Neonlight (2011, incompleto)

Neonlight, Neonlight. Il mio migliore fallimento degli anni '10. 25000 parole, più di 50 pagine... mai terminato. Neonlight era un progetto ambizioso, un racconto indipendente dal mio precedente universo narrativo. Neonlight è la storia di due uomini - Ezequiel e Jerediah "Red" Horowitz (sì, questa è la sua storia di esordio) - e di una multinazionale chiamata Encorp. Neonlight è la storia di Vincent Jackson e del progetto Medusa. Neonlight è la storia di come un fallimento sia diventato un seme per le mie storie future. St. Patrick, la città che fa da sfondo alle vicende di Veckert Rainer è nata qui, anche se in una forma molto diversa. Stesso discorso per Zavira, la multinazionale che ha creato Krave, Kiyoko e Kaya in Schwarzerblitz. Come se non bastasse, una grossa parte di questa storia è tornata canonica nell'universo di Schwarzerblitz, prima in "Tales from Jackson's - No Good Deed" e poi in "Tales from Crossbones - The Problem with Encorp"... motivo per cui, forse, non posso proprio considerarlo un fallimento. Se non altro, è stato necessario per portare avanti il mio universo ed espanderlo in altre direzioni.
1. Strada nel nulla
“Frena, maledizione! Frena!”
Il furgone si fermò inchiodando. Tutto intorno c'era solamente sabbia. Sabbia, ghiaia, terriccio... nulla di più, nulla di meno. Solo le piante grasse sembravano spezzare la monotonia.
“Razza di cretino! Non te lo dovevo ricordare io di girare a destra!”
“A destra?”
Il passeggero aprì il finestrino, poi indicò la strada secondaria con l'indice della mano.
“No, guarda! Sto cercando solamente di dirti che dovevi andare di là, da quella parte, in quella direzione!”
“Hai studiato il dizionario di sinonimi e contrari, Red? So benissimo dove stiamo andando: a fare rifornimento di benzina. Dico, l'hai vista la lancetta?”
“Della tua fottutissima lancetta non potrebbe fregarmene di meno, Roger! Dobbiamo rispettare gli orari e i tempi prestabiliti, altrimenti...”
Red si portò la mano alla gola ed eseguì un movimento che lasciava adito a pochi dubbi. Roger ridacchiò indispettito.
“Certo, come no! Vorrà dire che spingerai tu il furgone quando si fermerà nel bel mezzo di questo stramaledetto deserto perché ha il serbatoio vuoto.”
Il passeggero mise il gomito fuori dal finestrino.
“Ok, ok, va bene, hai vinto. Fai il pieno a questo catorcio, poi una bella inversione ad U e siamo a posto...”
Roger innestò la prima, poi partì facendo sobbalzare il veicolo. Red lo apostrofò contrariato.
“Ehi, sottospecie di scimmia! Che cosa stai combinando? Devo insegnarti anche a guidare?”
“Colpa del mezzo. È vecchio come il cucco. Magari ci passassero qualche soldo in più al mese. Potremmo permetterci un furgone più dignitoso di questo.”
“Stai zitto e guida.”
Il veicolo annaspò in un primo momento, poi si stabilizzò ed incominciò la sua corsa. Un vecchio blindato Ford di almeno dieci anni prima. Tutto quello che potevano permettersi. Ma era già abbastanza.
L'automezzo proseguì imperterrito tra i cactus e le dune che circondavano la carreggiata. Un panorama monotono che si ripeteva identico da quattro ore. Roger abbassò gli occhiali da sole.
“Se non ricordo male, dovrebbe esserci un distributore tra meno di un chilometro...”
Red continuò ad osservare il panorama in silenzio.
Questo posto sembra essere stato dimenticato da Dio, maledizione! Perché questo genere di lavori tocca sempre a noi due? Quegli stronzi che lavorano in giacca e cravatta... vorrei vederceli a guidare per tutte queste ore sotto il sole del deserto, accidenti a loro...
Roger accese la radio, sperando di captare qualche frequenza. Un ronzio privo di significato riempì la cabina del mezzo e ne permeò l'aria per una decina di secondi. L'uomo spense l'apparecchio imprecando. Erano tagliati fuori dalla civiltà.
Tentò disperatamente di concentrarsi sul percorso.
Invano.
Una strada dritta, infinita, tra le sabbie infinite di una distesa infinita. Si guardò attorno. Alcune matasse di polvere ondeggiavano, animate dal vento, rotolando e rimbalzando ai margini della carreggiata. Sembrava che fossero sempre più veloci, come se fuori stesse per scatenarsi il finimondo. Una nube di polvere si sollevò all'improvviso, ricoprendo il cristallo anteriore di sabbia
“Merda! Aziona il tergicristallo, presto, altrimenti siamo fregati!”
Roger non se lo fece ripetere due volte. La sua espressione si tramutò da seccatura a sconforto dopo aver osservato il misero effetto ottenuto: quello di rendere – se possibile – più sporco il parabrezza.Red agitò il braccio con veemenza.
“Porca troia! È possibile che non ce ne vada giusta una? Con questa schifezza davanti agli occhi, la nostra visibilità è quasi zero!”
“Non è il caso di prendersela così. Ci faremo pulire i vetri dal benzinaio.”
Red rise nervosamente.
“Certo, perché sicuramente ci sarà un addetto al distributore in questo posto! E io che pensavo che il self service fosse già stato inventato! Scusa se ho una mentalità così arretrata, Roger!”
Roger sbuffò. Red era fatto così: un campione di lamentele e spocchia. Del resto, la Encorp non lo aveva certo assunto per il suo carattere.
“Quanto ci danno per questo schifo di trasporto?”
“Nulla. Siamo già stati pagati.”
“Allora spiegami perché lo facciamo...”
“Medusa deve arrivare intera a St. Patrick, altrimenti ci faranno a pezzi e ci daranno in pasto ai loro rognosi cani di razza.”
Rognosi quanto i loro padroni...
Roger si sporse dal finestrino per avere una visuale migliore. Sorrise.
“Ci siamo socio. Ecco la terra promessa. Non ti sentì un po' come Mosè dopo aver guidato il suo popolo attraverso il deserto del Sinai, Red?”
“Smettila di dire stronzate e accosta.”
Il benzinaio si asciugò la fronte. Il Sole lo stava logorando, ogni giorno di più.
Non è possibile che faccia così caldo...
Aveva servito solamente tre clienti dalle sei di quella mattina. Per cosa ce lo mandavano a fare? Il self sarebbe stato molto più comodo. Aprì a fatica l'ombrellone. La folata di vento di prima lo aveva chiuso sotto i suoi occhi attoniti, causando una raffica di imprecazioni e bestemmie senza fine apparente.
Basta, ci rinuncio. Lascio questo lavoro e mi trasferisco in Europa, punto! Non ce ne ho più voglia, mi pagano una miseria e...
Una forma inconsueta attirò la sua attenzione.
Un miraggio?
Un furgone completamente ricoperto da sabbia rossa, di quella appiccicosa che si attacca ai vetri e non se ne va se non strigliando come un dannato.
Non si fermeranno qui, spero...
Aguzzò la vista. Alla guida del veicolo c'era un un uomo di colore che indossava un paio di improbabili occhiali da sole. Sporgeva dal finestrino laterale per tentare di inquadrare la strada.
Mi tocca pure questa...
Il furgone era un vecchio modello di blindato, di quelli che si usavano di solito per i carichi di denaro, ma quello... be', quello sembrava adatto a tutto fuorché ai trasporti. Il paraurti anteriore cadeva a pezzi, un faro era spento e il tergicristallo mancava di più di una spazzola. Il benzinaio imprecò nuovamente non appena si rese conto della meta del veicolo: la sua stazione di servizio. L'uomo si diresse meccanicamente verso la pompa di benzina. In tanti anni non aveva mai visto uno di quei cosi montare un diesel. Erano veicoli speciali: dovevano erogare la massima potenza nel minor tempo possibile per seminare eventuali inseguitori. Inoltre, dovevano essere a prova di lanciarazzi.
