi uno, viola e più corti l'altro – più una garza estesa a tamponare il naso piatto, quasi assente. Il primo sbraita, impreca, insulta gli agenti.

“No che non l'ho visto! Mi sono beccato nu' calcione in copp'al mento che m'ha spedit'all'altra parte! E manco me lo ricoddo che m'ha colpito! Mi son trovat'a terra con l'impronta d'uno stivale acchì, sotto la mandibola!”

“Ma si sarà girato per colpirla in quel modo...”

“Che debbo divve? Io mica so' riuscito a scorgerlo! È come se c'avessi rimosso l'immagine!”

Karel passa oltre, un filtro nelle orecchie. Parole vuote, eliminate senza pietà, centri nervosi liberi di concentrarsi su ciò che è davvero importante. Frotte di pazienti, donne con gli occhi gonfi, medici in assetto da guerra, le forze dell'ordine relegate sullo sfondo. Volti noti, già incontrati negli ultimi dieci anni. Qualche faccia nuova, ancora da inquadrare. Un dettaglio, un particolare fuori posto, un'occhiata distratta all'uscita. Una ragazza sui vent'anni, capelli rossi a caschetto, basco calato sulla fronte, piuttosto inclinato, gli abiti sgualciti, i resti di una divisa militare. Molta pelle esposta.

Difficile non notarla.

Si volta, uno scatto del collo. Un cuore fucsia tatuato sulla guancia sinistra, occhi blu profondi, incrociano le iridi azzurro ghiaccio di Karel, le trafiggono.

Ma è un istante, un attimo soltanto, prima di sparire nuovamente tra la folla.


**


Oh, è estremamente eccitante filarmela alla chetichella sotto gli sguardi attoniti della polizia! Mi fermano, mi perquisiscono, gettano un occhio sulle mie forme generose, si insinuano tra i miei abiti rattoppati, abbassano la guardia, non trovano né il coltello né la pistola – sono prototipi polimorfi, come posso biasimarli? – e mi lasciano andare.

Ogni volta.

Attiro l'attenzione, è impossibile non notarmi, ma qual è il problema?

Se passassi inosservata, perderei metà del divertimento!


**


Un rumore ripetuto, le nocche sull'alluminio della porta.

“Un attimo.”

Il vecchio lascia la comoda poltrona, si appoggia al bastone, raggiunge l'ingresso dello studio. La maniglia si abbassa, il bussare cessa all'improvviso. Un giovane sull'uscio, amarezza sul viso. Un rituale ripetuto con esasperante regolarità. Un sorriso forzato, di scherno.

“Dottor Loocke, quando si deciderà ad installare l'apertura telecomandata?”

“Quando il medico mi ordinerà di non camminare più, Mizar.”

Il bastone di quercia ricurva, il cranio pelato, baffoni grigi su una folta barba da capra, minuscoli occhiali da vista posati sul naso aquilino, sopracciglia cespugliose, quasi collegate. Un passo dopo l'altro, in direzione della scrivania, chiuso nel camice bianco.

“So che per te non è così, ma da parte mia è un estremo piacere rivederti in salute. Quindici anni fa, nessuno avrebbe mai scommesso su di te. Sei un trionfo della scienza, ragazzo mio.”

Karel grugnisce, il pugno accartocciato, venuzze contorte in rilievo sotto il tessuto del guanto.

Questo dovrei deciderlo io.

Loocke ignora la reazione, si lascia cadere sulla sedia.

“Dunque... posso vedere l'indicatore di carica?”


**


Edward Loocke. Un luminare, per molti. Un eroe, per alcuni. Un macellaio criminale, per il resto del mondo. La verità processuale parteggia per la prima definizione. L'opinione pubblica per la terza. Io ho sospeso il mio giudizio. Se non fosse per quest'uomo, io non sarei qui, ora.

Il che è un motivo sufficiente per sopportarlo e starlo ad ascoltare.


**


“Avete avuto delle grane? Ho incontrato Pascali e Santuzzo nell'atrio. Erano conciati parecchio male. Uno dei due aveva pure il naso rotto, con quel cerottone sulla faccia sembrava quasi che glielo avessero tagliato via...”

Un suono gutturale ripetuto, le spalle del medico si sollevano a ritmo convulso. Una risata – o presunta tale.

“Non ci ha perso molto, allora: non è che quando è sano, il suo naso spicchi più di tanto.”

Uno scrollone secco, la serietà ritrovata.

“Perché negarlo? Sì, abbiamo un problema. E grave, anche.”

Le dita nodose sistemano gli occhiali da vista, si stringono attorno alla montatura.

“Hai mai sentito parlare dell'angelo del sonno?”


**


Poi, diciamo che le mie dotazioni mi forniscono un notevole supporto. Le pasticche per cancellare la memoria a breve termine – uno, due minuti – la moto ad accensione vocale, il cellulare multibanda satellitare, il jammer semiuniversale per allarmi e telecamere di sorveglianza...

Vicky criticava spesso i miei acquisti, li definiva superflui. Avrei dovuto spendere i miei dindini in tradina? No, grazie.

Preferisco riempirmi di ninnoli e novità tecnologiche all'ultimo grido.

Gingilli inutili, quando si cacciano emofagi.

Compagni insostituibili, se lasci la zona morta.


**


“Qualcuno lo chiama anche fata del sonno – nessuno sa se sia maschio o femmina. Sembra che abbia una predilezione per i pazienti ricoverati da più di un anno nei nostri ospedali.”

Karel annoda la corta treccia sopra l'orecchio destro, gioca con i capelli.

“Che lei ci creda o no, a Gunkragen la voce non è ancora arrivata, doc.”

“Da quanto non segui un notiziario, Mizar?”

Un sospiro appena accennato, le spalle scrollate con noncuranza.

“Guerre, crisi, tentativi di secessione. Per quale motivo dovrei rovinarmi ogni santa giornata con avvenimenti di questo genere? Ho smesso da tempo di seguire i videogiornali.”

“Male.”

Loocke riprende fiato, le mani intrecciate davanti al volto.

“Questa notte, l'angelo è stato qui. E ha ucciso un bambino di nove anni.”


3. Yokkani


Lascio il Sant'Elena piuttosto seccato, senza una risposta. Loocke era troppo scosso per farmi le analisi di rito. Devi tornare domani, oggi abbiamo questa brutta gatta da pelare. Guarda, ti posso far preparare una stanza qui, così...

L'ho ascoltato fino a questo punto, poi ho spento il cervello. Passare una notte in ospedale.

In quell'ospedale.

No, grazie. Ci ho già trascorso più di metà della mia infanzia. Meglio una pensione mezza stella, basta che abbia un letto ed un bagno. Anzi, potrei quasi andarmene e mandare a quel paese la visita, dimenticarmi di tutto e fuggire da questo posto, tornarmene a casa forse.

No, chi voglio convincere?

Non sono in grado di rifiutare.

Non ne ho alcun diritto.


**


Il soffio impetuoso del vento artico, passanti acconchigliati in pesanti indumenti invernali. Una giovane controcorrente, vestita dei suoi abiti stracciati. Top verde acqua, metà giacca nera – solo il lato sinistro intatto, una manica lunga, pantaloni dello stesso colore, stivaletti lucidi, l'ombelico in bella mostra, il pizzo ammicca poco sopra la cintura. Gli uomini si voltano al suo passaggio, le donne schiamazzano, occhiatacce maligne, insinuazioni pesanti.

Un fischiettio allegro, una punta di dolcezza nella fredda giornata invernale. Un borbottio nello stomaco.

“Uh, è quasi ora di pranzo.”

Uno sguardo veloce ai dintorni. Ristoranti, taverne, trattorie. Menù a due zeri.

Il portafoglio aperto, due foto all'interno, un angioletto di plastica come ornamento, mutilato.

Ho solo dieci sterline con me. Dovevo portarmi di più...

Gli occhi rivolti al cielo, alle nuvole cupe.

“Mi resta solo un'alternativa.”


**


“Irasshaimase, Mizasu! Sono mesi ke non c'i bediamo!”

“Ciao, Gozo. Noto che la tua padronanza della lingua è migliorata.”

Un cancride, alto un metro e ottanta. Una spessa corazza sulla schiena, chele bitorzolute al posto delle mani, quattro zampe aculeate come gambe, due occhi neri curiosi, vigili. Un vestito azzurro con grembiule, a contenere il corpo sproporzionato.

“Buoi manjare? Ho appena p'reparatoo sushi per' jirop'ranzo!”

“Non ho molta voglia di riso e pesce crudo, oggi...”

Un occhiata al locale, ai sette-otto tavoli disposti attorno alla rotaia centrale per la distribuzione delle pietanze. Foto virate in seppia a decorare le pareti, ritratti dei momenti di gloria del proprietario. La pupilla scruta i tavoli liberi, quelli occupati, i pochi clienti. Una coppia di anziani, due operai e...

Un momento...

Un passo deciso verso l'interno.

“Ci ho ripensato. Mi sa che ti ordino un pranzo completo.”

Gozo batte le chele divertito.

“Subarashi! Mizasu, mi fai mor'to onore! Ent'ra, p'rego!”


**


Conosco Gozo Shinbura da quando ho nove anni. Penso sia stato la mascotte di qualche parco di divertimenti inglese – una specie di freakshow o qualcosa del genere. Ogni volta che glielo chiedo, Gozo mi dice di non ricordarsi come è nato, che si è ritrovato autocosciente sul fondo del mar Baltico circa cinquant'anni fa. Forse il disastro di DP-0 è la causa indiretta della sua mutazione, forse no. Ad ogni modo, lo hanno pescato e gli hanno inculcato il giapponese nel cranio. Penso che volessero presentarlo come un kaiju in miniatura, ma hanno commesso due errori: primo, Gozo è buono come il pane; secondo, neanche chi gli ha insegnato a parlare conosceva il giapponese.

E questo è il risultato.


**


Lamenti ininterrotti, gli operai gridano, insultano il datore di lavoro, gli anziani confabulano, discutendo di tempi passati. La ragazza continua a fissare il menù, l'indice scorre senza sosta lungo la lista, sottolineando di volta in volta il prezzo.

Dodici sterline, quindici sterline, tredici sterline e mezzo...

Uno sospiro sconsolato.

“Mi sa che anche per oggi dovrò accontentarmi del nigiri di salmone...”

“Chiedo scusa, è libero questo posto?”

Il cartoncino abbassato, il volto si solleva, due lampi azzurri sotto il basco nero inquadrano il nuovo arrivato.

“Sì, non aspetto nessuno.”

Un sorriso abbozzato sul viso sottile, incorniciato da ciocche biondo cenere.

“Grazie. Tutti le altre sedie sono occupate e...”

Non farla tanto lunga.

“Ci siamo incontrati all'uscita dell'ospedale. Tu entravi, io me ne stavo andando. Ti ho incuriosito, così, quando mi hai vista qui dentro, hai deciso che volevi conoscermi. Comunque, inventa una scusa migliore, la prossima volta. Tavoli liberi ce ne sono quanti ne vuoi, basta chiedere a Gozo.”


**


Se ne avessi la possibilità, vivrei solo ed esclusivamente di sushi. Da quando l'ho scoperto, non posso più farne a meno. A St. Patrick non si è mai visto un pesce, neanche don Chaddo ne ha mai importati. L'ultima sogliola l'ho mangiata prima di imbarcarmi sulla Estrella, direzione Irlanda, poi più nulla per sedici anni. Dopo che hanno aperto lo SHIELD e ho avuto modo di conoscere la cucina giapponese, me ne sono innamorata. Certo, esistono anche dei limiti: andare ogni giorno allo Yokkani può generare ripercussioni negative sul mio fegato. Sono una cliente abituale – forse anche troppo... e poi, Gozo è l'unico a proporre un menù di sushi completo a sole dieci sterline.

Tutto quello che ho a disposizione al momento.


**


Il giaccone appeso alla sedia, una maglia nera sottile con guanti incorporati, il bicchierino di sake stretto tra le dita. La treccina bionda lunga fino alla base del mento, ghiaccio secco attorno a pupille scure.

“Okay, lo ammetto. Mi chiamo Karel. Sono qui per alcune visite mediche, ma devo aspettare fino a domani e non so come passare il tempo. Sono rimasto colpito dal tuo abbigliamento... inusuale, tutto qui.”

“Sei solo un amico.”

“Uh?”

La ragazza posa il menù sulla superficie lucida, scuote il capo, la zazzera fiammante ondeggia ribelle, insofferenza stampata sul volto.

“Pessimo approccio. Non conquisti una ragazza se le fai notare che le sporge l'elastico degli slip dai pantaloni. Comunque, non sono interessata. Arrivederci e buon appetito.”


**


Un ottimo, economico pasto rovinato per colpa di un imbecille. Dovrò cavarmela con un panino, almeno per oggi. L'alternativa sarebbe stata condividere il tavolo con un biondino malizioso in cerca di avventure galanti. Se solo stessi ancora con Veckert, queste situazioni non si presenterebbero mai. Non con questi fastidiosi galletti, almeno.

Bah, meglio lasciar perdere.

Un sandwich al tonno migliorerà il mio umore.


**


“Dove è finita jobane? S'taba mirando menù...”

“Temo di averla fatta scappare, Gozo. Mi dispiace.”

Gli ultimi secondi richiamati alla mente, le immagini ancora vivide nella memoria.

La ragazza si alza, un fulmine dalle pupille scure, il ghiaccio sciolto, incenerito. Solo due parole biascicate in fretta e furia, devo andare. Il basco indossato, a celare i capelli di fiamma, un'espressione a metà tra l'imbarazzo e il biasimo. Un gesto rapido della mano, le ciocche scarlatte scostate, un luccichio sul lobo dell'orecchio. Un ninnolo di plastica bianca, l'ala di un angelo, sformata da una bruciatura – un accendino? Gli occhi di Karel puntati sul monile, la ragazza se ne accorge, lo copre col berretto.

Con permesso.

Un inchino e via, il più lontano possibile dallo Yokkani.

Il presente, l'attimo corrente, Karel serra le palpebre.

“Servimi un sake, Gozo. Bello forte, se puoi. E mettici un po' di wasabi, il più piccante che hai. Me lo sono meritato.”


**


Pronfo?”

Il telefono in ricezione, appiccicato al padiglione auricolare, il tramezzino stretto tra le labbra, i denti avidamente avvinghiati al pane. Una voce nota dall'altro capo della linea.

“Ho un nuovo incarico. Hai tempo?”

Il boccone ingoiato a fatica, il resto del pranzo allontanato a malincuore dalla bocca.

“Può darsi. Di chi si tratta questa volta?”

Sussurri concitati, nervosismo nel tono di voce. Sorpresa, la testa scossa con forza.

“C... come? Può ripetere, per favore?”


4. Una pallida lanterna nel cielo


“Quanti ne sono rimasti, Aemilyuz?”

Ssssolo ssssette, dottore. Sssse permette un conssssiglio, non perderei altro tempo.”

Passi lenti nel corridoio metallico, echi, rimbombi. Il sibilo della coda strisciante, un serpente antropomorfo a seguire l'uomo.

“Non riesco a decidere. Non è... semplice.”

La serpe immobile, le lunghe braccia quasi a sfiorare il terreno, pupille sottili intrise di riprovazione.