Scosse la testa.
Quel Ford era lì per smontarsi davanti ai suoi occhi. Inoltre, il motore faceva un pessimo rumore. Non sarebbe durato altri mille chilometri.
Il nero accostò.
“Siete aperti, vero? Ho urgente bisogno di fare il pieno e di liberare il parabrezza da questo schifo di lerciume!”
“Certo, basta pagare.”
“Quanto per un litro? Di verde, intendo.”
“Tre dollari.”
La mandibola dell'autista avrebbe raggiunto il terreno se la biologia glielo avesse permesso.
“Tre dollari? Ma lei è completamente scemo? Dico... tre dollari al litro?”
“Se non ti va bene puoi scendere e spingere, moretto. Questo è l'unico distributore nel raggio di cento chilometri. E per la pulizia dei vetri sono altri dieci. Non penserai davvero che io mi faccia un culo così per rimettertelo a nuovo gratis...”
Roger aprì la portiera e scese.
“D'accordo, va bene. Ci faccia il pieno... e controlli le gomme. Quello almeno è gratis?”
“Altri tre dollari e se ne può parlare.”
“Dio santissimo! Questa è usura!”
“Lei è cristiano?”
Roger lo osservò perplesso.
“No, per quale motivo? Sono ateo e sto benissimo così.”
“Un ateo che chiama in causa Dio, non le sembra una contraddizione?”
“Ma lei è un filosofo o un benzinaio? Forza, faccia questo cazzo di pieno e ci lasci andare. Ed ecco i suoi stramaledetti tredici dollari per le gomme ed il parabrezza, va bene?”
“Ora parliamo la stessa lingua, moretto.”
L'uomo si fece consegnare le chiavi e aprì il serbatoio. Un tonfo sordo attirò la sua attenzione. Proveniva dal vano posteriore.
“Cosa trasportate di bello?”
Red rispose in modo secco.
“Fatti gli affari tuoi.”
Il benzinaio lo squadrò. Lineamenti duri, naso rigido e dritto, barba mal rasata, occhi da pesce bollito, capelli da hippy contornati da una fascia rossa. Sembrava fatto fino al midollo.
“Ehi, negretto! Dove te lo sei pescato questo tossico?”
Roger rise.
“Non si droga, anche se può sembrare. È il mio socio.”
“Socio in cosa?”
“Fatti gli affari tuoi. Non te lo dirò una terza volta.”
La voce di Red era secca e gracchiante. Si intonava perfettamente al suo aspetto fisico. L'uomo lo osservò nuovamente. Gli dava al massimo trent'anni. Non era particolarmente alto e neppure possente. Sembrava un accozzaglia mal riuscita di difetti. L'autista era imponente, invece. Pelle scura, naso affilato, capelli corti neri che terminavano sopra le orecchie, un paio di Ray Ban calati sugli occhi. Sempre.
“Vi costerà caro, il pieno: questi affari bevono come spugne. Anche se fossero solamente cinquanta litri, dovreste pagarmi per lo meno centocinquanta verdoni. Ce li avete?”
Red scese dal veicolo e si avvicinò al gestore della pompa.
“Abbiamo un paio di verdoni. Basteranno.”
“Guarda che io non faccio credito, pesce lesso!”
Due secondi dopo il benzinaio si trovò a terra con il braccio dell'uomo attorno al collo.
“Pesce lesso lo dici a tua sorella, idiota. Finisci il pieno e non farti più vedere.”
Il volto dell'uomo si contrasse in una smorfia di dolore.
“Lascialo stare, Red! non ti ha fatto nulla, in fondo.”
Red lasciò la presa, visibilmente seccato. Il gestore si rialzò barcollando.
“Co... cos'era?”
“Non fare domande, se non vuoi che la prossima volta non mi fermi.”
La vittima trasalì.
“Ora continua a mettere benzina o ricorro a metodi peggiori, ok?”
Il benzinaio fece un cenno di assenso con il capo, poi riprese la pistola e la rimise nel serbatoio. Un altro rumore metallico attirò l'attenzione dei tre uomini.
“Ehi, Red... e se la facessimo uscire per prendere una boccata d'aria? Tanto non può fuggire in quelle condizioni, no?”
Il suo socio lo osservò sorpreso.
“Ti sei bevuto il cervello, vero Roger? Sai cosa significa?”
“Be'... sì.”
Red scosse la testa.
“Non mi prendo responsabilità. Fai quello che ti pare. L'importante è che non ci finisca di mezzo io.”
Roger sorrise.
“Perfetto.”
Raggiunse il vano posteriore del blindato e armeggiò con i lucchetti.
“Smettila di lamentarti! Ora ti porto a fare due passi!”
Il benzinaio non riuscì a tenere a freno la sua curiosità.
“A chi stai parlando, moretto?”
Lo sguardo truce di Red bastò a farlo tacere. Roger si liberò anche dell'ultima serratura di sicurezza, poi aprì le porte con un gesto solenne.
“Scendi, signorina. Non sia mai detto che ti trattiamo come un animale. Dai, non mi dici nulla? Ah, scusa, dimenticavo...”
Roger entrò nel cassone coperto. Riemerse una decina di secondi dopo assieme ad una ragazza sulla ventina. Il benzinaio allungò il collo per poter scorgere qualche particolare in più. Ancora una volta lo sguardo di Red lo dissuase. Ciononostante, era riuscito a notare alcune stranezze nel suo abbigliamento. Portava solamente un lungo abito bianco simile ad una camicia di forza, con le maniche intrecciate e legate dietro la sua schiena. Non era l'unico vincolo. Una fascia non propriamente elastica la stringeva a livello della vita e impediva la quasi totalità dei movimenti degli arti superiori. Come se non bastasse, era bendata. Non era una benda normale, no... era di metallo e presentava una sorta di blocco di sicurezza tra i due occhi.
“Ora che ti ho tolto le cuffie isolanti puoi sentirmi, vero?”
“...sì...”
Una marea di capelli biondi accompagnarono quel monosillabo stentato.
Arrivano quasi fino al terreno... da quanto non se li taglia?
“Dai, forza, ti porto a fare due passi, tanto mancano ancora almeno tre ore di viaggio.”
“...dove siamo?”
“Non sono autorizzato a dirtelo.”
La giovane si mosse a tentoni. Aveva i piedi scalzi.
“...fa caldo... siamo nel deserto? ...su una spiaggia?”
Roger si grattò la testa.
“Non mi fare domande... non posso risponderti, lo sai.”
Red si voltò verso i due.
“Ma guarda... la principessina si è svegliata! fatto buon viaggio? Il terreno è un po' accidentato, ma in fondo Roger non guida così male, non è vero?”
Un urlo acuto, sorpreso, la voce tremante della ragazza.
“...tu? ...qui? ...per quale motivo...”
“Non ti scervellare. Non ha senso, ora. Ehi, tu! Quanto manca per riempire il serbatoio?”
“Non lo so. Ne ho già messo sessantadue litri e continua ad andare giù che è una meraviglia.”
Merda! Se continua così sfioriamo i duecento dollari per un pieno!
Red si avvicinò alla colonnina e si piazzò davanti al contalitri per capire quanto sarebbe potuto costargli quello scherzo.
Sessantacinque, sessantasei... non si vuole proprio fermare! Maledizione!
Contro ogni previsione, il conteggio si fermò sui settantatré litri.
“Okay, io il mio lavoro l'ho fatto. Ora voglio i soldi. Duecentodiciannove dollari. In contanti.”