Sssstiamo parlando di tuoi ssssimili. Ti ssssembra logico rifletterci cossssì a lungo?”


**


Eccomi qui, chiuso di nuovo tra queste mura asettiche, con l'odore del disinfettante nelle narici. Ricordo ancora la prima volta che ho messo piede fuori dall'ospedale, il sapore dell'aria fresca, il tepore del Sole primaverile... sensazioni splendide, indimenticabili.

Come rinascere, dopo aver raggiunto l'abisso più profondo della disperazione.

Dovrei mostrare più gratitudine verso il dottor Loocke... solo che non ci riesco. E dire che è stato come un padre, per me.

Okay, il tempo per le riflessioni è terminato.

Vediamo di riuscire a concederci qualche ora di sonno tranquillo.

Al resto, penserò dopo.


**


“Sai già qual è la mia opinione a riguardo.”

Aemilyuz tremante, le dita serrate sul palmo, le corte zanne snudate sulla lingua biforcuta.

“D'accordo, Edward. D'accordo. Continua a rimandare, a ssssprecare preziossssi attimi. Tanto, il virus è debellato, no? Non può più trassssmetterssssi. Che quegli esssseri vivano o muoiano, non fa più differenza. Io li avrei già...”

Tintinnii insistenti, concitati, voci indistinte.

“Dottor Loocke! Dottor Zundek! Presto! Uno dei pazienti... una crisi respiratoria... le pleure polmonari...”

Lo sguardo penetrante di Aemilyuz, lame di tenebra immerse in un oceano giallastro.

“Credo che dovrà decidere, dottore. Sssse non ora... quando?”


**


Un rumore secco, sordo. Karel solleva il capo, il cuscino lasciato a se stesso. Occhi all'orologio, le due e cinquantaquattro. Un click sul quadrante, l'informazione cambia, una batteria stilizzata, la percentuale.

Non era l'allarme.

Un'altra volta.

Lo stesso suono ovattato.

Ruota su se stesso, si siede sul letto, il maglione nero già indossato, così come i pantaloni. Mancano le scarpe, le inforca, l'orecchio teso.

Mani agili che scassinano una serratura, non può sbagliarsi.

Se fosse...

In piedi, in silenzio, in attesa.

Magari non è niente, solo la mia immaginazione... ma controllare non mi costa nulla.


**


Com'è la situazione? Megrez si è ripreso?”

Non ho dati certi. È il più instabile, ma era prevedibile. L'infezione era già in uno sssstadio avanzato. Probabilmente lo perderemo.”

Noi non sapevamo chi fosse Megrez. Eravamo in sette, e ci conoscevamo tutti per nome. Quando i grandi discutevano tra loro, usavano dei nomignoli, per non farci capire a chi si stessero riferendo. Solo dopo molti anni, ho capito quale fosse il mio.

Il problema è che Megrez lo aveva scoperto prima.


**


“Perché devono chiudere tutte le porte a chiave? Cos'è, temono che i pazienti se la battano?”

Un grugnito sconfortato, le dita armeggiano con un coltellino, tentano di far scattare la serratura. Brividi lungo la pelle, le ossa, le vene. Non è difficile, non lo è mai stato.

L'agitazione del momento, il terrore delle proprie azioni.

“Cosa... cosa mi prende? Non posso tirarmi indietro ora.”

Uno scatto del polso, il cilindro cede.

E la porta si schiude, con estrema lentezza.


**


Non posso essermi sbagliato, c'è qualcun altro oltre a me. Ed è vicino. Molto vicino.

Magari sono solo Pascali e Santuzzo coi mitra imbracciati – chi lo sa? Devono essere in giro a giocare a guardie e ladri, certo. Sarebbe logico pensare a loro.

Peccato che la voce fosse quella di una ragazza.

E non penso che quei due siano in grado di imitarla così bene.


**


Raggi di Luna, luce d'argento attraverso la finestra aperta, riflessi sul metallo della sedia a rotelle. Un bruco sul davanzale, si sposta lungo il telaio, un passettino alla volta. Iridi grigie a seguirne il progresso, il lento incedere tra le venature del legno. Capelli biondo cenere, lunghi, ricadono a ciocche sulle vestaglia, sui polsi fasciati, tamponati da garze.

Un cigolio alle spalle, famigliare, atteso con eccitazione.

La fata del sonno.

“Hai visto che bella Luna, stanotte? È più grande del solito... e guarda come brilla! Le nuvole stesse sembrano essersi accorte di quanto sia bella la loro padrona, vestita del suo abito lucente.”

L'ospite fa capolino dall'uscio, il basco calato sulle iridi umide.

“Sì, è splendida. Proprio come te, Cammy.”

Stivaletti militari, a contatto col pavimento candido, i muscoli fiaccati dal tormento, ogni movimento un dramma. Le dita rovistano nella tasca, tentano di afferrare la pasticca.

Un sorriso illuminato, la speranza dipinta sul viso.

“Ti stavo aspettando da tanto, troppo tempo. Quando sei venuta per Jacquie, ho capito che presto sarebbe stato il mio turno.”

“Cammy, io...”

Le palpebre socchiuse, un ultimo sguardo speranzoso all'astro celeste.

“Fai quello per cui sei venuta, coraggio. Io non ho paura.”


**


“Cosa vuol dire che la carica è quasi esaurita? Agli altri non è successo!”

Gli occhiali da vista celano le pupille scure, i baffi brizzolati accarezzati con simulata tranquillità.

“Mi dispiace. Evidentemente, il tuo organismo non ha retto. Io ed Aemilyuz abbiamo fatto tutto il possibile e...”

“Sì, certo! Solo belle parole!”

L'orologio strappato con violenza, gettato sulla scrivania, i led bianchi agonizzanti.

“Sarebbe stato meglio se non mi aveste illuso.”


**


Non avrei mai, mai voluto trovarmi in questa situazione, Cammy. È... è difficile per me, dopo quello che abbiamo passato... insieme. Ho sperato fino all'ultimo che l'ordine non arrivasse, ma le mie preghiere non sono state esaudite. Lo so, non ho alcun diritto di implorare l'aiuto di un Dio in cui non credo.

Non l'ho mai avuto.

Ogni volta che ricevevo una chiamata e premevo quel maledetto tasto di risposta, mi auguravo segretamente che l'obiettivo non fossi tu.

Possibile che questo mondo debba essere così crudele?

Ora sei qui, di fronte a me, sorridendo alla tetra luce della lanterna nel cielo.

Rassegnata al trapasso.


**


I neon si accendono all'unisono, scoppiettando, irrorando la stanza di un bianco freddo. Cammy copre gli occhi con la manica della vestaglia, il bruco rintanato in un foro del telaio.

La fata ruota di scatto, la mano a cercare il metallo polimorfo.

“Che diavolo...”

“Ho interrotto qualcosa di interessante?”

Il maglione nero a collo alto, i guanti incorporati nelle maniche, il display a cifre pallide sul polso destro, pantaloni grigi spessi, scarponi da montagna, una corta treccia biondo cenere accanto all'orecchio, iridi di ghiaccio, inespressive.

“Tu.”

Il calcio della pistola stretto nel palmo, la canna della Wentzel Dune emerge dall'agglomerato di acciaio mutageno. Una spinta ai cerchioni della sedia a rotelle Cammy si appiattisce al muro, il respiro mozzato.

Karel si perde nel blu profondo, lo sguardo interroga l'oceano, senza ricevere risposte.

Un macabro sorriso sulle labbra della giovane.

“A quanto pare, non riesci a starmi lontano. Non ti avevo già detto chiaramente che con me non hai speranze?”

La pistola puntata, pronta a sparare, il proiettile intriso di crudeltà repressa. Una rapida occhiata alla finestra, alla grondaia.

Un attimo dopo, il salto.


5. Il gigante e la bambina


I quartieri giovani di Shard, ragazzi e ragazze sparsi per le vie, i cocktail in mano, le schiene adagiate alle mura dei locali. Musica a palla, sedie e tavolini sparsi per il viale, senza un disegno preciso. Masse urlanti, caos, dissonanze.

Il posto migliore dove nascondersi.

Un respiro, un altro respiro, un'occhiata guardinga alle spalle. Nessun inseguitore, il biondo non arriva, è rimasto indietro.

L'amarezza di non aver concluso il compito.

Il sollievo di non aver concluso il compito.

La mano fruga nella tasca, in cerca dei sogni d'oro.

Il viso sconvolto dal dolore.


**


“Laese!!!”

La grondaia afferrata con entrambe le mani, i rami de pino come appigli improvvisati. La ragazza si cala dal terzo piano, le fronde ad attutire la caduta.

Cammy grida, inascoltata, si trascina fino alla finestra, cerca di trovarla, di scorgerla dall'alto. Karel si getta dietro di lei, spinge la carrozzina nell'angolo, si sporge dal davanzale.

Un rapido controllo all'orologio.

“No, non posso farlo.”

Chiude le imposte, si accomoda sul letto. Cammy lo squadra dalla testa ai piedi, con apprensione, timore reverenziale.

“Chi sei? Cosa vuoi da me?”

La guancia appoggiata al pugno destro, lo sguardo gelido come risposta.

“Ora io e te facciamo un bel discorsetto, ti va?”


**


“No, non ho portato a termine il compito. Sono stata ostacolata. Sì, lo so che ho sbagliato, ma non è colpa mia se qualcuno ha preso l'ospedale come un albergo. Come? No che non potevo stenderlo! Non davanti a Cammy! Non potevo permettere che l'ultima immagine impressa sulle sue iridi fosse una rissa violenta tra me e quell'imbecille. Che sogni d'oro sarebbero, altrimenti?”

Una risposta secca, un grugnito scocciato, la chiamata interrotta.

“Pronto? Pronto?”

Il telefonino spento con un moto d'ira, calde imprecazioni in italiano nella gelida notte di Albione.


**


“Quindi si chiama Laese?”

“Sì.”

“Da quanto tempo la conosci?”

Lo sguardo basso, gli occhi evitano il contatto diretto.

“Un paio di mesi. È stata lei a portarmi qui. Mi ha prestato i primi soccorsi in strada.”

“Cos'altro sai dirmi di lei?”

“Quessssto colloquio è da considerarssssi terminato, Mizar.”

Le iridi di ghiaccio sgranate, stupefatte, incrociano aghi sottili persi in un mare giallo. Una maschera di metallo lucido a celare il viso serpiforme. Corpo affusolato, denti cavi, profonde occhiaie nere, segni di scottature mai sanate sulle scaglie verdastre.

Un sorriso tirato sul viso di Karel.

“Buonasera dottor Zundek. Vedo che il tempo non è stato clemente con lei.”


**


Passi lenti per la via, in cerca di un punto di riferimento. Bar affollati, locali notturni presi d'assalto, discoteche riempite all'orlo. Banconi ricoperti di bicchieri svuotati, ombrellini da cocktail accatastati, tovaglioli pronti per il macero. Folle oceaniche a colmare ogni singolo metro cubo d'aria stantia.

Due figure distaccate dalle mandrie, ben distinte dallo sfondo. Un omone scuro, camicia hawaiana, pantaloni bianchi, mocassini di cuoio, viso squadrato contornato da capelli neri a spazzola, occhi di un arancio intenso, nessuna traccia di barba. Una ragazza comodamente seduta sulla sua spalla destra, capelli blu elettrico a caschetto, una lunga frangia a coprire la fronte, pelle diafana, iridi violacee, una collana di piume nere, t-shirt bianca a fregi azzurri, jeans lunghi, strappati.

Laese emerge dal caos, il berretto calato con cura sulla zazzera fulva, avanza verso il titano, colma i cinquanta centimetri di differenza sollevando il capo.

L'omone saluta, un goffo cenno della mano.

“Ehi, Laese! Che espressione cupa! Cos'hai, piccola?”

“Ciao, Ban. Ciao, Shu. State tranquilli, non è niente, solo...”

Shu emette un lieve sospiro, si lascia scivolare lungo il braccio di Ban, sino a tastare delicatamente il terreno con gli scarponcini. Un metro e quarantasette di altezza, quasi settanta centimetri meno di Ban, perfettamente proporzionata.

“Non sai mentire, Lalli. Se sei venuta fin qui è perché hai bisogno di compagnia, non è così?”


**


Il gigante e la bambina.

Non saprei scegliere un'immagine diversa per descrivere Ban e Shu, è la prima impressione che ha attraversato la mia mente quando li ho incontrati per la prima volta. Poco importa che Shu abbia la mia stessa età: è talmente minuta che in confronto a me sembra molto più piccola. Una strana coppia, non c'è che dire. Vivono ai margini della società, accettando lavori di poco conto – netturbini, consegna pizze a domicilio, raccolta di frutta e verdura. Qualsiasi impiego, insomma, ma sempre insieme. Vedere uno solo dei due senza che l'altro sia a meno di cento metri di distanza è praticamente impossibile.

E, nonostante tutto, non hanno legami né sentimentali, né di sangue.

Semplicemente, sono inseparabili.

Tutto qui.


**


“Forse dovrei dirle che è un piacere averla incontrata di nuovo, dopo tutto questo tempo... ma non è così.”

Aemilyuz striscia all'interno della camera, astio rappreso nello sguardo torvo.

“Mi disssspiace che tu abbia questa bassssa considerazione di me, Mizar.”

Il collo ruotato con gesti repentini, Karel si gratta i capelli poco convinto.

“Davvero? Strano, pensavo che non gliene importasse nulla di me... specie dopo quello che è successo Megrez.”

Uno scatto deciso, la serpe si frappone tra lui e Cammy.

“Prima di aprire la bocca, faressssti meglio a ricordarti a chi devi la tua pressssenza qui.”

Un rantolo mascherato da colpo di tosse, i denti stridono tra le labbra socchiuse.

“Non certo a lei.”


**


“Che storia, Lalli! Quindi, Cammy non riesce più a camminare?”

Laese accoccolata su un muretto basso, gli occhi a scrutare il cielo.

“È rimasta paralizzata dalla vita in giù.”

Ban stacca due cosce dal pollo arrosto, le porge alle ragazze. Un gesto eloquente di Laese.

“Non ho fame, grazie.”

Shu afferra avida il cibo, lo porta alla bocca, mastica di gusto, divora la carne attorno all'osso con foga. La mandibola squadrata del titano si produce in un sorriso agrodolce, l'aria notturna attraversata da una voce profonda, cavernosa.

“Sarà stata dura per lei accettarlo. Era una promessa della ginnastica artistica, se non ricordo male.”

Shu accovacciata sul braccio di Ban, l'ossicino sventrato utilizzato come stuzzicadenti.

“La chiamavano la farfalla d'argento. Poi, qualche mese fa, è stata quasi uccisa da quegli strani semi. Ricordi, no? I fiori che le sono spuntati dai polsi.”


**


Quindici anni fa, ho lottato tra la vita e la morte.

Quindici anni fa, la mia infanzia si è interrotta brutalmente, con la scomparsa di entrambi i miei genitori, di mio fratello, di mia sorella.

Sono sopravvissuto solo io, unico rimasto di un intera famiglia, spazzata via da un virus orribile, tanto letale per gli ospiti quanto per se stesso.

Un virus che mi ha perforato i polmoni, ha divorato i miei bronchi, distrutto le mie pleure.

Sono stato il primo a subire il contagio, a trasmettere il male ai miei cari.

Ed è stato proprio questo a salvarmi.


**


“Ero con lei, per caso. Sono riuscita a tagliarli prima che la prosciugassero, ma...”

Gli occhi di Shu fissi su di lei, un'espressione seria dipinta sul volto, celata da un'aura di leggerezza che non le appartiene.

“Fammi indovinare: la neurotossina mutagena ha comunque provocato seri danni alle connessioni del sistema nervoso centrale, compromettendo in modo irreversibile il corretto funzionamento delle appendici motorie?”

“Sì, ma come...”

Ban prende Shu con delicatezza, una mano a sostenerle le gambe, una sulla pancia, la solleva, la riporta a sedersi sulla sua spalla capiente. L'atmosfera notturna scossa dal tono autoritario, il vocione di un omaccione ciclopico.

“Scusami, Laese... non voglio che Shu venga coinvolta in questa faccenda. Ha un debole per i misteri e si lascia andare un po' troppo. Ha già rischiato di rimetterci la pelle una volta.”

Uno sbuffo deciso, le palpebre chiuse in segno di protesta.

“Va bene, Ban. Hai vinto. Posso solo dare un consiglio a Lalli?”

“Prego, signorina.”

Shu alza il braccio al cielo, il dito proiettato verso l'infinito.

“La soluzione di tutto è nel Grande Carro. Devi solo scegliere la stella giusta.”

Uno sguardo di scherno.

“Dovrebbe avere senso?”

Una risatina di risposta.

“Oh, non ne ho la minima idea. Di solito, le immagini che vedo non hanno una correlazione così diretta con la realtà, sta a te scoprire cosa significa. Altrimenti... dove sarebbe il divertimento?”


6. Nemmeno la notte


Uno Shoiga Sanzzo, secondo i tassonomisti. Un grottesco tentativo fallito di mescolare un serpente con un uomo, secondo me. Aemilyuz Zundek è uno scherzo della natura, un sottoprodotto di quel crogiolo di aberrazioni che è EXODUS.

Provo un misto di orrore e repulsione, ogni volta che mi trovo davanti uno di quegli alieni. Daevka, Shoiga Rhepp, Shoiga Sanzzo... per me non fa alcuna differenza. Li detesto tutti, dal primo all'ultimo.

E lui non fa eccezione.


**


“Mizar, faressssti meglio a tornare nella tua camera. A lei pensssso io.”

Uno sguardo truce, un lampo di disgusto profondo nel ghiaccio sottile.

“Certo, come no? Ti occuperai di lei come hai fatto con me?”

Un inchino forzato, in direzione di Cammy.

“Condoglianze, allora. Se sopravvivi, domani mattina ci vediamo davanti alla macchinetta del caffè. Alle dieci, mi raccomando. Per me un cappuccino con poco zucchero.”

Aemilyuz mastica le imprecazioni, una scatola di chiodi lungo il cavo orale. Karel guadagna l'uscio, il capo ruotato in direzione del serpente.

“Ah, dimenticavo. Smettila di chiamarmi Mizar. Tu non hai questo diritto.”

La porta sbattuta con forza.

“Non lo hai mai avuto.”


**


La strana coppia in lontananza, ad osservare il manto celeste. Shu mastica qualcosa, porta il cibo alla bocca con rapidi movimenti del braccio destro, Ban le porge il contenuto del suo piatto.

Un'ultima occhiata fugace, un saluto biascicato, l'ora scorta distrattamente su un monitor appeso lungo la strada. Le due e trentacinque. Troppo presto per fare colazione, troppo tardi per andare a dormire e riposarsi. Il momento giusto per riflettere.

Lampioni accesi nel buio totale, lanterne acconciate come antiche lampade a gas, lastre di vetro lucido incastonate in strutture di ferro battuto.

Perché ho accettato questo incarico?

Domande nel vuoto, nessun interlocutore.

Solo la notte.

Non potevo continuare a cacciare emofagi? Sarebbe stato più semplice.

Un grido liberatorio nel vuoto, nel silenzio.

“Perché? Cosa devo fare? Qual è lo scopo di tutta questa farsa?”

“A chi lo stai chiedendo? Alla Notte? Ma la Notte non risponde. Non a te, almeno.”


**


“Non possiamo più attendere, hai ragione. Dobbiamo intervenire subito, se vogliamo ottenere qualche risultato.”

Il viso serpiforme sollevato a cercare lo sguardo di Loocke, le scaglie ruvide, in ordine.

Sssse vogliamo?”

Un moto d'ira nelle pupille nere.

“Qui, uno ssssolo di noi due vuole un rissssultato. E ssssai benissimo chi è.”


**


Un uomo alto, vestito di nero, l'occhio sinistro celato da una spessa benda di garza, la pelle incolore, cadaverica, una mascherina antismog a coprire naso e bocca, capelli castani, mediamente lunghi. Un'unica iride viola, indagatrice, un viola diverso da quello di Shu, più profondo, inquieto.

Inquietante.

Laese si volta, la mano a cercare la pistola, pronta a premere il grilletto. Una scarica di adrenalina attraverso i nervi, le ossa, i muscoli.

“Chi sei?”

L'uomo scrolla le spalle, con estrema noncuranza. Una voce lamentosa, cantilenante.

“Non è importante, no. La Notte sa chi sono. Il resto non conta.”

Due passi in avanti, due a sinistra, immobile.

“Devo ringraziarti. Hai salvato la ragazza, due mesi fa. L'hai salvata dai semi.”

Laese arretra, in punta di piedi, pronta alla fuga.

Nulla di nuovo: balordi se ne incontrano spesso, in fondo.

“All'inizio, ero scosso. Non dovevi salvarla, doveva morire. Bei fiori, fiori belli! Ah, bellissimi! Ma ora ho visto, ho capito, ho compreso.”

Una risata gelida, soffusa, irreale.

“Ora so.”


**


“Iniziamo la sperimentazione su Alioth, Dubhe e Alkaid. Se i risultati saranno positivi, passeremo a Mizar, Merak, Phecda e Megrez, in quest'ordine. Agiremo prima su quelli che hanno la probabilità di sopravvivenza maggiore.”

L'ombra del dubbio nella pupilla, la lingua sibila tra le zanne cave.

“Mizar è quello che ha contratto la malattia da più tempo. Sssse vogliamo avere qualche ssssperanza di ssssalvarlo, dobbiamo iniziare da lui.”

Loocke accarezza i baffi neri con cura, le cartelle cliniche strette nella mano sinistra.

“Mizar, eh?”

Il fascicolo aperto, la foto di un bambino di nove anni, i capelli biondo cenere, lo sguardo vispo, ricolmo di gioia. Frammenti di un passato lontano, affogato nella sofferenza.

“D'accordo. Potrebbe essere divertente.”


**


Me ne sono andato sbattendo la porta.

Lo so, non è un bel modo di chiudere una conversazione, ma Zundek proprio non riesco a sopportarlo. Se fosse stato per lui, io sarei accanto ai miei genitori, sepolto sotto due metri di terra. Ogni volta che rivedo il suo muso da rettile, la rabbia si impossessa del mio corpo, della mia mente, mi impedisce di ragionare con freddezza. È come se un fuoco avvampasse dentro di me, incenerendo ogni tentativo di tornare padrone delle mie facoltà mentali.

Meglio dormirci sopra, domani dovrò essere in forma.

Colloquio con Loocke, due giri di cacciavite e me ne torno a casa.

Sogni d'oro, Karel. Al tuo risveglio, domani, sarà tutto finito.

Letteralmente.


**


“Lettura dei parametri?”

“Respirazione nella norma. Ossigeno nei limiti. Nessuna perdita di fluidi o materiale organico.

“La batteria regge?”

“Più o meno. Si sta scaricando più velocemente del previsto.”

“Utilizzare le celle a yrite?”

“Non sono ancora pronte, ci stiamo lavorando. Riadattare il propulsore di uno SPECTRA Tallion era l'unica soluzione applicabile nel breve termine.”

Un sospiro sconsolato, il boccone di saliva deglutito a fatica, le dita sottili trattengono nervosamente il bisturi.

“Mi auguro che duri abbastanza.”


**


“Cosa significa?”

La mente vaga, tenta di trovare una spiegazione, un motivo. Il delirio di un ubriaco, un vagabondo in preda ad allucinazioni, un tossicodipendente in crisi d'astinenza. Alternative valide, sotto molti punti di vista.

Peccato che nessuna sia quella corretta.

“Devo ringraziarti, Laese. Ti farò un regalo, sì! Un bel regalo! Ecco, prendi. È per te.”

Un oggetto opaco stretto nella mano rugosa, pallide scintille alla luce tremolante delle lampade.

“Ma questa è...”

Tono sommesso, la voce ridotta ad un sussurro.

“A me non serve più. Spero che possa esserti di qualche utilità.”

Laese stringe il dono tra i guanti a mezze dita, osserva allibita la forma ben nota.

“Come l'ha avuta?”

Il tempo di alzare lo sguardo, di cercare il contatto con l'occhio violaceo.

Ma non c'è più nessuno.

Nemmeno la notte.


7. Senza scoprirmi troppo


Il pulsante premuto con estrema calma, l'espresso selezionato. Un liquido denso scivola lungo i condotti, si raggruma nel bicchiere di plastica.

Karel scuote il bicchiere, mescola il contenuto col cucchiaino poco convinto.

“Hanno anche il coraggio di chiamarlo caffè...”

Un'occhiata all'orologio, i led bianchi puntati sulle dieci meno due minuti.

Il campanello dell'ascensore, le porte spalancate, una carrozzina lucente emerge dalla cabina. Un pizzico di malizia nello sguardo plumbeo, i lunghi capelli chiari scivolano dolcemente su una t-shirt rosa, decorata da un patchwork di cuori. I tamponi stretti attorno ai polsi, un paio di jeans neri a scaldare le gambe immobili, scarpe dello stesso colore della maglia. Un filo di rossetto, trucco leggero sotto le palpebre inferiori.

“Sono in ritardo?”

Una spinta decisa ai cerchioni, la sedia a rotelle raggiunge le macchinette. Karel squadra la nuova arrivata, i pensieri ritornano alla sera precedente.

“Ciao, Cammy. Sei sopravvissuta alle premure di Aemilyuz, a quanto pare.”


**


Un secondo di tempo per riprendere coscienza, per riconoscere lo squillo allegro della sveglia. La mano buttata sul comodino, l'aggeggio spento con un battito del palmo.

“... ledizione...”

Laese si mette a sedere sul materasso ad acqua, top verde acqua e slip bianchi come pigiama, il lenzuolo lasciato a terra, aggrovigliato. Una spazzolata ai capelli, le lenti a contatto a bagno, in un bicchiere di fronte allo specchio.

Nessuna voglia di ricordare cos'è accaduto la notte precedente.

“Ho sognato di nuovo Jacquie. E Cammy.”

Uno sbadiglio annoiato, le braccia proiettate verso il soffitto. Le pupille calamitate da un oggetto metallico, irrorato dalle lampade ad incandescenza.

“La mancanza di sonno mi sta facendo brutti scherzi.”

Chiude gli occhi. Li riapre. L'oggetto è ancora lì.

Un'immagine confusa, il volto dell'uomo di nebbia, il ritorno alla realtà.

Un sospiro trattenuto per troppo tempo, gli occhi puntati sul dono.

“Tu non saresti d'accordo, non è così?”


**


Una lettera, Kreen Industries, indirizzata al Sant'Elena. Progetti, prospetti, valutazioni di rischio. Loocke stringe il plico tra le mani, accartoccia i fogli, un moto di disperazione, le pupille dilatate, il volto paonazzo.

“Non è possibile.”

Le unghie graffiano il legno, la scrivania, il respiro affannato.

“Ho... ho sbagliato tutto...”


**


Lo ammetto: ieri notte ho gettato l'amo. Volevo raccogliere informazioni in modo discreto, senza spaventarla, lontano dal serpentello e dal mio onnisciente padre putativo. Non avevo fatto troppo caso al suo aspetto, ma devo dire che si tiene bene, se vuole. Si è pure fatta bella, stamattina, come se questo fosse un appuntamento ufficiale con un tipo che le piace.

Mi auguro seriamente che non sia così, che una paralitica non desideri mettersi assieme ad un ragazzo che forse non vedrà i trent'anni.

Non è che ha poco senso... non ne ha proprio.


**


“Come... rinunci? Per un fallimento? Follia pura!”

Il tono irato, rabbia rigurgitata dalle labbra sottili, macinata dai denti.

Una voce preoccupata dall'altro capo del telefono.

“Non me la sento più. La mia copertura è bruciata, se quel tizio mi denuncia finisco dentro per omicidio plurimo!”

“Non hanno prove. Al più, ti indagano per effrazione e violazione di domicilio. Tutto qui.”

“Questo non cambia le carte in tavola. Ho strappato troppe ali, non intendo proseguire.”

Un'esplosione violenta, la voce come un megafono, amplificata dal silenzio.

“Vorrà dire che ti denuncerò io. E mi adopererò per fornire ai detective elementi che ti incastrino.”

Un blocco di saliva ingoiato a stento.

“Allora? Ti ho zittito?”

Sussurri vellutati, filtrato dalla cornetta.

“Solo... ancora uno. Poi, basta. Mi sembra equo... per entrambi.”

Un ghigno soddisfatto, stampato sulla pelle ruvida.

“D'accordo. Per quanto riguarda Cammy?”

Un singhiozzo mascherato da respiro.

“Non deve... preoccuparsi. Andrà tutto... secondo i piani.”


**


“Tutto a posto? È un po' che non parli.”

Cammy tenta di incrociare il ghiaccio rappreso, di scioglierne la superficie, entrare in risonanza con il suo taciturno interlocutore.

“Scusa, stavo pensando.”

Il caffè scolato in un unico, rapido gesto. Un'espressione schifata sul viso d'angelo, la bocca contratta in una smorfia.

“Tu bevi abitualmente questa roba?”

Cammy accenna un timido sorriso.

“Non prendo mai caffè. Anzi, a dirla tutta, non esco mai dalla mia camera. Passo le mie giornate a navigare su internet e osservare la colonia di bruchi che vive sul pino affianco alla finestra. Sai? Oggi è il primo giorno che non indosso la vestaglia da ospedale, da quando sono qui dentro.”

Ahi. Suona male. Molto male.

Karel getta il bicchierino nell'immondizia, preme un pulsante sull'orologio.

“Capisco. Non hai parenti o amici che vengano a farti visita?”

Semplicemente, non li voglio vedere. Tentano sempre di compiangermi, di compatirmi. Oh, chissà quanto dev'essere difficile per te! E pensare che eri una promessa della ginnastica artistica! Poverina, chissà quanto hai sofferto!

La voce modulata in acuto marca stridula i commenti, la testa scossa con furore.

“Non fa per me, mi dispiace.”

Una breve pausa per riprendere fiato, un lampo nelle iridi grigie.

“Tu invece... perché sei qui?”


**


Allarme rosso, infermieri tesi, gli strumenti sul tavolo operatorio. Il bambino sedato, immobile.

“Lo stiamo perdendo! Presto, presto!”

Il corpicino trema, impulsi nervosi impazziti, il rigetto verso l'organo artificiale, il dolore attraversa ogni singola fibra della pelle, raggiunge il cervello, lo monopolizza.

Mio Dio! Tieni fermo il generatore, Edward! Sssse non lo fissssiamo, è perduto!”