“Calmati. Prima pulisci il parabrezza, poi ti paghiamo, va bene? Già che per quello hai voluto tredici verdoni, cerca di guadagnarteli!”
Il gestore eseguì controvoglia. Il terriccio si era appiccicato al cristallo anteriore con sorprendente tenacia.
“Ma cosa cazzo avete combinato? Avete fatto un giro nelle sabbie mobili?”
“No, ci siamo imbattuti in una piccola tempesta di sabbia. Ti basti sapere questo.”
Il benzinaio rimase in silenzio e continuò il suo lavoro. Dopo mezz'ora di imprecazioni, riuscì a dare una parvenza di pulizia al mezzo, restituendogli una dignità accettabile.
“Soddisfatto, amico? Ora se non ti dispiace, voglio i miei soldi. Adesso”
Roger sbuffò.
“Mi sa che ci tocca... quanto hai?”
Red aprì il portafoglio, ma lo richiuse immediatamente.
“Dobbiamo proprio?”
“Ehi, che scherzi sono questi?”
“...chi c'è con voi? ...non conosco la voce...”
“Non preoccuparti. È un estraneo, tutto qui. Ora, da brava, torna sul furgone e...”
Gli occhi di Red si illuminarono.
“No, aspetta. Roger, portala qui.”
“Ehi, amico, guarda che non accetto pagamenti di quel genere... ti riempono una serata, ma poi basta, lasciano il portafogli vuoto... e poi non mi piace, è troppo giovane! Io ho quarantasei anni, non sono un depravato e...”
Red rise.
“Ma cosa hai capito? Io non ho intenzione di pagarti.”
L'uomo assunse un espressione stupita.
“Come, scusami? Che stai dicendo? Dimmi, mi stai prendendo per il culo? Io chiamo la polizia!”
“E chi se ne frega! Roger, toglile la benda.”
Roger sbloccò il lucchetto del paraocchi, poi lo prese tra le mani. La ragazza aveva le palpebre chiuse.
“Forza, aprili. Apri gli occhi.”
“...devo proprio?”
“Sì, se non vuoi che applichiamo il solito trattamento.”
“Ehi, cosa significa?”
“...”
L'uomo era rimasto di sasso. Letteralmente. Non riusciva a muovere un muscolo. Solo il ritmo regolare del respiro tradiva qualche segnale di vita. Roger chiuse il portellone e salì al posto di guida.
“Forza, Red! La strada per St. Patrick è ancora lunga!”
“Aspetta un secondo.”
La mente del benzinaio era ancora attiva. Si rendeva conto perfettamente di quello che stava accadendo attorno a lui. Red stava versando benzina per terra utilizzando la pompa di carburante. Dopo averla quasi svuotata, l'uomo risalì sul furgone.
“Allora, cosa vuoi fare? Hai intenzione di menartela ancora un po'? Guarda che abbiamo già perso abbastanza tempo...”
“Zitto e guida.”
Red chiuse la porta, poi si accese una sigaretta.
“Ma non avevi smesso?”
“Sembri mia madre, Roger. Metti in moto.”
L'autista obbedì. Il motore diede qualche timido segno di vita, poi buffò in modo violento, prima di raggiungere il regime di funzionamento. Red aprì il finestrino, poi fece cadere la sigaretta per terra.
“Accelera, stupido, o qui ci rimettiamo le penne!”
Roger non capì subito, ma esegui di buon grado il comando, portando il blindato ad una distanza considerevole dal distributore. Il benzinaio osservò inorridito la benzina prendere fuoco e le fiamme risalire fino alla seconda pompa, completamente piena. Non poteva correre via. Era paralizzato. Poteva solamente pregare per la sua anima.
Sperare che raggiungesse il paradiso, o perlomeno il purgatorio.
Mezzo minuto dopo, l'inferno.
2. Sonata al chiaro di neon
Le luci al neon delle insegne rischiaravano in modo sinistro l'atmosfera rarefatta della città. La notte sembrava voler inghiottire ogni cosa. Luci bianche su sfondo nero... qualche pittore post-impressionista avrebbe potuto cogliere la grigia inquietudine di quello spettacolo e trasporla su tela.
Ma lui non era un artista. Era un esattore. E doveva riscuotere un credito. Un credito pesante.
Fissò l'orologio. Erano le due di notte, l'ora giusta per la città che non dorme mai. St. Patrick era forse la metropoli più importante dello stato. Nata sui resti di una città fantasma, lontano ricordo della corsa all'oro, era cresciuta in modo tentacolare fino a raggiungere il milione di abitanti in dieci anni. Ora ne contava sette volte tanti. St. Patrick era il luogo perfetto per nascondersi. Nessuno conosceva tutta la città: era un groviglio di vie, strade, gallerie e sopraelevate. I palazzi si ergevano maestosi verso il cielo, con le loro scintillanti luci biancastre.
Se vuoi fuggire, vieni a St. Patrick.
Un detto veritiero. Aveva fatto una fatica tremenda per acquisire le informazioni che cercava. Baristi, vigili urbani, semplici cittadini. Nessuno di loro sembrava conoscere Virkill. Aveva mostrato la sua foto ad almeno un centinaio di persone, senza successo.
Si guardò attorno. Le strade brulicavano di ragazzi e ragazze di tutte le età, di ogni aspetto, di ogni estrazione sociale. Quella città era un immenso crogiolo. Le mode nascevano e morivano a St. Patrick, spesso rimanendovi confinate e prigioniere per l'eternità.
Il suo sguardo fu attirato da un gruppetto di ragazze poco più che maggiorenni. Portavano tutte delle cuffie abbellite da una piuma. Osservò meglio. Una di loro aveva una somiglianza – appena accennata, era il caso di dirlo – con Virkill. Stessi occhi, stessa conformazione del viso. Rimise la foto in tasca. Non era lei il suo obiettivo. E poi, poteva essere solamente una coincidenza. Il suo debitore non aveva fratelli o sorelle, a quanto ne sapeva.
Gli autobus neri illuminati dai led sfrecciavano sulle monorotaie predisposte al trasporto pubblico. Attese con tranquillità che passasse il 33. Era la linea che portava più velocemente al quartiere alto della città. Virkill si trovava là. Era stato astuto, aveva cancellato ogni traccia... tranne una.
Un unico, fatale errore.
“Biglietto, prego.”
Alzò la testa. Un controllore.
“Sono abbonato.”
“Ma davvero? Mi faccia vedere il suo abbonamento, prego. E, ovviamente, un documento di identità valido.”
Prese il portafoglio ed estrasse una tessera perlacea. Il controllore la esaminò con scrupolo.
“Ezequiel? Certo che lei ha un nome davvero strano...”
“Non è il primo che me lo dice. È tutto a posto? Devo mostrarle qualcos'altro?”
“No, no, il suo biglietto è valido... scusi, pensavo fosse uno di quei portoghesi che viaggiano a sbafo. Ne ho già incontrati una decina, oggi.”
“Non ho alcuna intenzione di ascoltare questa storia. Ho altro da fare. Ho già perso abbastanza tempo.”
“Certo, certo, non se la prenda...”
Borioso buffone. Uno che va in giro vestito così, con sguardo assente e un nome del cavolo. Ma guarda te che razza di gente vai a incontare...
L'autobus procedeva a velocità spedita. Molte persone indossavano abiti fosforescenti. Doveva essere un'altra moda del momento. A St. Patrick gli stranieri si riconoscevano subito. Ezequiel indossava un lungo cappotto nero con colletto alto, coronato da un cappello a tesa larga che copriva leggermente gli occhi e i capelli castani. Nulla di più lontano dagli accessori all'ultimo grido che circolavano in città. Il mezzo si fermò per permettere ad alcuni passeggeri di salire.