“Lo so! Lo so! Non ho bisogno che me lo dica anche tu!”

Le pinze meccaniche agganciano i contatti, minuscole scintille, il sistema risponde, il computer registra i dati.

Linea piatta, per un istante.

Sudore freddo, l'agitazione negli occhi, il ritmo serrato del respiro.

Linea piatta, ancora linea piatta.

“No, ti prego... no!”

Un impulso, debole, un altro impulso. La vita scorre nuovamente nelle membra assopite.

Un sospiro di sollievo.

“Che ti dicevo, Aemil? Un po' di caos, ma passa tutto.”

Aemilyuz stringe gli occhi, fissa Edward di sottecchi.

Sssse ogni volta che il motore principale va in palla deve ssssoffrire cossssì, è quassssi meglio che muoia. Anzi, glielo auguro. Sssspero che vada in paradisssso, che lassssci quessssto mondo in pace.”

Una pausa studiata, il tempo di contemplare i propri pensieri.

Magari, ssssognando.”


**


Non so cosa le sia successo, ma questa Cammy sembra molto diversa dalla ragazza rassegnata al trapasso che ho incontrato appena sette ore fa. Forse dovrei deviare il discorso su Laese, cercare di ottenere qualche informazione aggiuntiva sulla fantomatica assassina notturna che prende di mira gli ospedali di mezza città... sempre che sia davvero lei, intendiamoci.

Prima di ritrovarmi nel bel mezzo di un campo minato, meglio tastare il terreno.

Senza scoprirmi troppo.


**


“Io? Niente di particolare. Sono qui per un controllo di routine, roba da mezza giornata.”

La voce tremula, il timbro indeciso. Cammy vacilla per un attimo, prima di emettere un gemito strozzato.

“Quindi... quindi domani vai già via?”

“Temo di sì, mi dispiace.”

Un colpo ai cerchioni, la sedia a rotelle si dirige verso l'ascensore, senza una parola. Karel protende la mano, le dita inguantate a tentare di afferrarla.

“E... ehi! Dove stai andando?”

Un sorriso beffardo, agitazione indecifrabile nelle iridi liquide.

“A dormire.”


**


“Non sarai serio, Aemil...”

Un cenno d'assenso, la lingua biforcuta rimestata tra le gote gonfie.

Sssspero tanto che faccia dei bei ssssogni... e che non ssssi rissssvegli. Mai più.”


8. Prossimo allo zero


“Cammy! Resisti, non mollare! Non puoi... non ora! No!”

Corsa disperata per i corridoi, la barella montata su ruote veloci, Karel spinge con tutta la sua forza, i due infermieri ad aiutarlo.

Movimenti convulsi, Cammy tossisce, sputacchia, gli occhi chiusi, gemiti di dolore. Karel scrolla la testa, impreca contro se stesso.

“Perché sono stato così deficiente? Perché?”


**


La farfalla d'argento, mi chiamavano. Bel nome, davvero. Peccato che fosse molto, molto lontano dalla verità. Io non ero una farfalla, ero solo un bruco. Un bel bruco, delicato e variopinto, ma pur sempre un bruco, lo stadio larvale e incompleto. Quei fiori, quegli splendidi fiori scarlatti, mi hanno trasformato in crisalide, rendendomi immobile, chiusa nel mio bozzolo ad attendere la metamorfosi finale, l'ultimo stadio della mia vita. Ora, è il momento di rompere il guscio.

E volare con le ali della mia anima, verso il cielo infinito.


**


“Battito a centonovanta, pressione cento-centosettanta, ventisette atti respiratori al minuto. Se non c'asbrighiamo, questa ci lasc' la pelle!”

Santuzzo si stacca dal gruppo, fa strada lungo il corridoio.

“Spostatevi! È un'emergenza! Presto, abbiamo bisogno del dottor Loocke e di un tossicologo! In fretta, cazzo!”

Karel arretra di un passo.

“Edward vado a cercarlo io, voi sbrigatevi a portarla al sicuro!”


**


Quando quello sconosciuto mi ha chiesto di parlare con lui, ho esitato. Sì, ho esitato, non sono più stata così sicura delle mie intenzioni, la mia risoluzione si è sgretolata. Non era un parente, un amico, un conoscente. Non era un mio fan. Non mi aveva mai, mai, incontrata prima. Eppure, mi ha chiesto di parlare con lui, davanti alla macchinetta del caffè. Uno sconosciuto. Preoccupato per me. Per una ragazza mai vista. E mi sono illusa.

Illusa che fosse venuto qui per me.


**


“Dottor Loocke, apra la porta! Sono Karel!”

Le nocche schiantate contro la superficie di plastica verde, a ritmo forsennato, un tamburo percosso con impeto.

“Edward! So che ci sei! Apri la porta! Apri questa cazzo di porta!”

Un pugno sferrato con la massima potenza, la targhetta dell'ufficio si stacca, cade a terra, rimbalza. Un'ammaccatura sul pannello uniforme, il guanto nero macchiato di sangue vermiglio.

“Edward...”

Un sibilo nell'aria.

Karel? Cossssa ssssta ssssuccedendo qui?!”

“D... dottor Zundek?!”


**


Cielo, come posso averlo pensato veramente? Tutta colpa di quel serpente malefico, di quell'aspide infida! Piccola, mi ha detto, ci sarà un motivo se è venuto qui, in questo istante. “Sul serio?”, gli ho risposto. Certo. Pensa positivo, perché cedere alla disperazione? È vero, hai perso le gambe. Ma questo non vuol dire che tu non sia più bella. Datti una possibilità, coraggio.

E io ci ho creduto, come un'adolescente in crisi ormonale! Ho rinunciato ad assumere la pastiglia, la medicina che ha perso Laese, quella che ho recuperato prima che Zundek se ne accorgesse.

Mi sono... fidata. Ho tirato fuori i vestiti dall'armadio, mi sono messa in tiro come non succedeva da mesi, solo per correre dietro ad una sciocca chimera.

Cosa ho ottenuto, in cambio?

Nulla.

Solo altro dolore.


**


“Cammy... Cammy ha... sta...”

Karel ansima, i respiri spezzati, il calngore metallico di una ventola, la forza di indicare l'ala di terapia intensiva. Crolla in ginocchio, il fiato corto, le parole si schiantano contro il palato.

“Loocke... devo... Loocke... aiutare... lui...”

Il tempo di chiudere gli occhi, un solo attimo, e Zundek non c'è più.

Una coda squamata striscia dietro l'angolo, si infila nel corridoio, spostandosi di gran carriera.

L'ultima immagine prima del buio.


**


Rumori sordi, ripetuti. Stanno bussando alla mia camera?

“Cammy?”

Lui.

“Tutto a posto?”

No, mi sembra ovvio.

“Ti ho vista cambiare espressione, tutto ad un tratto... e mi sono preoccupato. Ho detto qualcosa che non va?”

Sì, ma non importa. Non importa più niente.

“Senti, hai voglia di far due parole su quello che è successo ieri? Chi era quella ragazza che...”

Laese! È qui per Laese! È per lei che è venuto! Non per me! No! Non posso, non ce la faccio, non riesco a trattenermi, no!

“Non te ne frega niente di me, allora?! Era... era solo questo il motivo del tuo appuntamento?! Solo... questo?!”

“Cammy, io...”

Basta! Non resisto, non un secondo di più! Voglio sprofondare nel sonno, nei sogni!

Voglio dormire.

Per sempre.


**


Karel si rialza, tenta di assumere posizione eretta, la vista annebbiata, i colori sfumati. Un'occhiata al quadrante dell'orologio.

“M... merda...”

Un passo, un altro passo, un alto ancora. Raggiungere la sala operatoria. Raggiungere Cammy. Scusarsi. Evitare di commettere lo stesso errore.

Un'altra volta.

I quadricipiti cedono, il corpo casca a peso morto, scivola lungo la parete. Le dita artigliano l'intonaco, lo sradicano, lo staccano a pezzi. Uno sforzo inumano, le gambe distese.

E un altro passo in avanti.


**


La porta sfondata, una spallata a tutta forza. Le grida, le imprecazioni, il silenzio, il rumore di una bambola che crolla al suolo, le chiamate, di nuovo il silenzio, il maledetto silenzio, il rantolo, gli spasmi.

Impossibile stare fermo, impossibile aspettare ancora. I led tintinnano, urlano a squarciagola, tentano inutilmente di fermarlo. Karel si schianta contro la plastica azzurra, la scardina con violenza inumana.

Cammy sdraiata a terra, respiro assente. Nemmeno un secondo per pensare, nemmeno un istante per agire. Il ricordo vivido della sera precedente, Laese con la pasticca in mano, si volta, si getta dalla finestra. E il farmaco? Sparito?

No, ce l'ha lei.

Ce l'ha Cammy.

Rapida connessione, il corpo si muove senza direzione, senza che il cervello abbia ancora deciso.

Due dita in gola, prima che sia tutto perduto.

Il vomito, la mezza pastiglia ancora da sciogliere, la prima metà già assimilata. Tosse, ipersalivazione, tachicardia, un medico! Un medico!

Ma Cammy è viva.

Solo questo importa.


**


Un oggetto esterno dentro di me, nella mia bocca, qualcosa che non riesco a controllare, il sogno interrotto. Perché? Chi sei? Cosa vuoi da me? Cosa? Lasciami dormire, lasciami andare! Voglio tornare a camminare! Voglio tornare a ballare nel vento! Non portarmi indietro! No!

No, ti prego!

Lasciami!

Lasciamiiiiiiiii!


**


“C... come sta?”

Pascali seduto fuori dalla stanza, una sigaretta accesa, in barba alle regole, i capelli verdi a contornare il viso appuntito.

“Com'igghia vuoi che stia? 'no straccio. Fortuna che ci bazzicava Aemilyuz da 'ste parti. Igghia, il rettile sa'l fattaccio suo.”

Karel si accomoda al suo fianco, lo sguardo perso nel vuoto, un bip insistente, ripetuto, assordante.

“E ch'igghia è, stavo'ta? I rivelatori antincendio? Ma manco una sigaretta ora si può...”

Karel crolla al suolo, il volto impatta col pavimento.

Il display dell'orologio riluce di rosso cupo.

Una percentuale scarlatta si disegna sullo sfondo nero.

Un numero prossimo allo zero.


9. La più fioca tra le stelle


“Mi dispiace, Sasha. È un problema di potenza del propulsore. Il suo influsso sta danneggiando gli organi interni, stimolando secrezioni che compromettono il funzionamento dell'intero apparato di supporto. In pratica, è come se il generatore stesse perdendo energia. Se lo spegniamo, tu morirai. Se lo lasciamo acceso... morirai comunque. Ecco, questa è tutta la verità. Non una parola di più, non una parola di meno.”

I pugni stretti con rabbia, il rancore condensato in grumi rugosi, gli occhi iniettati di sangue.

“Perché proprio io? Perché non uno degli altri sei?”

“Il tuo fisico era il più debole. Sapevamo che...”

“Dunque non mi sbagliavo. Ero io, Megrez...”

Un luccichio sinistro nell'iride.

“... la più fioca tra le stelle del Grande Carro.”


**


Loocke si china sul corpo del giovane, lo ruota, lo sdraia sulla schiena, la mano sinistra ad arricciare i baffi brizzolati.

“Portami il defibrillatore, Pascali.”

“Non è esagerato? È solo svenuto e...”

“Portami il defibrillatore e smontalo. Ho bisogno della batteria interna.”


**


“Perché Karel non ha problemi? È solo un bambino, i suoi polmoni erano completamente devastati, era un miracolo che fosse ancora in vita! Perché non era lui Megrez? Perché lui era Mizar?!”

“Calmati, Sasha. Così peggiori la situazione. Quando abbiamo operato Karel non avevamo ancora i propulsori ad yrite, quelli sono venuti dopo. Gli altri cinque sono in ottima forma, solo con te abbiamo riscontrato problemi.”

I capelli grigi mossi, Sasha irato, in piedi, le mani premute sul tavolo.

“Cos'ho io meno degli altri? E cosa significa che Karel non ha un reattore a yrite?!”


**


Loocke solleva la maglia nera, la alza fin sotto al collo. Il petto di Karel esposto, cicatrici a circondare lo sterno, una minuscola apertura metallica al centro, sull'osso.

Un terminale d'aggancio.

L'unico punto di approvvigionamento.


**


Sonniferi, sonniferi per tutti! Sonniferi eterni! Così dormono, dormono i bastardi. Dormono, coi loro polmoni nuovi di zecca. Solo io devo soffrire, solo io. E Mizar, certo, ma Mizar vivrà di più. Meno degli altri, ma più di me. Non posso sopportarlo, no! Non posso proprio!

Mi hanno promesso una speranza... e mi hanno tolto anche quella.

A questo punto, non mi importa di morire, di lasciarci la pelle.

Tanto, non sarò il solo ad andarmene.


**


“Due per cento. Due punto uno. Due punto due...”

I numeri sul display si animano, scorrono con estrema lentezza, aumentano, poco per volta.

Pascali aspira dalla sigaretta, osserva con la coda dell'occhio.

“Igghia, dottore. Non sapevo che gli uomini si potessero riparare così. Quasi quasi, me lo faccio aprire anch'io un buco lì.”

Un risata roca, una punta di divertimento.

“Prima dovresti perdere i bronchi, Pascali. E non te lo consiglio.”


**


Una rissa furibonda, Loocke a terra, gli occhiali spaccati.

E poi, il fuoco. Il grande fuoco.

L'incendio avanza, divora i pavimenti, le pareti, carbonizza i letti, i lenzuoli, le coperte.

Non vedo nulla.

Solo fiamme.

E Sasha.

Ride, Sasha.

Ride come un ossesso, due granate inesplose, brandite come mazze dal manico innestato.

E l'inferno alle sue spalle.


**


“La batteria si è scaricata completamente. Che numero leggi sull'orologio?”

Pascali si china, lancia un'occhiata al display.

“Sei punto due. Basta?”

“Per portarlo nel mio studio, sì. Forza, dammi una mano.”


**


“Sasha! Cosa stai combinando? Così ammazzerai tutti!”

Un gemito acuto, l'imitazione di un ghigno perverso.

“Ma l'ho già fatto, caro dottore! L'ho. Già. Fatto.”

Il fumo a saturare la stanza, vampe scarlatte ad incenerire le pareti.

Sasha rotea la mazza, la lascia oscillare come un pendolo.

L'aria rarefatta, distorta dal calore.

“Manca solo quel petulante bambinetto a retrocarica. Solo lui.”


**


Guarda cosa ho trovato, Karel! Erano sotterrate in un campo, poco fuori città. Non sono bellissime?

Erano lucenti, e lisce. Sembravano due uova troppo grandi e troppo spesse. Sasha me le mostrava ogni volta che entravo nella sua camera, erano il suo tesoro.

Vedi? Questo manico serviva per farle roteare prima del lancio! E guarda, guarda qui! Non c'è la spoletta! Sai cosa significa? Che potrebbero saltare in aria in ogni momento! Non è eccitante?

Ero piccolo, non capivo. Non ero in grado di distinguere tra il bene e il male, non ancora. Sul momento, anche a me sembrava tremendamente eccitante.

Solo vedendogliele brandire in quel modo, adesso, ho compreso quanto fossi in errore.

E l'eccitazione si trasforma in paura.


**


“C... cosa significa?”

“Significa che li ho avvelenati tutti, dottore. Cianuro, hai presente? Pratico e facile da trasportare. Un ottimo modo per placare il loro... dolore.”

Un colpo secco al torace, Loocke scaraventato contro il muro.

Sasha sogghigna.

“Peccato, non è saltata in aria. Se vuoi, riproviamo, ma in fretta! Non ho tutto il tempo del mondo!”

Karel rannicchiato in un angolo. Sasha gli ha impedito di mangiare la caramella, anche se la voleva. Ti fa male, Mizar. E tu stai già soffrendo così tanto...

Ed ora è lì, immobile, ad osservare impotente.

Il medico si rialza, incespica, mantiene un equilibrio precario. Colpi di tosse, continui, l'anidride satura l'ambiente, ruba ossigeno alla respirazione.

Uno sguardo al soffitto, alle travi sospese, lambite dalle fiamme.

Un crepitio sommesso, il legno addentato dal calore, bruciato sino all'anima.

Gli occhi posati su Mizar, sul bambino ancora vivo, accovacciato nell'angolo, sul terrore impresso nelle iridi di ghiaccio liquefatto.

“Cos'è, ora ti preoccupi dello scricciolo? Non prendermi in giro, dottore. Non ne guadagni nulla.”

Un passo deciso in avanti, il maglione verde ondeggia, riflessi scarlatti sulla sciarpa candida.

Ma Sasha non vede, i sensi annullati dall'istinto distruttivo, le orecchie tappate dal suono dissonante del proprio rancore.

Non può accorgersi del sostegno ceduto.

Non può accorgersi della trave che precipita dall'alto.


**


Sasha è completamente impazzito! Se non mi muovo, se non fuggo, quello mi ammazza, mi uccide! Devo fare qualcosa, devo provarci almeno!

Maledetto cane rognoso!

Io ho provato a ridarti un futuro, e tu, il futuro, vuoi portarmelo via?

A saperlo, non ti avrei mai impiantato quei polmoni!

Mai!


**


Il fumo acre emerge dalle finestre, il Sant'Elena è in fiamme, chiamate i pompieri presto!

Zundek si stropiccia le palpebre, non crede, non riesce ad accettare.

Il boato assordante, la sequenza al rallentatore.

Per un'infinitesima frazione di secondo, il nulla.

Solo per un attimo.

Poi, i muri si sgretolano, i calcinacci volano, il cemento si infrange, il fuoco divampa, tinge a giorno la notte assopita.

E di un'intera ala dell'ospedale non rimane che il ricordo.


**


“Presto, portate l'ossigeno! È vivo, è vivo!”

Un bambino steso sulla barella, i capelli biondo cenere ricoperti di fuliggine, scottature su tutto il corpo. Un timido display scuro sul polso destro, un numero ancora impresso.

Sei punto due.

“Mizar? Mizar! È passato. È tutto passato, ora. Forza!”

Un'altra barella, quindici anni dopo.

Lo stesso numero.

“Karel? Riesci a sentirmi? Sono Loocke.”

Di nuovo il bambino, una figura indistinta accanto alla branda, nell'ombra, garze e tamponi a celarla allo sguardo.

“M... Mizar! Ce l'hai fatta, Mizar! Un bel...”

I baffi grigi del dottor Loocke, la sigaretta spenta di Pascali.

“... respiro, Karel. È tutto finito.”

Le figure si fondono, si sovrappongono, si annichiliscono.

Karel apre gli occhi, torna alla realtà, al presente.

Loocke seduto alla scrivania, il computer di controllo acceso, un mozzicone stretto tra le labbra.

“Ben tornato, tra i vivi. Tutto bene, dall'altra parte?”


10. Il volo


Dove... sono?

È questo... il paradiso?

Una landa silenziosa, vuota, dai muri bianchi?

No, non può essere.

Dove sono i colori?

Il paradiso, senza colori, non è il paradiso.

Chi vorrebbe vivere per sempre in un mondo in bianco e nero?

Non io.

Amo le farfalle.

Sono una farfalla, adesso.


Già.

Ma le mie ali sono in bianco e nero.

E rosso.

Sì, scorgo il rosso.

Un rosso di fiamma, vivo, feroce.

L'ira.

Laese.

Grazie, Laese.

Grazie davvero.

Perché mi guardi?

Perché mi osservi?

Ora sono libera.

Ora cammino di nuovo.


No.

Non fa per me.

Una.

Una sola volta.

Mi hai baciata, una volta.

Hai rubato le mie labbra, per un istante.

E sono fuggita.

Avevo paura.

Ho paura.

Avrò paura.

E sarò fuggita.

Per un attimo, avrai rubato le mie labbra.

Mi avrai baciata, una volta.

Solo una volta.

Una.

Non fa per me.

No.


E il venditore?

Il venditore di braccialetti.

Braccialetti belli, decorati da semi mai sbocciati.

Semi che sbocceranno, mi aveva detto, mi aveva convinto, sarebbero sbocciati.

Semi già sbocciati, a decorare braccialetti belli.

Fiori rossi, rossi come i tuoi capelli, Laese.

Prima, viola.

Viola come il suo occhio.

Il suo unico occhio.

Strano, vero?

Le bende, le bande, le garze.

La mascherina.

È lo smog, dice, respiro male.

Il biondo respira male.

Lo sento tossire, una tosse innaturale.

Buffo.


Non so il suo nome.

Però tossisce, dunque esiste.

Anche lui vuole baciarmi.

Anche lui vuole avermi.

E ho meno paura.

Sempre meno.

Non ne ho

quasi.

No.


Non può avermi.

Sto per andare lontano

per non tornare più.

O forse sì, ma non

so quando, come

né per ché.

È così.

Già.


Sento voci.

Vita?

Forse.

Morte?


No.

Allora?

È vero?

Un battito.

Un altro.

Il cuore.

Le gambe.

Immobili.

Sono qui.

Sono ancora qui

nello stesso mondo

nella stessa dimensione

nello stesso luogo del biondo

insieme a lui

insieme agli altri.


Di nuovo.

Sola.

È questo... il paradiso?

Dove... sono?


Dove?


11. Attaccato ad una macchina


La Luna quasi piena, uno specchio d'argento ricamato. Gli occhi d'oceano si riflettono nel bianco assoluto, sotto il basco. Un lungo respiro, il cuore batte forte, troppo forte. L'agitazione, certo.

L'ultimo lavoro, l'ultima seccatura.

Donare il sonno eterno ad un ultimo angelo caduto, donargli la pace.

Era tutto così semplice, all'inizio...

Il bene, il male.

Concetti superati.

Un tocco alla pistola, uno al coltello. Armi di metallo mutageno al proprio posto, pronte all'uso. Mai usate, fino a quel momento. Estratte, mostrate, ma non usate. Comprate al mercato nero pochi mesi prima, l'ultima assicurazione sulla vita.

Se questo fosse un romanzo, dovrei tagliare almeno una gola o sparare un colpo. Se una pistola compare in un romanzo, quella pistola deve sparare. Così dicono, almeno.

Il tocco rassicurante del freddo poliacciaio, il sollievo stampato sulle labbra azzurre.

D'accordo. Si va in scena.


**


“Ben svegliato, Karel. Dormito bene?”

Karel apre gli occhi, le pupille si dilatano, si restringono, tentano di adattarsi alla luce artificiale.

“Cosa...”

“Hai avuto un collasso. La batteria dei tuoi polmoni è entrata in riserva e ha ridotto la funzionalità al minimo indispensabile per sopravvivere.”

Uno scatto del polso destro, l'urgenza di controllare il display. La voce roca di Loocke ad anticiparlo.

“Dodici punto cinque. In aumento.”

Karel tasta il proprio petto con la mano sinistra, scende fino allo sterno. Un cavo elettrico connesso al suo corpo, lo sguardo diretto al suo salvatore.

“Quanto ci vorrà?”

Loocke procede fino alla porta dello studio, lo sguardo perso, vecchie foto cartacee affiancate a quadretti olografici iperrealistici.

“La riserva si ricarica molto rapidamente. Più o meno, parliamo di un punto percentuale ogni due minuti. Dal venticinque per cento in su, il tempo richiesto è molto più lungo: una carica completa dovrebbe durare all'incirca dodici ore.”

Loocke arriccia i baffi, li contorce, ne solleva le punte.

“Comunque sia, è una domanda estremamente stupida da parte tua. Negli ultimi quindici anni, l'hai dovuta caricare almeno una volta al giorno.”


**


Un'ombra tra le vie, scivola furtiva. Il Sant'Elena è a pochi metri, le solite guardie-non-guardie. Il solito cane. Mai colpito tre volte nello stesso ospedale, nessun precedente. Pascali e Santuzzo sono tranquilli, tirano il bastoncino a Marshall per farselo riportare. Santuzzo ha ancora il cerotto appiccicato al naso piatto.

Troppo semplice superarli, troppo facile evitare che se ne accorgano.

Senza trucchi, stavolta.

Il basco a coprire il fuoco dei capelli, a celarlo agli strali della pallida Luna, stivali con suola di gomma, silenziosi.

La mente oltre l'ostacolo.

Diretta al risultato finale.


**


“Bella signorina! Lo vuole un braccialetto? Costano poco, glielo prometto.”

Cammy si ferma ad osservare, per un attimo.

Un uomo strano, il venditore. La pelle vecchia, antica, l'unico occhio acceso, vibrante di energia pura, la benda di garza a coprire metà del volto, l'altra metà celata da una mascherina antismog. Un'altra maschera, adunca, agganciata alla cintura.

Mostra con ardore i suoi prodotti, braccialetti rossi come il sangue, contornati da minuscoli semi.

“Questi si vendono in coppia, signorina! Si indossano da ambo i polsi, in perfetta simmetria.”

Cammy controlla l'ora, le otto e venti. Venticinque minuti all'appuntamento, l'adrenalina scorre nelle vene, la paura, l'eccitazione.

Ritrovare il coraggio, ritrovare la via.

Potrei prenderli, per stringerli, stringerli forte al momento della risposta... e così, superare i miei timori.

“Li prendo. Quanto vuole?”

“Quattro sterline, bella farfalla. Quattro e non più quattro. E questo è tutto.”

Una banconota, monetine di resto, i ninnoli indossati sul momento.

La voce suadente del commerciante allieta l'aria immobile.

“Vedrai, presto i fiori sbocceranno. E cambieranno colore, te lo garantisco! Però non togliere i braccialetti, eh? Se sarai fortunata, tra mezz'ora saranno belli rigogliosi!”

Un sorriso sincero sul viso delicato, Cammy saluta agitando la mano sottile. Il venditore ricambia, con fare impacciato, la voce mescolata all'essenza del buio.

“Grazie e buona notte!”

“Lo sarà di sicuro.”

Ha bisogno di coraggio.

Molto coraggio.


**


“Dottor Loocke, non... non può lasciarmi a Zundek! Lui deve occuparsi di Cammy!”

“La signorina McLeod è fuori pericolo. Si è svegliata pochi minuti fa, ora la stiamo tenendo in coma farmacologico.”

Karel allunga il braccio, protende le dita verso la figura severa, tenta di raggiungerla.

“No, la prego! Non mi lasci qui! Non con lui!”

Il medico indugia sulla soglia, immobile, i ricordi bruciano la mente, infestano il cervello.

“Devo andare. Aemilyuz arriverà a breve.”


**


Le rampe di scale salite con calma, in silenzio. Facile trovare la camera, è vicina a quella di Cammy, solo pochi metri prima. L'orologio a muro scandisce macabro lo scorrere dei minuti. Le tre di notte. L'ora più buia.

La mano preme il pomello di ingresso, lo ruota con tranquillità disarmante. Nessuna risposta.

Bloccata. Devono averla chiusa dall'interno.

Un cilindretto di metallo estratto dalla tasca della divisa, lo impugna. Una lama affilata emerge dalla superficie piatta, si innesta nella serratura, ne prende la forma.

Uno scatto.

Due scatti.

Via libera.


**


“Potressssti anche ssssalutare, Karel.”

Lo Shoiga in camice bianco, l'usuale maschera terapeutica a coprire il volto. Metallo lucido, una finta gemma incastonata sulla fronte, ad abbellire la composizione, capelli castani sintetici calano sulla nuca del serpente.

Karel sdraiato sulla branda immerso in un profondo silenzio, il cavo ancora connesso al torace.

“Perché tutto quessssta freddezza nei miei confronti?”

“Perché la odio, dottor Zundek.”

Aemilyuz si accomoda sulla sedia, la coda raccolta attorno alle gambe di plastica.

“E perché mi odi?”

“Perché se fosse stato per lei, nessuno di noi sette avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere. Ci avrebbe lasciato morire tutti. Tanto, il virus era stato debellato, no? Aveva esaurito la sua carica anche su di noi, non eravamo più infettivi.”

Aemilyuz china il capo, cerca parole che non è in grado di pronunciare. Karel continua, dà sfogo ai rigurgiti della sua anima, il dolore trattenuto per quindici anni.

“Li ho ascoltati i suoi discorsi, sa? Piuttosto che soffrire, è meglio che muoiano. Non potremmo praticare loro l'eutanasia? Questo è accanimento terapeutico!

Karel ruota la testa, gli occhi lontani da quelli del rettile.

“Ogni volta che Loocke tentava di darci un futuro, lei tentava di impedirglielo. E poi...”

L'ultimo assalto, l'ultima goccia di disperazione, un tremito nel ghiaccio secco.

“... dov'era lei, quando Sasha ha appiccato l'incendio? P... perché non era lì con noi, a proteggerci... come avrebbe dovuto?!”


**


Due lettini, paralleli. Una scrivania. Nanocondizionatori impiantati nell'intonaco. Una sola finestra, aperta. La tenda scostata, gli strali di Selene rischiarano l'atmosfera buia, un giaccone grigio sostenuto da un appendiabiti d'ottone. Una figura seduta, nell'ombra.

Una figura nota.

“Benvenuta. Ti stavo aspettando.”


**


“Purtroppo, alla fine ha vinto, dottore. Ho sposato le sue idee.”

Aemilyuz scrolla il capo, la lingua impastata tra i denti appuntiti.

“Che cossssa vuol dire? Non crederai che...”

“Per favore, risponda ad una domanda. Se ogni giorno, ogni dannato giorno lei dovesse collegare il suo corpo ad una presa di corrente per non morire, come si sentirebbe? Se poi avesse la consapevolezza per ogni ciclo completo di carica, la batteria perde efficacia?”

“Dove... dove vuoi arrivare, Mizar?”

“Dottor Zundek, non sono uno stupido. Tra meno di dieci anni, io vivrò attaccato ad una macchina. I miei polmoni dovranno essere alimentati con continuità, perché il propulsore non sarà più in grado di reggere l'utilizzo prolungato. In pratica, sarà come essere morto.”

Aemilyuz sgrana gli occhi, la bocca spalancata, uno schiaffo tremendo sulla guancia, le tre dita stampate sulla pelle pallida.

“Non dire sssstronzate! Cossss'è, di colpo ssssei diventato imbecille?”

“Non voglio diventare uno zombie, né tantomeno un vegetale. Se non ho altro futuro... tanto vale spegnermi adesso.”