Un venditore ambulante gli si avvicinò.
“Piume! Belle piume per le vostre cuffie! Per i vostri cappelli! Belle piume!”
Ezequiel rimase completamente impassibile, tentando di non attirare la sua attenzione.
Invano.
“Tu non sei di qui.”
“No, infatti.”
“Perché non compri una piuma? Ti consiglio questa, è di albatro! Bella bianca! Starebbe bene sul tuo cappello!”
“Albatro? Una volta ne ho abbattuto uno con una balestra. Non mi interessa, grazie. Non mi interessa nulla.”
“Che tono di voce piatto, amico... dai, tirati un po' su! La vita è bella!”
“Bella? Non conosco il significato di questo termine. Ora lasciami stare. Devo capire qual è la fermata giusta.”
Se tutti gli stranieri fossero così, avrei chiuso da un pezzo...
“Se compri qualcosa, posso dirtelo io. Dove sei diretto?”
“Grazie, mi arrangio da solo.”
Si guardò attorno, senza sbattere le palpebre una volta. Il venditore tentò di rilassare l'atmosfera di tensione che era venuta a crearsi.
“Vecchiette che tornano a casa, studenti in cerca di sballo, ragazzine vestite da puttane, lavoratori e turnisti. Su questo autobus c'è uno spaccato di St. Patrick. Se vuoi conoscere questa città devi usare i mezzi pubblici.”
“Non mi interessa.”
“Allora perché sei qui?”
“Affari miei.”
Una foto scivolò dalla sua tasca. L'ambulante la osservò per un attimo. L'uomo ritratto gli ricordava una giovane a cui aveva venduto una piuma di cigno proprio due sere prima. Affascinante ed eterea... i suoi lunghi capelli grigi sfumati gli erano rimasti impressi, così come il suo fisico. nulla di eccezionale, ok, però faceva una bella figura. Era lontana dalla perfezione, ma nel complesso era ben proporzionata e gradevole alla vista. Ma di tutto quel ben di Dio, il personaggio che compariva nell'immagine non aveva che gli occhi, verdi ed imperscrutabili.
Gli stessi occhi.
Non poteva sbagliarsi.
Ezequiel osservò attentamente la reazione dell'uomo.
“Tu conosci il tizio nella foto?”
“No, mai visto, mi dispiace. Però c'è una mia cliente che gli somiglia. È un tuo amico?”
“In un certo senso.”
“Ehi, cowboy, perché non srotoli la tua lingua un po' di più?”
“Perché non è il caso. Inoltre, dubito che guadagnerai qualcosa a stare fermo qui, non trovi? Vatti a cercare un altro cliente.”
L'ambulante si allontanò contrariato, imprecando a denti stretti. Ezequiel cercò di concentrarsi sul percorso. Mancavano ancora sei fermate. Molte. I quartieri alti erano un dedalo di strade concentriche ad incroci multipli. Era impossibile trovare qualcuno se non si sapeva già dove cercarlo. D'altro canto, era impossibile perdersi. Tutte le strade portavano al capolinea degli autobus. Un espediente abbastanza intelligente, in effetti. Altri anziani e giovani riempirono presto il mezzo, costringendolo a raggomitolarsi in un angolo. Si calò il cappello sugli occhi. Non aveva dormito praticamente nulla la notte precedente. Per raggiungere la metropoli aveva dovuto guidare per sei ore sotto il Sole del deserto. Per giunta, l'unico distributore nei paraggi era stato dato alle fiamme. Lui aveva solamente potuto constatare il decesso del gestore. Il corpo era carbonizzato.
Per sua fortuna, aveva ancora un paio di taniche di riserva, o non avrebbe mai visto la sua meta. Una città multiforme, viva, spettrale... così la definivano. Ogni volta che ci tornava, la trovava profondamente diversa. Ora i colori dominanti erano il bianco ed il nero, luci stroboscopiche e caleidoscopi di neon sulla tetra oscurità che sembrava inghiottire ogni cosa. Uno spettacolo affascinante e spaventoso allo stesso tempo.
Ancora tre fermate.
Ragazze vestite di abiti fluorescenti rubarono gli ultimi posti liberi all'interno dell'autobus.
Due fermate.
Una decina di persone scese dal mezzo. Era il quartiere degli anziani. Uno stuolo di fabbricati neri illuminati da fioche luci biancastre che si estendevano per alcuni chilometri. Alloggi gratuiti forniti dal comune ai pensionati. La previdenza sociale funzionava abbastanza bene a St. Patrick.
Una fermata.
Tutti gli studenti abbandonarono il veicolo. Quella era la zona degli alloggi per universitari fuori sede. Ezequiel guardò l'orologio. Erano le due e venti. Ancora dieci minuti e sarebbe arrivato. Sull'autobus erano rimasti solamente lui, il venditore, l'autista e le ragazzine. Le squadrò. Dovevano provenire da famiglie piuttosto ricche. Il capolinea del mezzo era il quartiere alto. Difficile trovare alloggio lassù senza un conto in banca di tutto rispetto. Si rivolse all'ambulante.
“Ci sono locali di tendenza o discoteche nel quartiere alto?”
“Sì, un paio. Non di più, se devo essere sincero. Un pub, due club... comunque, niente che non si trovi da qualche altra parte in questa città.”
“Capisco. Secondo te dove sono dirette quelle lì?”
“Oh, non ne ho la minima idea. Magari sono escort...”
“A quell'età? Avranno sedici, diciassette anni al massimo.”
“Si vede che sei straniero. Ricorda che i ricchi sono capricciosi...”
“Sarà.”
Era stata curiosità la sua? No. Non era possibile. Analisi logica dei fatti. Così suonava meglio. La curiosità era sparita cinque anni prima.
Un campanello acuto lo riportò alla realtà.
Capolinea.
Salutò con un cenno il venditore ambulante, una cortesia dovuta.
“St. Patrick è grande. Non credo che ci rivedremo.”
“Chi può dirlo? Se affermi una cosa del genere, sei davvero estraneo a questo mondo.”
Il collo ruotato con calma, gli occhi spenti a scrutare lo sguardo placido dell'ambulante.
“Allora... arrivederci.”
Sceso dall'autobus, Ezequiel si diresse verso il terzo anello del quartiere alto.
Palazzi immensi lo circondavano, fissandolo con i loro occhi di vetro e plastica. Alcuni lampioni illuminavano la strada. Tirò fuori un foglietto dalla tasca. Doveva cercare l'indirizzo annotato lì sopra. I grattaceli sembravano volerlo abbracciare per divorarlo ed imprigionarlo in quella corte di tenebre che sembrava permeare l'aria. Pochi rumori, nessun suono.
Musica?
In lontananza... doveva essere il pub citato dal venditore. Ezequiel aveva sete. Non beveva da troppo tempo e la sua gola si era seccata. Seguì le note malinconiche fino alla sorgente. Il locale si intonava al resto della città,un edificio nero rischiarato da neon bianchi. Il nome era tutto un programma: Chapel Perilous il luogo dove era custodito il Santo Graal.
La sacralità non è logicamente connessa ad un bar...
Aprì la porta ed entrò. Gli bastò una rapida occhiata per inquadrare clienti ed ambiente. Un ubriaco riverso su un tavolino circolare con il bicchiere ancora in mano. Un uomo quasi addormentato vicino ad una ragazza completamente nuda. Un metronotte al bancone che scolava l'ennesimo caffè per rimanere sveglio. Un altro cliente al bancone, stranamente sobrio. Ascoltava la musica. Evidentemente, doveva piacergli. Ezequiel si sedette accanto a quest'ultimo, valutato come il meno pericoloso. Doveva venire da fuori anche lui: non indossava nessun accessorio luminoso, né tantomeno piume di sorta.
“È un problema se mi siedo qui?”