**


La corta treccia bionda sull'orecchio destro, gli occhi di ghiaccio scintillante.

Laese accorcia le distanza, varca dubbiosa la soglia, le pupille dilatate, a raccogliere ogni singolo frammento di luce lunare.

“Quindi... è per questo che non mi hai denunciato?”

La pasticca trattenuta tra l'indice e il medio, le dita tremanti.

“Anche tu volevi... dormire?”


12. Non sono pronta


“Sì. È esattamente così.”

Laese attende, in silenzio. Osserva circospetta la stanza, scruta ogni angolo, ogni anfratto, in cerca della figura, della persona giusta.

“Dovrai aspettare domani, allora. Questa non è per te.”


**


L'orrore negli occhi, quando i fiori sbocciano, si avvinghiano alle vene dei polsi, piantano le radici. Cammy grida, urla, si dispera. Laese inorridita, il coltello estratto dalla tasca, la lama recide gli steli, uno dopo l'altro. Guarda che bei braccialetti! Li ho comprati per questo appuntamento! Mi stanno bene, vero?

Coraggio, darsi coraggio.

Il coraggio di uscire con lei.

Il coraggio di parlarle.

Non ne avevi bisogno. Sei già bellissima così!

Crisantemi violacei, il colore sbagliato. Dovrebbero essere bianchi, ma no, non lo sono. E si tingono di rosso, in fretta, troppo in fretta.

Dici?

I tic del suo corpo, del corpo di Cammy, ogni frase un sussulto, ansia nei muscoli, in ogni fibra.

Non stiamo facendo nulla di sbagliato. Perché sei così preoccupata?

Ancora tre steli, ancora tre corolle.

Laese ansima, brandisce l'arma con decisione.

Un taglio netto.

Perché... perché ho una risposta, ecco.

Due.

Due fiori innestati sul polso sinistro.

La lama balena nel buio della tarda sera.

Hai preso una decisione, allora?

Uno.

Un guizzo argenteo, il coltello puntato sul fiore rimasto.

Sì! Mi dispiace, ma... non sono pronta per una storia del genere. Anche... anche se ci siamo baciate. Non sono interessata, Laese.

Zero.

L'ultima corolla strappata, i fiori non assorbono più, non succhiano liquido ematico.

Le lacrime calde, il respiro pesante, la consapevolezza del rifiuto. Riapre gli occhi, l'oceano in moto proprio, la tempesta dopo il fortunale, a scrutare il terreno ruvido.

Otto steli tranciati, minuscole radici ancora avvinghiate ai polsi.

“C... Cammy? Tutto a posto?”

Ma Cammy non ascolta.

Sviene, sviene tra le braccia di Laese. Le gambe cedono, la coscienza si spegne.

E il vuoto comincia a vorticare, veloce come il vento.


**


Un lampo amaro negli occhi di ghiaccio, la voce del ragazzo scuote l'atmosfera irreale.

“Allora... perché sei qui, in questa stanza? Qui ci sono solo io.”

Lo sguardo attonito, gli occhi si posano a destra, a sinistra. Karel sogghigna, non le lascia il tempo di realizzare.

“Stai cercando il tuo committente?”

Un brivido freddo lungo la spina dorsale, le parole muoiono in gola, solo grugniti inintelleggibili. Laese biascica qualcosa, la forza di reagire, di rispondere.

“Come, scusa?”

Guarda che l'ho capito. Non sei un cane sciolto, né l'ideatrice di questo squallido teatrino, mia cara fata dei sogni. Sei solo la pistola che in un romanzo è costretta a sparare, non il pistolero.

Karel lascia la sedia, si alza in piedi, svetta sulla sua ospite. Il luccichio sommesso del display, un novantanove brillante squarcia il velo di tenebra.

“Volevo attirarti qui da me seminando falsi indizi, mostrandomi convinto di voler abbandonare questa vita. Solo così ti saresti manifestata.”

Le mani appoggiate ai fianchi, il viso compiaciuto.

“Devo dire che non mi aspettavo di incontrarti così presto.”


**


“Per favore! Qualcuno mi aiuti! Cammy... Cammy sta male!”

La gente indifferente, sguardi vuoti. Io devo tornare a casa, sono di fretta, devo prendere il treno, ho altro da fare.

Nessuno si ferma, nessuno è interessato ad una ragazza vestita di un'uniforme strappata, coperta di sangue. Qualunque sia il problema, non li riguarda.

Laese sospira, prende l'iniziativa, un braccio attorno alla spalla di Cammy, la trascina verso un bar, il primo bar aperto. Lo sguattero squadra entrambe, prima che varchino la soglia.

La disperazione nel mare inquieto.

“Per favore, chiami... chiami un'ambulanza! Sta perdendo sangue, ha degli affari attaccati ai polsi! Vi prego, vi scongiuro!”

Uno sguardo sospetto, queste si sono drogate e si sono bucate con le siringhe, sarebbe meglio se morissero. Però mi becco l'omissione di soccorso, e forse anche il gabbio. E finire in gattabuia per due fattone, proprio non mi va. Se devono crepare, meglio che lo facciano in ospedale.

Un attimo di esitazione, la cornetta alzata, il numero composto.

Un barlume di speranza.


**


Laese scuote il capo, senza fretta.

“Te lo già spiegato. Non sono qui per te.”

Karel scuote il capo, un sorriso sprezzante disegnato sul viso.

“A sapere che eri già stata contattata, mi risparmiavo la scenata emo di fronte a quel serpente del cazzo – mi sono pure preso uno schiaffo in pieno volto.”

Il dito ad indicare la guancia, a massaggiare la pelle tesa.


**


Cammy sdraiata su una barella, incosciente.

Il cuore pompa, il sangue si disperde, irrora le radici dei fiori del male.

Gli infermieri spingono, spingono il lettino, verso la sala operatoria.

Laese la tiene per mano, sfiora la pelle morbida, dimentica il gelo, tenta di lasciarselo alle spalle.

“Signori', di qui non si entra, mi spiace. Aspetti fori, la prego.”

Le dita lasciano malinconicamente la presa, conservano il calore, ancora per un istante.

“Va bene.”

Nessuna preghiera, nessun implorazione al Dio che l'ha abbandonata, che l'ha definita sbagliata, reietta. Laese chiusa nel silenzio assoluto, il pungo chiuso sul cuore, le ultime parole di Cammy a risuonare nella mente.

Non sono interessata, Laese.

Non sono interessata.

Non sono...

“Basta! Basta! Perché? Prima... prima Moe, poi Veckert, ora tu!”


**


“Ad ogni modo, la partita è terminata. Questo è scacco matto, Laese.”

Karel sistema i capelli con un gesto repentino, arriccia il codino ribelle.

“Sai? È stato sufficiente controllare le cartelle cliniche delle tue vittime per connettere. Tutti malati terminali. Tutti, eh? Eccetto Cammy. Lei aveva solo voglia di morire in pace, piuttosto che vivere senza gambe.”

“Le cartelle?! C... come le hai avute?”

Una risatina nervosa.

“Non le ho avute. Era una trappola per fartelo confessare. E ora che so... voglio il nome. Il mandante.”

Laese arretra di un passo, l'uscita a pochi centimetri.

“Mi dispiace. Da me non avrai nulla.”


**


“Braccialetti! Braccialetti belli! D'ogni colore e specie! Solo due sterline, due sterline sole! E – garantisco – vi cambieranno la vita! Sul serio! Proverete l'esperienza del nulla, vedrete la sottile barriera... e arriverete al termine del viaggio, il viaggio che chiunque compie una sola volta!”

La voce ciarla, chiacchiera per nessuno.

Nessun passante ad ascoltare.

Non il latrato di un cane.

L'unica spettatrice è la Notte.

E applaude, in silenzio.


**


“Lei è Laese Riccati?”

Una voce sconosciuta, alle sue spalle.

“Sì, chi...”

“Ha portato lei qui Cammy McLeod, corretto? Dovremo operarla d'urgenza, abbiamo rilevato complicazioni a livello neurale e...”

Laese in ginocchio, implorante, una bambina sperduta.

“Dottore...”

Le lacrime lungo il viso, il timore di tornare ad essere sola.

Di nuovo.

“... la salvi! La prego, la scongiuro! La aiuti! M... mi aiuti! Le darò tutto quello che ho, farò quello che vuole, ma non lasci che muoia. Non... non in questo modo orribile!”


**


Karel scrolla le spalle, la voce ridotta ad un sussurro acido.

“Come se non sapessi che è un medico, che lavora in tutti gli ospedali in cui hai colpito e che è sempre stato a favore dell'eutanasia, di norma proibita dalla legge...”

Il volto ruotato di lato, verso la tenda scura, la porta collegata allo studio vicino.

“Non è così, dottor Zundek?”


13. Solo un espediente metafisico


Le chele sfregano tra loro, Gozo pronto a chiudere il locale.

Le tre di notte, è tardi per un ristorante giapponese. Nessun cliente a quest'ora.

Il tempo di disattivare il quadro elettrico, pulire la cucina e si torna a casa, a dormire.

Prima, però, si mangia qualcosa. Non c'è stato tempo per cenare, tanto vale approfittarne.

“Permesso? È ancora aperto?”

Una voce sottile, minuta. Passi pesanti, all'ingresso.

“S'to kyudendo. Yokkani riap're domani.”

“Peccato. Avevo fame di sushi.”

“Tu hai sempre fame, Shu.”

La strana coppia, il titano e il colibrì.

Gozo li squadra per un istante, gli occhi enormi si estendono dal viso arancio scuro. Uno sguardo alle stoviglie, alla cena ancora calda, pronta per essere consumata, agli avanzi del turno della sera. Un pensiero alle tristi notti passate da solo, all'acquario.

“Io manjavo ora. Se borete, potete fare conpag'nia. Ci sono soro abanzi, non toccati da jente.”

Shu batte le mani, saltella sul posto.

“Grazie, grazie di cuore! Per me è a posto! Ban? Tu cosa ne dici?”

Il gigante annuisce, si accomoda al tavolo, senza proferire una parola.

Shu lo imita, si siede accanto a lui.

“Ho jus'to poco nigiri, sashimi e art'ro. S'pero bi gus'ti.”

“Si figuri! Basta e avanza!”

Gozo torna in cucina, sistema i pochi rimasugli di cibo su un tagliere di legno scuro, le chele afferrano i filetti di salmone, compattano le polpette di riso. Una scodella di ramen fumante troneggia tra le barchette ripiene di alghe.

Un'occhiata alle foto, ai quadri virati in seppia. La sua vita raccontata da immagini, dal ritrovamento nel Mar Baltico, al circo acquatico, al locale.

I ricordi domati, il presente, la sera tarda, la ragazzina e il suo sproporzionato amico.

“Ecco kuy. Tuutto kuero rimas'to.”

Gozo onora la tavola della sua presenza – è piacebore abere comensari, og'ni tanto – sorride mentre posa il vassoio sulla tovaglia bianca. Le luci soffuse, il blu dominante della notte.

Shu ricambia, mostra una dentatura bianca luccicante. Ban schiude le labbra sottili, in segno d'assenso.

“Grazie mille!”


**


“Buonasera, Aemil. Come vanno le cose, all'ospedale?”

“Non come vorrei, Noah.”

I capelli castani lunghi, iridi scure, viso allungato, un anonimo giaccone pesante.

“Capisco. Non sei qui per fare conversazione, dico bene?”

Le scaglie lucide, gli occhi sferici gialli riflettono la luce delle lampade al mercurio.

“Un bambino di nove anni risssschia di non vedere la maggiore età. Abbiamo dovuto ssssosssstituirgli i polmoni con un apparato artificiale a batteria – una batteria che non potremo mai cambiare.”

“E pensi che i miei studi sull'overtune controllato possano essergli d'aiuto?”


**


Shu si avventa sulla sua porzione, sbrana il pesce un boccone alla volta, le bacchette come la pala di un escavatore. Ban assapora ogni singolo chicco, con stupefacente lentezza.

La ragazza ripulisce il viso delicato, gli occhi posati su ogni dettaglio del locale, ammira la carta da parati, i disegni, gli haiku dipinti a pennello sui muri.

“Sapete? Questo posto mi dà una sensazione strana. Sembra... sembra uscito da un quadro di Edward Hopper, avete presente? Il tizio al bar, di notte, seduto al bancone...”

Ban serra le palpebre, un pugnetto sulla guancia candida.

“Pensa di meno e mangia di più. Anzi, no. Il contrario. Mangi già troppo, Shu.”

“Ma non metto su un chilo! E poi brucio tutti gli zuccheri in un attimo! Secondo te, perché sono così bassa e gracilina? Perché ho un cervello troppo attivo.”

L'indice picchietta sulla tempia, come a ribadire il concetto.

“Questa stufa consuma quasi tutto il nutrimento, lasciando al resto del corpo solamente ciò di cui non necessita. È per questo che ho bisogno di mangiare tanto e spesso. Preferiresti vedermi crollare a terra priva di sensi?”

Un suono gutturale ripetuto. Gozo ridacchia, quasi ingoia gli spaghetti interi. Una pacca sulla zazzera blu elettrico della ragazza.

“Voi due s't'rani, però è bero cenare con voi. Diverte.”

Un'ombra sull'uscio, una sagoma scura, indecisa.

Gozo allunga un'appendice oculare, inquadra la sagoma.

“Cee n'è anke per boi, se borete. Non avviate timore di ent'rare!”

Lo sconosciuto valuta, si ferma, torna indietro, si ferma di nuovo, gira sui tacchi, entra, lascia che la luce fioca delle lampade cinesi irrori il suo volto.

O ciò che ne resta.


**


“Noah, tu ssssei il massssimo essssperto di alterazioni disssstorssssive che io conossssca. Tuo padre ha creato i proiettori per la RealLifeAnime e ha lavorato ai primi reattori, ma tu lo hai ssssuperato.”

Il capo scosso, chinato in avanti. Noah sospira sconsolato.

“Non so cosa te lo faccia pensare. Wolfrow Simmerik era un grand'uomo. Io non ho il diritto di essere posto accanto a lui. È vero, ho provato a raccogliere la sua eredità... e trasmetterla a mio figlio Silman. Purtroppo, ha scelto un'altra strada: vuole entrare in polizia.”

Gli occhi scuri fissi sulle pupille sottili, la rassegnazione stampata sul viso.

“Ad ogni modo, come posso esserti d'aiuto?”


**


“Non volevo disturbare, solo osservare. Chi siete, che fate? La Notte non temete?”

Il venditore di braccialetti varca la soglia, raggiunge i commensali.

La voce profonda di Ban ad accoglierlo, a instillare un briciolo di calore nella pelle gelida.

“Non ho capito una parola, ma non è importante. Ci faccia compagnia.”

L'indice diretto verso il volto, l'iride viola attraversata dal dubbio.

“Io?”

Shu sfodera i suoi denti candidi, come ad accogliere il nuovo arrivato.

“Perché no? Più siamo, meglio è!”

L'uomo prende una sedia, la avvicina al tavolo, prende posto.

“Gentile, l'offerta, ma soldi non ho. E mangiare non posso, sfigurato è il mio volto.”

Gozo allunga la chela, afferra il lembo della mascherina antismog.

“Tu s'figurato? E io? Io sker'zo di natura! No p'roburema!”

L'elastico cede, svela i lineamenti, Shu osserva con curiosità.

Una piccola cicatrice sul lato del naso, la benda sull'orbita sinistra, una garza adesiva sul lato della mandibola, a coprire i segni della pelle ricucita.

“Ehi, non sei così strano. Solo pallido. E privo di un occhio. Con la guancia perforata.”

Una polpetta ingoiata quasi intera, un lampo di leggerezza nelle pupille nere.

“Sai? Ho visto di peggio, nel posto dove lavoravo. Tu, in confronto, sei quasi normale!”


**


“In sostanza, mi stai chiedendo se è possibile far diventare i polmoni... organici tramite una sovraoscillazione, giusto?”

Il tè fumante versato nella tazza, Aemilyuz la trattiene tra le dita serrate, ne sorseggia un po' con la lingua biforcuta.

“Essssatto, Noah. Hai centrato il punto.”

Il caminetto acceso, l'odore penetrante della cenere. Noah chiude gli occhi, la mano ad accarezzare la barba ruvida.

“Temo di doverti deludere, amico mio. L'applicazione di una sovraoscillazione ai polmoni di quel ragazzo potrebbe estendersi agli organi confinanti, danneggiandoli in modo irreversibile. È troppo rischioso.”

“Chiaro.”

Aemilyuz posa la tazza sul tavolo, gli occhi spenti.

Sssse le cosssse stanno cossssì, allora forsssse ssssarebbe veramente meglio che morisssse ssssenza ssssoffrire...”


**


Il venditore copre il viso con la mano, lo pone al sicuro dallo sguardo penetrante della ragazza.

“Non sono perfetto. Non guardarmi. Io non vado bene, non sono lo specchio della Notte. Sono solo un burattino rotto. Non dar troppo peso al mio aspetto, ti prego.”

Un sorrisino, le iridi viola scintillano sotto i ciuffi blu elettrico, come illuminate da led invisibili.

“La perfezione non esiste in natura, non è mai esistita. È solo un espediente metafisico che l'uomo ha costruito per potersi porre degli obiettivi, degli scopi. In assenza di un termine di paragone idealizzato, sarebbe impossibile identificare valori assoluti ai quali afferire. Possiamo quindi definirla come una primitiva tattica evolutiva nel complesso panorama della morale sociale. Nulla di ciò che esiste può raggiungere la perfezione e – proprio per questo – è l'esistenza di pregi e difetti a definire l'individuo. La perfezione non contempla difetti, negando la definizione stessa di pregio e negando – di fatto – l'individualità. La perfezione richiede dunque l'annullamento dell'individuo in una sorta di entità collettiva, che vada oltre la presenza di singoli esseri viventi. Se vuoi essere te stesso, non puoi essere perfetto. Se vuoi essere perfetto, devi perdere te stesso.”

Gli occhi tornati al colore ordinario, Gozo batte le chele con forza.

“Bera anarisi! Beri anke tuoi okki! Come fai ad accendere?”

Shu scrolla il capo, ammicca in modo impercettibile.

“Non fateci caso, è entrato l'automatico. Ogni tanto mi succede.”

Il venditore sulla soglia, lontano dai tre, metri di distanza percorsi in un attimo.

“Annullarmi... annullarmi nella Notte... sparire, svanire. Dissolvermi. È questo il prezzo da pagare? No, non ha senso. No, proprio no. No...”

Shu alza la mano, sventola il braccio.

“Ehi! Ho detto qualcosa che non va?”

Nessuna risposta, nessuna sagoma.

Solo una nube di nera foschia rarefatta.


14. False speranze


“Avanti, doc. Non ha senso nascondersi, il gioco è finito. So che sei lì dietro, che la stavi aspettando anche tu.”

Un movimento lento, la porta dischiusa, la mano nodosa emerge dall'ombra, abbarbicata al montante.

Laese apre le braccia, l'ironia sfavillante nell'oceano profondo, i palmi aperti in direzione del soffitto.

“Oh, Karel, sei così sicuro di te, delle tue deduzioni! Come potresti mai esserti sbagliato?”

Ma Karel non ascolta.

Il ghiaccio spaccato, le crepe nell'anima, il cuore lacerato.

Perché le dita sullo stipite sono cinque, non tre.


**


“Per quale motivo, se posso permettermi?”

“Lo hai detto tu sssstesssso. Non essssisssste una ssssoluzione.”

Noah ripone il bicchiere sul tavolo, il mento appuntito massaggiato con calma.

“Non esiste adesso. Pensaci, Aemil: fino a cinque anni fa, i propulsori a yrite sembravano fantascienza... poi è arrivato quel tale, Victor von Kreen, e ha sviluppato in quattro e quattr'otto un progetto per sfruttare quell'inutile minerale arancione.”

La pelle rugosa contratta, le scaglie crucciate sulla fronte curva.

“Dove vuoi arrivare?”

“Se dai a quel bambino ancora tre, cinque, dieci anni di vita... non è detto che nel frattempo non si riesca a costruire un qualche marchingegno in grado di prolungare ulteriormente la sua permanenza su questo mondo.”

“Mettiamo che non ssssia cossssì. Allora? Gli avrei donato una falssssa ssssperanza?”

I polpastrelli tamburellano sul legno massiccio, tesi, minuscole bacchette per i timpani.

“Preferisco ragionare al contrario. Se invece qualche perfetto signor nessuno rendesse questa fantomatica tecnologia disponibile e il bambino fosse già partito per i pascoli del cielo... dimmi, non sarebbe forse peggio?”


**


La figura imponente, un bastone da passeggio, il passo zoppicante. Camice bianco, lungo, minuscoli occhiali da vista sul naso adunco, la nuca calva, i folti baffi in contrasto.

“L... lei?!”

Laese ridacchia, il sarcasmo nella voce squillante.

“Finalmente. Mi stavo giusto chiedendo quando sarebbe entrato in scena.”

Un inchino sprezzante, ricolmo di rancore.

“Ossequi, dottor Loocke. O preferisce condoglianze?”


**


“Devo andare, ora, mi tocca il turno di ssssorveglianza. Megrez mi preoccupa, non riessssco a capire quali ssssiano le sue intenzioni.”

Uno sbuffo annoiato, il tè non terminato riposto sul lavandino di casa.

“Oggi ha parlato con Edward, ma non sssso cossssa ssssi ssssiano detti. Aveva una luce sssstrana, negli occhi...”

La mano stretta con vigore, il calore del contatto umano.

“Mi raccomando, Aemil. Rifletti con calma, prima di prendere una decisione. Il futuro di quel bimbo dipende da te.”


**


La pasticca racchiusa nel palmo, i muscoli tesi fin quasi a frantumarla, le dita a tastare la pistola polimorfa.

“Sono venuta come mi ha chiesto. Ora, sono libera.”

La mano nodosa stretta sul pomo del bastone, il volto torvo, crucciato.

“Al tempo. Non è ancora il momento.”

Karel tende il braccio, incredulità, amarezza nel cuore.

“No, non... non ha senso! Lei...”

“Siediti un momento Karel. Preferirei che tu ascoltassi tutta la storia, prima di giudicarmi.”


**


L'asse infuocata si frantuma, investe Sasha, un colpo in pieno volto. La mazza scivola, cade sul pavimento, tra i tizzoni ardenti. Vampe vermiglie attorno al metallo arrugginito, scaldano la polvere immobile da tempo immemore.

Due secondi per pensare, per agire. Loocke scatta in piedi, lascia Sasha alle spalle, incosciente. Una corsa sfrenata, verso l'uscita d'emergenza, verso le scale.

Se non mi sbrigo, salto in aria anch'io!

“D... dottore?!”

Una voce spaventata, tra le fiamme.

La voce di un bambino.


**


Chi è? Chi è? Mizar?! Mizar è vivo!

È l'unico sopravvissuto alla follia di Megrez!

Devo aiutarlo, devo portarlo via con me?

No, direi di no.

Perderei troppo tempo.


**


“Dottor Loocke! Aiuto! Non riesco a muovermi!”

Karel circondato da un anello di fuoco, la caviglia bloccata da un letto rovesciato. Lo sguardo incrociato, per un attimo soltanto, l'indifferenza negli occhi del medico.

“Mi dispiace.”

Loocke corre via, corre a più non posso, le urla ignorate, appelli lanciati al vuoto.

“N... no, la prego! Non mi lasci qui! Non con lui!”

Ma Loocke non sente, corre, corre verso l'uscita.

Fra poco esplode tutto, sì.

E perdere la vita così è stupido.

Troppo stupido.


**


Il boato, la deflagrazione, i mezzi di soccorso in ritardo, dove sono le ambulanze?!

Detriti, frammenti spezzati di muri sparsi nel raggio di duecento metri, rovine fumanti, macerie.

Una figura si allontana, zoppicando, un medico dal camice strappato e il naso adunco.

“Edward! Dove ssssono i nosssstri pazienti?! Li hai portati fuori, vero?!”

L'espressione istupidita stampata sul volto, lo shock dell'esplosione.

“No, io... Tutti morti, Sasha ha ucciso tutti... ma Karel no... era ancora lì... e...”

L'ira esplode nelle orbite giallastre, le pupille ridotte a fili di tenebra.

“IDIOTA!”

Aemilyuz si getta tra le fiamme, tra i resti del piano terra, striscia tra le stanze demolite, incurante delle ustioni, del calore, del fumo.

Karel è vivo, Karel è ancora lì.

Solo questo è importante.


**


“Presto, portate l'ossigeno! È vivo, è vivo!”

Un bambino steso sulla barella, i capelli biondi ricoperti di fuliggine, scottature su tutto il corpo. Un timido display scuro sul polso destro, un numero ancora impresso.

Sei punto due.

“Mizar? Mizar! È passssato. È tutto passssato, ora. Forza!”

Aemilyuz soccorso a sua volta, bruciature su tutto il corpo, sulla fronte, sulle guance, gli infermieri lo posano sulla barella, tamponi e creme pronte per l'applicazione. Tossisce, Aemilyuz, motti di fumo, di cenere compressa, espulsi dall'apparato respiratorio. Un attimo di lucidità, il tempo di contemplare il corpicino di Karel, il moto lento ma costante del torace, il respiro nell'aria nuova.

Poi, il nulla.

E lo svenimento.

Loocke seduto in un angolo, la mente immobile, persa in un vuoto senza fine.

“Mai più. Non darò mai più false speranze. Tutta colpa mia. Sasha doveva morire. Dovevano morire tutti, in pace. Non sarebbe successo niente. Non sarebbe... successo niente.”


**


“Questo farmaco è in grado di spegnere il corpo umano in meno di dieci minuti. È una neurotossina che ho battezzato sweet dreams.”

Una minuscola pastiglia bianca trattenuta tra l'indice e il pollice della mano destra.

“L'ho sintetizzata in dieci anni di lavoro, con un unico scopo: donare il sonno eterno a chi non ha possibilità di continuare.”

“E questo... cos'ha a che fare con me?”

I baffi arrotolati con cura.

“Signorina Riccati... lei qui è una clandestina, ne è consapevole? Chi lascia St. Patrick non può chiedere asilo a Shard, qui non siamo a New Langdon. Una mia chiamata agli organi competenti e la riportano sotto lo SHIELD. Io le sto solo proponendo un affare.”

Laese ingoia la saliva, le dita aggrappate al cuoio dei braccioli.

“Sia più preciso.”

“In cambio del mio silenzio, lei somministrerà di nascosto questa medicina ai pazienti che ne faranno esplicita richiesta o in condizioni di salute critiche, compresi quelli per cui esistono solamente cure sperimentali di dubbia efficacia.”

L'oceano infinito risucchiato in un vortice nero, il confronto serrato tra due volontà contrapposte.

“Lei vuole praticare l'eutanasia. Questo è un crimine assimilabile al mio, se non più grave.”

“Tu la chiami eutanasia, io dolce sonno. Se concludiamo l'accordo, io mi occuperò di occultare le prove del tuo passaggio e ti farò ottenere un permesso di soggiorno. Mi sembra equo per entrambi.”

Una stretta di mano come suggello.

“D'accordo, ci sto.”


**


“Quindi... quindi lei mi avrebbe lasciato sotto le macerie?! È stato Zundek a salvarmi?!”

Loocke si accomoda sulla sedia, il bastone tenuto con entrambe le mani.

“Sì, Karel. Ad entrambe le risposte. Aemilyuz non te lo ha mai detto perché conosceva la tua venerazione per me. Mi consideravi come un padre, non è così?”

Le gote arrossate, la pelle avvampa.

“Perché?”

“Semplicemente, non voleva sottrarti una figura così importante, dopo quello che avevi passato.”

Le dita rinsecchite arricciano i baffi grigiastri, il dorso premuto contro lo schienale.

“Ad ogni modo, questa notte avrai la tua vendetta.”

Laese annuisce in silenzio, Karel osserva i due, le pupille vagano in continuazione tra la giovane e il vecchio.

Loocke interrompe la pausa, un lungo sospiro, parole pesanti come macigni.

“La pillola che ha portato Laese... è per me.”


15. Requiem/Rebirth


Le dita aperte. Chiuse. Aperte. Il pugno serrato. Muscoli tesi. Rilassati. Tesi di nuovo.

Un movimento impercettibile delle palpebre, le ciglia intrecciate.

Figure indistinte, su sfondo nero.

Una sagoma più nitida, deforme.

Sembra un serpente.

“I parametri vitali son'nellannorma, dottore. Il peggio è passato.”

“Perfetto.”

Il camice azzurro, di carta sostituibile, la mascherina sul viso, il cappellino dello stesso colore.

Strumenti sconosciuti nelle mani tridattile.

“Battito novanta, pressione ottanta-centoventi, diciotto atti respiratori al minuto.”

Un sorriso sibillino celato dalle protezioni.

Una nuova luce negli occhi.

Ben ssssvegliata, Cammy. Dormito bene?”


**


“Dopo l'incidente con Sasha, ho deciso che non avrei mai più dedicato sforzi ed energie a prolungare artificialmente la vita dei miei pazienti. Nell'esplosione, sono morte sedici persone... e tutto perché avevamo provato a dare a un ragazzo mentalmente instabile la prospettiva di una vita più lunga. L'unica eccezione sei tu, Karel. In seguito all'incidente, Aemil mi ha segretamente pregato di continuare ad assisterti, di impedire alla batteria dei tuoi polmoni di degradarsi troppo. L'ho fatto più per pietà che altro, pietà per un collega che – come me – aveva perso ogni cosa. Sai? Non avrei mai scommesso un centesimo su di te. Credevo che saresti morto prima dei diciotto anni... e invece guardati: ne hai ventiquattro e sei davvero un bel ragazzo. Alioth, Dubhe, Alkaid... loro riposano sotto metri di terra, invece. Beffarda la sorte, non trovi?”

Gli occhiali da vista sistemati con un gesto automatico.

“Ora, sto per pagare per i miei errori. Morirò anch'io. Mi sembra una punizione sufficiente.”

Karel stringe i pugni, le vene in rilievo sotto il tessuto nero.

“No. Non lo è per niente.”


**


“Dove...”

Non ssssforzarti. Ti abbiamo appena ssssalvato la pelle. Devi ringraziare Mizar.”

Il collo ruotato a fatica, gli occhi fissi.

“Mizar...”

Zundek ripone tampone e garze nell'armadietto, sfila i guanti speciali a tre punte.