“No, assolutamente.”
“Vorrei una birra chiara piccola.”
Il barista fece un cenno di assenso con la testa, poi si diresse verso la macchinetta.
“Mi sembri particolarmente deciso. Cosa ci fa qui uno come te?”
Ezequiel ruotò il capo. Era stato l'avventore seduto al suo fianco a parlare.
“Affari.”
“Capisco. Non vuoi parlarne, eh? Ok, fa niente.”
L'uomo a suo fianco aveva i capelli di color castano chiaro e gli occhi azzurri. Stava bevendo qualcosa che assomigliava ad un cocktail. Ezequiel prese la parola. Doveva dare una parvenza di normalità.
“Non sei di queste parti.”
“No, infatti. Sono un musicista. Sto cercando ispirazione per un brano. Volevo... osservare questa città di notte. Il mio prossimo pezzo sarà dedicato a lei.”
Un musicista. Categoria improduttiva.
“Come sei arrivato a St. Patrick?”
“Domani sera suono col gruppo. Tutto qui.”
“Ok, capisco.”
Il barista portò la birra. Ezequiel la bevette a piccoli sorsi. Il musicista attese un paio di secondi, poi prese nuovamente la parola.
“Sai una cosa? Questa città è triste. Sotto una parvenza di luci e gioia, di bellezza ed efficienza, si nasconde la miseria. Vedi quel tizio, l'ubriaco al tavolo? Ha perso il lavoro ieri. Lo hanno licenziato in tronco perché ha denunciato uno dei suoi capi per frode. E quell'altro, seduto sul divanetto? Sua moglie lo ha mollato per un uomo di vent'anni più giovane.”
“Non sono affari miei.”
L'avventore osservò attentamente il viso di Ezequiel. Il suo volto gli ricordava l'illustrazione di una vecchia favola che sua madre gli leggeva da piccolo, il ponte del diavolo – la storia di due paesi divisi da un dirupo. Il sindaco di uno dei due fece un patto con il diavolo affinché costruisse un ponte che li collegasse, in cambio della prima anima che ne avesse usufruito. La notte successiva si sentì un fracasso infernale, ma la mattina dopo il ponte era lì, perfetto e solidissimo. Il diavolo era pronto a ricevere il suo compenso, ma il sindaco riuscì a buggerarlo. Liberò infatti una capra, il primo essere ad utilizzare il ponte, e il demonio dovette accontentarsi. Il volto di belzebù, squadrato e spigoloso, così come appariva nell'immagine accanto alla fiaba, aveva pressappoco la stessa forma di quello dello straniero.
“Come, scusa?”
“Io vivo alla giornata e agisco nella razionalità più completa. Non ho tempo di occuparmi anche dei problemi degli altri.”
Il musicista rise.
“Se la pensassi come te, non avrei mai scritto nulla. È dalle emozioni, anche le più tristi, che nasce una canzone. Tu sembri esserne sprovvisto.”
“Già, forse hai ragione.”
“Consolati. C'è chi sta peggio di te. Il metronotte alle tue spalle fa dei turni massacranti per uno stipendio da fame – non ha trovato nessun altro posto di lavoro, cerca di capire – e la ragazza, quella accanto all'uomo di cui ti parlavo prima... dimmi, quanti anni ha secondo te?”
Ezequiel non si voltò nemmeno.
“Venti. Forse anche meno.”
“Sei un fisionomista. Ad ogni modo, lo sai perché si vende così? Perché non ha nessun altra possibilità. Non ha completato gli studi, non parla molto bene l'inglese... per lei le porte di questa città sono chiuse. Era l'unico modo per sopravvivere.”
“Amen.”
Ezequiel svuotò il bicchiere e chiamò il barista per il conto.
“Lascia stare, offro io.”
Assolutamente illogico.
“Per quale motivo? Non ne vedo...”
“Tutto questo posto, tutte queste persone... tu stesso... farete parte della mia canzone, amico. Mi sembra un buon motivo.”
Contento te... come si dice in questo caso? Ah, sì.
“Allora grazie.”
“Di nulla. Forse ci rivedremo. Forse no. Ma prima o poi sentirai la mia canzone alla radio.”
“Non ne so neanche il titolo.”
“Non importa. Lo capirai dalle parole.”
“Immagino. Arrivederci, allora.”
Ezequiel guadagnò l'uscita del locale, sotto lo sguardo incuriosito del barista e degli avventori ancora svegli. La ragazza si alzò dal divanetto dopo essersi stiracchiata e si avvicinò al musicista.
“Chi era quello? Non l'ho mai visto qui in giro.”
Il musicista la guardò negli occhi, poi si voltò verso l'uscita del locale.
“Nonostante le apparenze, una persona più triste e tormentata di tutte quelle che sono qui dentro...”
La porta si chiuse con un tonfo sordo.
“...anche se forse non se ne rende conto.”
Ezequiel raggiunse finalmente il terzo anello. Tutte quelle chiacchiere lo avevano rintronato. Ora doveva raggiungere il luogo dove risiedeva il suo debitore. Virkill. Ammesso che si chiamasse ancora così. Sarebbe stato stupido da parte sua non cambiare nome. O forse no. In fondo, credeva che lui fosse morto. Entrò nell'androne del palazzo e cercò il nome sul citofono. Non c'era. Prevedibile. Si appoggiò alla parete opposta per riflettere. L'indirizzo era corretto. Cosa avrebbe dovuto fare per localizzare l'interno giusto?
Rumore di passi.
Ezequiel si eclissò, lasciandosi l'atrio alle spalle. Chi poteva essere a quell'ora? Una figura familiare si stagliò davanti ai suoi occhi. Era la ragazza dagli occhi verdi che assomigliava alla sua preda. Forse ci siamo.
La giovane si avvicinò al citofono e premette un tasto. Ezequiel seguì quel movimento con gli occhi. Era il quarto a partire dall'alto, nella colonna di destra. Una voce gracchiante le rispose dalla grata.
“Sei tu Beatrice?”
“Sì! Sono tornata ora! Sapevo che eri ancora sveglio.”
“Dai, sali che è tardi. Devo sbrigare ancora alcune faccende.”
Un sonoro CLACK accompagnò l'apertura della porta. La ragazza varcò la soglia decisa. Ezequiel estrasse la foto dalla tasca. Era l'unico indizio che aveva a disposizione.
Si avvicinò al portone ed esaminò la targhetta vicino al pulsante premuto dalla giovane. Certo, era un azzardo. Poteva aver preso una cantonata, ma quello era il minore dei problemi. Lesse lentamente le lettere che componevano la nuova identità del suo bersaglio.
Agirò tra un paio di ore. Questa volta non potrai sfuggirmi... Vergil.
3. Le arterie del gigante
“Allora? Ci muoviamo o no, là davanti? Fate questi diavolo di controlli e lasciateci andare!”
“Calmati, amico. È il regolamento...”
“Me lo sbatto il regolamento.”
Red aveva perso per l'ennesima volta la pazienza.
“Quei catorci – intendo, gli automi di sicurezza – non potrebbero essere programmati meglio? Insomma! A momenti ci metto meno a fare una ricarica sul cellulare!”
“Calmati, adesso! Piuttosto... perché hai bruciato la pompa di carburante? Non ci avevano ordinato di...”
“Roger, conosco gli ordini. E – soprattutto – conosco le priorità. C'era una Pontiac nera dietro di noi. L'ho vista in lontananza prima di partire. Distruggendo la stazione di rifornimento gli ho impedito di rabboccare la benzina.”
“Pensi che ci stesse seguendo?”
“Tutto può essere. Ho preferito non correre rischi. Comunque, era troppo lontano per poterci vedere. Al massimo, può aver intravisto il furgone. Senza riconoscerlo, chiaramente. In ogni caso, farò rapporto.”