Devono averti dato il farmaco ssssbagliato. Hai risssschiato grosssso.”

“Io...”

Qualcuno mi ha detto che hai provato a ssssuicidarti, ma io non ci credo. Una ragazza giovane e carina come te non può avere motivi per togliersi la vita... sssspecie sssse qualcuno tiene cossssì tanto a lei.”

Le ali, le gambe, la vita, la morte, il biondo, Laese. Un vortice di sensazioni, di emozioni contrastanti. L'impossibilità di centrare il bersaglio.

Ora, ripossssa tranquilla. È tutto finito.”


**


Troppo comodo, Edward! Stai fuggendo dalle tue responsabilità! No, tu devi vivere... ed essere processato e condannato. Questa è l'unica espiazione possibile.”

Karel, tu hai idea di cosa sia un accanimento terapeutico? È quando un medico non ti lascia morire in virtù di un non meglio precisato principio etico. Tu ti sentiresti in colpa a donare la pace ad un ottantenne tenuto in vita dalle macchine? O ad un vegetale di cui solo il cervello è rimasto in funzione – nemmeno sappiamo a che livello? No, credo di no. Io non avrei rimpianti, né rimorsi. Pochi li avrebbero. Ma proviamo ad estendere il ragionamento: poniamo che tu abbia la certezza, l'assoluta certezza, che un bambino di dieci anni sarà costretto in sedia a rotelle per colpa di una malattia genetica incurabile e perderà via via il controllo di ogni arto. In questo caso, tentare di rallentare ciò che è inesorabile non rappresenta lo stesso, medesimo crimine?”

“Quindi Jacquie...”

“Precisamente. Gli ho solo evitato una non-vita futura. Tutto qui.”

Karel digrigna i denti, le arcate in contrazione.

Tutto qui? Tutto qui?!”

La voce come un rombo di tuono, l'aria frammentata, spaccata dalla violenza delle parole.

“Chi... chi ti ha dato il diritto di farlo uccidere?! E se... se qualcuno avesse trovato una cura, in futuro?! Jacquie sarebbe morto per niente! Per niente!”

Il mento appoggiato al dorso della mano, lo sguardo basso.

“Per niente, dici...”

Occhi di brace, tempesta di fiamme nelle iridi cupe.

“Sai, Karel... se ti stai chiedendo per quale motivo ho deciso di porre fine alla mia esistenza, la risposta è estremamente semplice.”

Un ghigno beffardo, le labbra ripiegate in un arco perfetto.

“È colpa tua. Solo colpa tua.”


**


“Funzionerà, dottor Loocke?”

“Sì, Cammy. Al cento per cento. Te lo garantisco.”

La carrozzina spinta verso il muro, Cammy seduta con le braccia conserte.

“Ne sei proprio sicura, comunque? Esistono molti metodi per permetterti di camminare di nuovo: ad esempio, le MechaLegs delle industrie von Kreen. Sono molto diffuse, persino Sapphire Holten-Herzog, la proprietaria della Sandigger LTD ne fa uso.”

“No, grazie. Non voglio farmi sostituire le gambe con dei pezzi di metallo, né farmi impiantare bizzarri supporti esterni per rimanere in piedi. Se non posso tornare me stessa, allora preferisco... addormentarmi.”

“Va bene. Tu-sai-chi passerà stasera. Attendila con fiducia.”

Il bruco zampetta leggero sull'indice della ragazza, incuriosito.

“Lo farò, stia tranquillo.”


**


“Mia? Cosa...”

“Un attimo di pazienza e tutto ti sarà chiaro.”

La mano fruga nella tasca del camice, estrae un plico stropicciato.

“Questa è la lettera che mi ha inviato Victor von Kreen ieri. È un documento piuttosto interessante, sono venti pagine di dettagli tecnici e prospetti di applicabilità.”

Karel smarrito, i pensieri incastrati in un labirinto privo di uscita.

“Non capisco.”

“Lascia che ti legga le conclusioni.”

Due colpi di tosse, Loocke si schiarisce la voce, due mini torce accese ai lati delle lenti.

“Dunque... il progetto presenta un alto grado di fattibilità. La sostituzione del propulsore preesistente con un diffusore combinato ad yrite potrà essere effettuata senza alcun danno per il paziente. Il propulsore di nuova installazione avrà un'autonomia garantita di settantadue ore e potrà essere connesso all'apparato digerente in modo da convertire parte dell'energia derivante dall'assunzione di cibo per ricaricare la batteria della protesi.

Si prega di contattare il nostro team di intervento per pianificare un'operazione congiunta.

Karel spalanca le bocca, l'aria bloccata nei polmoni d'acciaio, le corde vocali paralizzate. L'occhio acuto di Loocke attraversa la sua anima, perfora i suoi pensieri, li condensa in una frase.

“Sì, Karel. Si riferiscono al tuo apparato respiratorio. I tecnici di von Kreen hanno trovato un modo per riconvertirlo ad yrite ed evitarti di ricaricarlo con regolarità. Credo che abbiamo modificato la tecnologia dei ginoidi di classe K numerata.”

Loocke annullato, perso, accasciato sulla sedia, lo schienale piegato sotto il suo peso.

“Se io... se io ti avessi lasciato al tuo destino, quindici anni fa... tutti questi sforzi sarebbero stati vani. Ora... ora hai di fronte a te il futuro, Mizar, un vero futuro. Tutto perché la tecnologia si è evoluta e... e ciò che sembrava impossibile è diventato reale.”

Laese rincantucciata in un angolo, una lacrima sottile sul cuore tatuato.

“Se avessimo aspettato, forse... forse qualcuno avrebbe trovato una cura anche per Jacquie? E per gli altri?”

“Non lo so, Laese, non lo so. Ma una cosa è certa: ormai non serve più. Abbiamo strappato le ali, li abbiamo lasciati cadere. Li abbiamo privati del futuro.”

Loocke alza lo sguardo, incontra il ghiaccio, ricompattato.

“Se non avessi ricevuto questa lettera, non avrei avuto dubbi. Karel, tu eri nella stessa condizione di quei pazienti, di quelle anime sperdute che sono venute da me ad implorare il sonno... eppure sei vivo. E continuerai ad esserlo, nonostante le mie previsioni. Questo dimostra quanto io mi sia sbagliato. Ora, se permetti, vorrei farla finita. Laese?”

La ragazza procede lenta, la pastiglia nel palmo della mano.

Un gesto repentino, Karel si frappone tra i due.

“No, Edward! Così è troppo facile! Vuoi andartene per non sopportare il peso dei tuoi errori?! No! Tu devi, puoi rimediare! Non ti permetterò di assumere quel farmaco!”

“Che male può farmi un'innocua aspirina?”

Gli occhi sgranati, l'espressione attonita.

“Eh?”

Un suono gutturale, le spalle appuntite alzate e abbassate a tempo.

“Ho solo chiesto a Laese di portarmi un antidolorifico. Morire con l'artrite può essere frustrante.”

Un lampo di consapevolezza, un incrocio di intenzioni, la mente si tuffa dal trampolino più alto.

“Non ci arrivi, Karel? Io ho già assunto una versione diluita della mia medicina, prima di incominciare questa stucchevole messa in scena. Volevo spiegarti, prima di abbandonare questo mondo, volevo che tu capissi. Ma non potevo permetterti di fermarmi.”


**


“Igghia, dottore. L'avete salvata davvero. Complimenti vivissimi.”

Aemilyuz assorto nei suoi pensieri, un libro cartaceo tra le mani, la maschera terapeutica saldata al suo volto. Pascali ridacchia, si accende una sigaretta.

“Quando lampeggia la luce sulla fronte, che significa dotto'?”

“Che manca poco al riprisssstino dei miei lineamenti. L'avessssi sssscoperta prima, avrei rissssparmiato dieci anni.”

Un'amichevole pacca sulla spalla del rettile, la chioma smeraldina di Pascali sparpagliata sulla divisa bianca.

“Vorrà dire che recupererà il tempo perduto! Che legge di bello?”

“Un romanzo. Ssssi chiama Requiem/Rebirth. Parla di morte e rinasssscita.”

“Dotto', di morte ne abbiamo fin sopra i capelli... ma la rinascita è bella. Bella perché dà speranza. E noi viviamo di speranza, dico bene, dotto'?”

“No, Passsscali.”

Un sorriso tra i denti allungati.

“Noi viviamo per trassssformare quella ssssperanza in realtà.”


**


L'orologio al polso sinistro, la lancetta dei secondi corre lungo la circonferenza del quadrante.

“Manca poco, ormai.”

“Sta... scherzando?”

I baffi arricciati con cura, senza fretta.

“Fra alcuni minuti la polizia sarà qui. Ho inviato una confessione firmata in cui mi prendo carico di tutti gli omicidi dell'angelo del sonno. Ho anche rivelato loro dove trovare le prove e ho cancellato ogni riferimento a Laese. Quando arriveranno gli agenti, troveranno il cadavere dell'assassino e saranno contenti così. Fate solo in modo di non trovarvi qui, altrimenti sarete voi a finire nelle grane.”

“D... dottor Loocke...”

Karel afferra la mano nodosa, la porta al suo viso, la carezza del padre che non ha mai avuto.

Una carezza fredda, gelida.

Il tempo di alzare lo sguardo, di cercare risposte, un istante infinitesimo per scrutare ancora una volta gli occhi di quella figura severa e autoritaria, del vecchio medico a cui deve la vita.

Ma è già troppo tardi.

Il corpo accasciato sullo schienale, il mento appoggiato sullo sterno.

E il sonno eterno come unico padrone.


16. Su nuove ali


“Allora, cosa ne dici?”

“Mmmh... pesce crudo spalmato su polpette di riso colloso. Come potrebbe non piacermi?”

Karel scuote il capo con forza, il codino oscilla davanti all'orecchio. Un sorriso in risposta, la sinfonia dei denti chiusi attorno al cibo, il rumore di allegre ganasce voraci.

“Occhio che Gozo è sempre sul chi vive. Se ti sente, viene a scusarsi in ginocchio con le chele giunte in preghiera.”

“Vorrà dire che abbasserò il tono di voce.”

Cammy afferra i bastoncini, tenta maldestramente di afferrare il nigiri di salmone, manca più volte la presa.

“Ci rinuncio! Il prossimo lo prendo con le mani!”

La sedia a rotelle parcheggiata di fronte al locale, le gambe posate su un comune sgabello, come una ragazza normale.

Karel appoggia il gomito sul tavolo, una comune t-shirt bianca e rossa in luogo del maglione nero, il contatore innestato nella pelle del polso destro, numeri scintillanti richiamati a pressione.

La certezza di un futuro.

Lo sguardo attirato dalle cifre colorate, le bacchette posate accanto al piatto.

“Perché hai insistito per tenere un contatore? Il nuovo generatore non dovrebbe avere problemi di carica.”

“Effetto placebo. Osservare una percentuale che non scende mai sotto il novantotto è stimolante, specie se hai vissuto per anni nel terrore di raggiungere lo zero.”

La mano sinistra scivola sotto il tavolo, accarezza la pelle candida della ragazza.

“Per quanto non potrai muoverle?”

“Poco, spero. I tecnici della Metacast dovrebbero arrivare domani.”

Un velo di preoccupazione, ansia, attesa, eccitazione febbrile.

“Dici... dici che ce la faranno? Finora, hanno sperimentato il metodo solo su alcuni pazienti e...”

“Aemilyuz non ti avrebbe mai raccomandato i loro neuroni artificiali, se non fosse stato sicuro del risultato. Garantito.”

Karel gioca con le posate, il bastoncino brandito a mo' di stocco.

“Quando ero piccolo, cercavo di dare un senso al mio handicap. Ogni volta che giocavo con una spada – un ramo, un asse di legno, un bastone appendiabiti – facevo sempre finta di poterla caricare di elettricità usando la batteria del mio corpo. In quel modo, mi sentivo un po' come un supereroe. Hai presente? Il mondo da salvare, i mostri, i robot insettoidi, la bella ragazza in pericolo...”

Cammy incrocia le mani sotto il mento, un filo di trucco sotto le palpebre, un fermacapelli a forma di farfalla a contenere una ciocca celeste ribelle, gli occhi grigi ricolmi di vita, di curiosità.

“E ora che sei adulto e ne hai veramente la possibilità? Ti farai costruire una lama dinamo per realizzare il tuo sogno di bambino?”

I palmi aperti dietro la nuca, i guanti a mezze dita ancora ben visibili.

“Oh, non ne ho idea. Rispetto a quindici anni fa, è cambiato tutto. Il mondo non è in pericolo, i mostri esistono davvero, i robot assomigliano sempre più ad esseri umani...”

“E la bella ragazza in pericolo?”

Karel si alza, trotterella attorno al tavolo.

“Oh, beh...”

Cammy sollevata dal suo posto, un braccio a cingerle le gambe, uno lungo la schiena.

“... a quello stiamo lavorando, no?”

Le labbra si sfiorano, un bacio appassionato, le anime in contatto.

E la certezza di voler continuare a volare, su nuove ali.

Insieme.


**


La mela masticata di gusto, i denti ad incidere la polpa, staccarne un boccone. Il panorama dello skyline cittadino, osservato dal tetto di un palazzo basso, gli occhi puntati sul tavolo di un sushi-bar.

Il bacio tra Cammy e Karel.

Un pugno allo stomaco, il boccone di frutta sputato per terra, le dita strette attorno al picciolo.

“Se... se sei contenta così, piccola mia...”

L'oceano sovrastato da fiamme, il basco nero sollevato, la divisa consunta, strappata.

“La affido a te, Mizar. Trattamela bene, altrimenti ti uccido. Questa è una promessa.”

La mela buttata lì accanto, le mani frugano nella borsa, ne estraggono un oggetto metallico.

Il dono dello sconosciuto.

Due fori di proiettile – uno sull'orbita sinistra, uno sulla fronte – profilo adunco, minuscole griglie per la respirazione, un'impronta di rossetto sulla guancia.

Una maschera.

Laese la stringe al petto, tra i seni, si rannicchia attorno al relitto, al passato.

“Quanto mi manchi! Sono stata così stupida, così... ingenua. Sei stata mia, ma poi sei fuggita – sì! E Nyu era già morta, defunta! L'ho detto io a tuo padre, era l'unico ostacolo! Chi può aver rubato il tuo cuore al posto mio? Non ho saputo soddisfarti, vero?”

Le palpebre socchiuse, la bocca si allarga, sfiora la superficie fredda.

Le labbra stampate sullo zigomo sinistro, sbavature azzurre sul lucido grigio.

“Quando potrò averti di nuovo? Quando?! Oh, Vicky...”

Una lacrima di catrame, un solco nero sulla pelle di bambola.

“... chi voglio ingannare? Tu sei perduta, perduta per sempre...”

La maschera scagliata in aria, le dita a sfiorare il poliacciaio, la pistola impugnata.

Uno sparo.

Due.

Tre.

I ricordi spezzati, il metallo ferito, rimbalza sul cemento, deformata.

Irriconoscibile.

Laese crolla in ginocchio, l'anima in frantumi, il pianto irrefrenabile.

“... aspettami, Vicky. Tornerò da te, verrò a cercarti...”

I pugni sbattuti con violenza per terra, la pistola lasciata a se stessa.

“... non voglio più... rimanere sola.”

Fine