Red suonò vigorosamente il clacson premendo la parte centrale del volante.
“Allora? Muovetevi robot del cazzo!”
Una voce sintetica lo apostrofò.
“Identità confermata – Cargo 6716 – Roger Wades, Jerediah Horovitz...”
“Red, macchina idiota! Red! R – E – D! Non pronunciare il mio nome completo ogni volta!”
Il messaggio registrato proseguì imperterrito.
“... Esemplare 16-48-232 – destinazione: laboratorio est – padiglione 9 – prego, proseguire.”
“E salutami tua sorella!”
“Basta! Non è il caso di prendersela così...”
“Ma vai a cagare!”
Roger sospirò. Quando Red era nervoso, si esprimeva solo per turpiloquio. Ormai c'era abituato. Girò la testa verso il vano posteriore.
“Non sei contenta? Ti abbiamo riportato a casa!”
“Imbecille, non può sentirti. Ha le cuffie isolanti.”
Il blindato riprese la sua marcia verso la destinazione prescelta.
“St. Patrick è veramente una città interessante, non trovi?”
“No. Proprio per niente.”
Il mezzo si ritrovò a percorrere uno stretto corridoio sotto una galleria poco illuminata. Nella penombra, Roger cercava di scorgere i soliti punti di riferimento. Era la sesta volta che percorrevano quel condotto.
“Sai, Red... non pensavo che Medusa fosse così efficace. È bastato un solo sguardo e...”
“Secondo te perché l'hanno chiamata così? Qui i nomi non vengono dati a caso.”
Alcuni automi rudimentali si occupavano di ripulire la strada dai rottami di scontri precedenti. Purtroppo gli incidenti erano molto frequenti. Ogni giorno transitavano tra i ventimila e i cinquantamila veicoli su quel percorso privato, mezzi in attesa di essere smistati verso la loro destinazione. I laboratori Encorp erano immensi. Suddivisi in quattro macrosettori – nord, sud, est ed ovest – erano costituiti da centinaia di microunità indipendenti adibite a compiti specifici.
“Non ho ancora avuto tempo di visitare completamente il blocco est. Sai mica cosa c'è al suo interno?”
“Se non ricordo male... il biolaboratorio alfa (BL-α), il centro ricerche sull'intelligenza artificiale (CRIA), il padiglione di clonazione applicata (PCA)... ah, sì, l'orfanotrofio... ed il centro trapianti (CTR).”
“Come fai a ricordare tutte le sigle, Red?”
“Non le ricordo tutte, infatti. Ti ho elencato solamente le strutture più importanti. Se la memoria non mi inganna, ce ne sono almeno un'altra ventina.”
Il furgone si mosse lentamente nel traffico.
“Ogni volta è la stessa storia... ci vorrà almeno un'ora per arrivare.”
“Solo una? Vabbé, io mi metto comodo. 'Notte, Roger.”
Red chiuse gli occhi e reclinò leggermente il sedile. Erano le due di notte e non erano ancora giunti a destinazione.
“Svegliami quando vuoi il cambio.”
Roger sospirò.
Non è possibile che quei cervelloni dei nostri capi non abbiano ancora trovato un modo intelligente per smistare il traffico, maledizione!
Si sporse dal finestrino per capire se qualcosa era andato storto. Gli automi di controllo stavano portando via alcuni pezzi di lamiera.
Un altro incidente?! Ma porco... ehi, un momento...
Altri automi portarono alcune barelle e le poggiarono per terra. Due corpi giacevano nelle vicinanze, probabilmente senza vita.
Che cazzo è successo? Chi ci ha rimesso le penne?
L'autista si sporse il più possibile. Uno dei due cadaveri era quello di un impiegato della Encorp. Era stato sbalzato fuori dalla cabina di guida e ora era ridotto in uno stato pietoso. L'altro era più giovane ed era vestito della stessa camicia di forza che avevano utilizzato per Medusa. Roger scese dal furgone per vederci più chiaro. Molti altri conducenti avevano avuto la sua stessa idea.
“Sai mica cosa è successo, Dan?”
“No, non ne ho idea, ero troppo dietro e...”
“Dicono che abbia perso il controllo!”
“Ma a quanto andava?”
“Centoventi chilometri all'ora!”
“Non è possibile, il limite è di settanta...”
“Ma chi se ne frega dei limiti qui! Ha fatto bene!”
“Lo sai cosa succederà ora?”
“Chiuderanno il condotto per un paio d'ore...”
“Un paio d'ore? Ma cazzo! Dimmi che non è vero!”
“Lo fanno per recuperare l'esemplare, mica per l'autista.”
“A proposito, chi è?”
“L'esperimento? E io cosa...”
“Ma no, intendeva l'autista, capra!”
“Trevor. Direi che si tratta di lui...”
“Come sarebbe a dire Trevor? Trevor sono io!”
“Ma non tu, imbecille! L'altro Trevor...”
Roger tornò al blindato.
“Ehi, Red, svegliati!”
Il suo socio si stiracchiò senza aprire gli occhi.
“Cosa c'è? È già il mio turno?”
“No, amico. Abbiamo una grana. Circolazione interrotta per due ore. Ci tocca dormire qui.”
Red saltò sul sedile.
“Ma che gli venga un colpo!”
Scese dal blindato.
“Cosa accidenti combinano? Non possono bloccare tutta la circolazione per un fottuto idiota che si è andato a schiantare!”
Raggiunse il vano di carico e lo prese a pugni.
“Non voglio aspettare così tanto!”
“Smettila, Red! Così peggiori la situazione... e rischi di far saltare i lucchetti! Lo sai che le serrature sono da cambiare.”
“Ma certo! Di male in peggio! Ora non posso nemmeno sfogarmi?”
Colpì il portellone con un calcio.
“Aprilo! Aprilo, ho bisogno di pestare qualcuno!”
“Red, calmati, ti scongiuro! Se Medusa non arriva intera...”
“Io non voglio ucciderla! Solo avere qualcuno su cui scaricare la mia ira!”
Red incominciò ad aprire i lucchetti.
“Brutto deficiente! Cosa stai facendo? Se succede qualcosa...”
Roger si avventò su di lui, cercando di fermarlo. Red lo respinse con un pugno allo stomaco.
“Ne ho abbastanza di queste seccature! Io sono un uomo d'azione. Ho fatto parte dei servizi segreti israeliani... e devo fare da balia ad una ragazzina con gli occhi d'oro? Ma figuriamoci!”
Roger era riverso a terra, dolorante.
“Red... non fare cazzate!”
Il suo appello cadde nel vuoto. Red aveva già aperto il portellone e trascinato per i capelli la ragazza. Le strappò le cuffie isolanti, poi la spinse verso il lato del furgone.
“Mi fai male! Smettila!”
“Brutta stronza! È tutta colpa tua se sono qui!”
La colpì con un calcio al basso ventre. Cadde a terra urlando.
“Cosa ti ho fatto io?”
“Smettila Red! Non combinarne un'altra delle tue!”
“Fottiti, Roger.”
Afferrò la ragazza e le tirò nuovamente i capelli.
“Io sono stanco di questo lavoro! Stanco, capisci? No? Allora un'altra ripassata ti sistemerà per bene!”
Un pugno in pieno volto. La giovane cadde a terra sanguinante. Si rialzò a fatica. Roger si era rimesso in piedi.
“Senti, hai scherzato fin troppo, Red... ora calmati, va bene? L'hai colpita e anche in modo duro. Ora, non ti sembra il caso di fermarti? Vuoi anche stuprarla, per curiosità?”
“No, a posto così. Rimettila nel cassone.”
“Sei un fottuto imbecille, Red.”
“Lo so. Ora esegui l'ordine e stai zitto. Sono io il capo qui.”
Roger afferrò la ragazza e la riportò all'interno del blindato. Un rivolo di sangue le scendeva dalla bocca.
“Forza, non fare storie... mi dispiace che lui ti abbia trattato così, ma, insomma è lui il responsabile e...”
“Cosa fai, mi giustifichi pure? Forza, trattienila!”
Roger le mise una mano sulla bocca. La ragazza non si lasciò sfuggire l'occasione. I suoi denti lasciarono un segno indelebile sull'indice dell'uomo.
“Aaaah! Brutta puttana!”
Incominciò a correre alla cieca, guidata solamente dai suoni e dal suo istinto.
“Fermala, Red! Fermala o siamo fottuti!”
“Maledizione!”
Red estrasse la pistola dalla fondina e la puntò al suo bersaglio.
“No! Idiota! Non premere quel cazzo di grilletto! È un esemplare unico, in via di sperimentazione! Se lo uccidi, ci faranno la pelle, capito?”
“Merda! Perché non l'hai detto subito?”
Sparò due colpi in aria.
“Non fare un passo in più! Fermati! Fermati!”
Medusa correva trafelata, senza poter vedere gli ostacoli. Inciampò e cadde, sbattendo contro il portellone dell'ambulanza. Tutto il mondo incominciò a vorticarle attorno. Un volto familiare le comparve davanti agli occhi, prima di svenire.
“Stevan...”
Crollò a terra, priva di sensi.
“Merda! Spostatevi! Spostatevi, ho detto!”
“Negativo. Vietato avvicinarsi all'area delle operazioni.”
Red si infuriò.
“Devo riprendere una stronza che è scappata! Lasciatemela.”
“Negativo. Vietato avvicinarsi all'area delle operazioni.”
Red provò a raggiungerla, senza successo. I camionisti erano asserragliati attorno al luogo dell'incidente che aveva coinvolto Trevor.
“Fanculo. È andata a sbattere contro l'ambulanza. Ora quei maledetti automi la porteranno via come da programma!”
“Devo ricordarti che è tutta colpa tua? Ora cosa facciamo? Come la spieghiamo questa?”
“Al solito modo. Ora aspettami qui. Faccio ragionare quegli stupidi pezzi di ferro.”
Red riuscì ad aprirsi un varco tra i presenti.
“Volete levarvi dalle palle? Via, via, circolare! Perché non l'avete fermata?”
“Tu ce l'hai chiesto, Jerediah?”
Un montante sinistro zittì l'autista che aveva osato pronunciare quel nome. Raggiunse uno degli automi.
“Senti, scatola di latta. Io devo portare la ragazza dal capo, capito? Dal capo! Se non gliela porto si incazza con me. Ma anche con te. E ti fa smontare. Sono stato chiaro? Smontare pezzo per pezzo.”
“Negativo. Vietato avvicinarsi all'area delle operazioni.”
Red puntò la pistola alla testa del robot.
“Allora non ci siamo capiti! Se non ti smontano loro, ti smonto io!”
“Fermati, cretino! Se fai una cosa del genere, i colletti bianchi ti ammazzano sul serio!”
Abbassò l'arma.
Giusto. Quei vermi striscianti, nei loro uffici... possono disporre della mia vita come meglio credono. Ed io?
“Ok, va bene. D'accordo. Portatela voi. Non posso fare una strage di rottami.”
I robot infermieri caricarono la salma dell'autista sull'ambulanza, poi sollevarono il corpo del secondo esemplare, infine posero delicatamente Medusa su una barella e la portarono all'interno del veicolo. Red osservò con attenzione tutti i passaggi.
Temo che dovrò fare rapporto... e ora chi li sente quelli?
Si allontanò svogliatamente dall'area dell'incidente e si diresse verso il suo furgone.
“Lasciamo perdere. La porteranno quei catorci al capo. Dammi il cellulare che chiamo chi di dovere.”
Il collega gli passò un telefono.
“E questo sarebbe un cellulare? Ha almeno dieci anni! E per di più ha lo schermo incrinato! Come accidenti fai ad usare questo ferrovecchio?”
“Questo passa la mutua.”
Red si sforzò di sorridere, poi compose un numero sulla tastiera.
“Non ha neanche il touch? Ma dove l'hai comprato?”
“Non sono affari tuoi.”
“Come cazzo si fa a chiamare?”
“Premi il tasto verde, genio.”
Scosse la testa, poi premette il pulsante e avvicinò il cellulare all'orecchio.
Uno squillo... due squilli... tre squilli... sto perdendo la pazienza... al prossimo riattacco...
Finalmente il ricevitore diede segno di vita. Una voce nervosa e preoccupata si rivolse a lui con tono seccato.
“Pronto, Wades? Cosa sta succedendo lì? Ho ricevuto una comunicazione da alcuni autisti... è vero che è morto un esemplare? Ma soprattutto, è il vostro? Quello che stavate trasportando voi? Dimmi di no, ti prego! Se succede qualcosa a Medusa, io ci rimetto la testa, Wades!”
Red rise maliziosamente.
“Sorpresa! Sono Horowitz! Sì, mi dispiace, Jackson. Abbiamo perso la nostra cara 16-48-232... Adonai accogli la sua anima...”
“Oddio! Dio santissimo! Stai scherzando, non è vero? Stai scherzando? Lo sai che ci ammazzano tutti, Horovitz? Lo sai, porca puttana? Dimmi che hai sbagliato!”
Red attese per dieci lunghissimi secondi prima di rispondere.
“Oops... in effetti... mi sono sbagliato, Jackson. Scusami, è che questi esemplari sono tutti uguali fra loro, non trovi?”
“Fottiti Red! E ora rispondimi sinceramente... è successo qualcosa a Medusa?”
“Non voglio nascondertelo, Jackson. Si è ferita. È fuggita dal furgone e si è schiantata contro il portellone dell'ambulanza. Tutto qui. Suppongo che non siano lesioni gravi, però quegli scassatissimi rottami ferrosi hanno deciso lo stesso di ricoverarla. Non ho altro da segnalarti, Jackson.”
Stupido colletto bianco inamidato e impomatato. Io mi sono fatto il culo per portarla qui e pretendi di darmi ordini?
“Horovitz... stramaledetto imbecille! Come ha fatto a fuggire dal blindato? Il vano di carico doveva essere chiuso!”
“E lo era, Jacko. L'ho aperto io. Non chiedermene il motivo, o ti trovi spalmato su un muro con le braccia annodate. Sono stato chiaro? Se mi fai rapporto, vengo a prenderti e ti ammazzo con le mie stesse mani!”
Vincent Jackson chiuse la comunicazione. Si risistemò il colletto della camicia e si asciugò la fronte. Quell'incidente era stato la goccia che faceva traboccare il vaso. Red era un tipo pericoloso ed imprevedibile – e questo lo sapevano tutti – ma nessuno pensava che potesse esserlo fino a quel punto. Jackson si stava giocando il posto di lavoro in questa operazione. Il progetto Medusa era stata una sua idea. Annodò la cravatta meglio che poté, poi si diresse verso il centro medico del pronto soccorso. L'esemplare sarebbe arrivato da lì a poco. Quegli automi erano maledettamente efficienti. Per i mezzi di emergenza esisteva una corsia dedicata all'interno dell'immensa autostrada di collegamento. Bastavano generalmente quindici minuti per raggiungere i laboratori Encorp dall'imbocco della strada di canalizzazione. Jerediah Horovitz... perché diavolo aveva affidato a lui il controllo della missione? Poteva chiederlo a Roger... ma no, no, i suoi superiori volevano Red.
Per quale motivo, poi...
Pensavano che fosse il miglior uomo sulla piazza per gestire quella complicata situazione. Chiuse il pugno. Era solamente una seccatura. Indisciplinato. Rozzo. Irascibile. Letale.
Rabbrividì.
Non c'erano dubbi.
Letale.
Era quello il motivo della sua assunzione.
Jackson aumentò l'andatura. Non vedeva l'ora di accertare lo stato di salute della creatura. Su di lei erano fondate tutte le sue – poche – speranze di promozione. Si era giocato tutto nello sviluppo del suo sistema visivo. Aveva convinto le alte sfere della Encorp ad assumerlo dieci anni prima, proponendo proprio quell'esperimento. Scosse la testa. Dieci anni... era passato davvero così tanto tempo? Il corridoio terminava in una porta provvista di maniglioni antipanico e luci di sicurezza.
Luce verde: tutto a posto, si entra. Luce gialla: qualcosa è andato storto. Luce rossa: ok ragazzi, qui non si scherza. Evacuazione generale.
L'ultima eventualità non si era mai verificata, per fortuna. Premette la maniglia, dopo essersi premurato di controllare nuovamente i segnali luminosi. Il locale era ampio e ben illuminato: un'enorme sala circolare, coperta da una cupola maestosa, che ne sigillava la sommità. Al suo interno erano state montate apparecchiature avveniristiche, il meglio che la scienza medica contemporanea potesse offrire. Una miriade di apparati delle più svariate forme si muovevano silenziosamente nella luce delle lampade alogene. Il team medico era già stato allertato. Un esercito di uomini in camice bianco e mascherina era pronto ad esaminare lo stato di salute dell'esemplare. Jackson tirò un sospiro di sollievo. In fondo, quell'incidente aveva avuto un lato positivo. Se Medusa non si fosse ferita, avrebbe dovuto attendere perlomeno ancora tre ora prima di poterla abbracciare. Una gioia crudele pervase la sua mente. Se l'affare fosse andato in porto, avrebbe vissuto da nababbo per tutto il resto della sua vita. L'esercito americano avrebbe pagato oro per un'arma del genere... ma perché limitarsi a pensare al suo Paese? Chiunque avrebbe sborsato parecchi quattrini per l'esemplare che i robot stavano portando da lui. L'unico interrogativo era cosa fare di tutti quei soldi... ma le idee, dopotutto, non gli mancavano.
Per prima cosa, cambio nome e cognome... e tanti saluti alla Encorp! Nessuno potrà trovarmi, se seguirò l'esempio di Virkill. Le alte sfere non si muovono per un impiegato di quarta categoria scomparso nel nulla... e, se mai si muoveranno, io sarò già abbastanza lontano.
Si fregò le mani.
Non poteva andare meglio.
Dopo i dieci minuti previsti, l'ambulanza fece capolino dall'ingresso del padiglione. Il vano posteriore si aprì e ne fuoriuscirono sei droidi che trasportavano, nel complesso, tre barelle. Su due di esse giacevano senza vita i corpi dell'autista e dell'esemplare morti nell'incidente. Sulla terza era distesa una ragazzina dai capelli biondi, lunghi fino ai piedi. Indossava una sorta di paraocchi. Jackson fu attraversato da un fremito di eccitazione.
Eccola!
Un settimo robot lo raggiunse. Era una specie di manichino su cingoli con un televisore (o qualcosa di simile) al posto della testa.
“L'esemplare 16-48-232 è classificato bianco meno meno, grado zero su dodici. Le cure prestate dai droni di soccorso hanno ripristinato le sue condizioni al 99,78%.”
“Ok, ok, risparmiami i dettagli. Quindi è sana come un pesce. Possiamo iniziare l'esperimento! Voi due!”
Jackson si rivolse ai barellieri.
“Posatela delicatamente su quel tavolo. È stata sedata, spero.”
“Sì, signore. Due dosi di antidolorifico e tranquillante. Per sicurezza. È la prassi.”
“Perfetto. Voi sgombrate pure la zona. Io raggiungo il personale del controllo.”
L'uomo attraversò la porta che conduceva alla torre di comando dei macchinari, mentre gli automi eseguivano i suoi ordini. Respirò profondamente, poi si sistemò gli occhiali da vista.
“Calmati... vedrai che andrà tutto bene... ognuno farà la sua parte... e tu sarai libero, Vincent... libero...”
4. Con l'acqua alla gola
Il ragazzo si avvicinò alla porta. La sua psiche non avrebbe stato un altro fallimento.
Respirò profondamente, poi chiuse gli occhi.
Cosa poteva fare, se non aspettare?
La maniglia sarebbe scattata, prima o poi. Doveva solamente attendere.
Si guardò attorno. Era in una sala d'attesa vuota. Non erano in molti ad aver risposto a quell'annuncio di lavoro.
Sorrise.
Probabilmente gli altri non hanno le mie referenze... oppure non hanno la mia faccia di bronzo. Qualsiasi delle due va bene, basta che non si presenti qualcun altro.
L'attesa si protraeva ormai da una buona mezz'ora. Se non altro, le sedie erano comode. Prese una delle riviste accatastate sul tavolino che si trovava davanti a lui. Il tempo di una rapida occhiata, poi la gettò per terra sbuffando.
“Solo rotocalchi, tabloid e riviste di gossip! Andiamo bene... se l'intelligenza di questa gente si misurasse in base ai giornali che lascia a disposizione dei presenti, be', qui saremmo a livello capra tendente all'oca!”
“Lieto che la pensi così, signor...”
Un uomo aveva varcato silenziosamente la soglia che lo separava dal colloquio di ammissione. Frittata.
“Schneider. Stevan Schneider.”
“Se vuole accomodarsi, signor Schneider...”
Il tizio che lo aveva raggiunto in sala d'attesa era alto e distinto. Era vestito con una giacca nera su camicia bianca e portava un paio di occhiali da vista. La sua folta capigliatura nera iniziava a mostrare alcuni segni di cedimento a livello della nuca e alcuni chiazze bianche minavano l'uniformità del colore.
“Arrivo. Immediatamente. Il tempo di lasciare la giacca e... ok, insomma, ci sono.”
“Prego. Entri pure.”
Lo studio era piccolo e spoglio. Conteneva a malapena una scrivania ed un armadio. L'uomo si sedette, poi gli porse la mano.
“Jackson. Vincent Jackson.”
Stevan lo imitò.
“Piacere. Stevan Schneider.”
Jackson lo squadrò dalla testa ai piedi.
“Signor Schneider... lei si rende conto a che tipo di annuncio ha risposto, vero?”
Il ragazzo sorrise.
“Le sembra possibile interpretarlo male? Vuole che glielo riassuma?”
“Perché no? Faccia questo esercizio di lingua inglese per me...”
“Dunque... voi volete assumere una persona che abbia esperienza nell'esercito, sia disponibile a viaggiare molto ed abbia la patente di guida, conosca almeno un'arte marziale e tre lingue, sia capace di utilizzare armi a piccolo, medio ed alto potenziale... ah, sì, e non faccia troppe domande. Sono promosso?”
“Otto più, Schneider. Ok, allora è sano di mente. Ora mi dica come mai pensa di essere adatto a questo lavoro.”
Stevan si fermò un attimo a riflettere su come impostare il discorso, poi, sempre sorridendo, prese la parola.
“Bé, vediamo... ho passato tre anni nell'esercito e sono stato addestrato ad utilizzare tutte le armi, dalla pistola al bazooka. So guidare i furgoni e ho la patente apposita – oltre a quella della macchina, sia chiaro. Sono cintura nera di primo dan di karate e ho praticato per qualche tempo lo judo. Conosco l'inglese, l'ebraico, l'italiano e il russo. Ho anche qualche nozione di arabo, ma nulla di particolare...”
“Capisco. Se le cose stessero così, lei sarebbe l'uomo che fa per noi... anche se a dire il vero, il suo aspetto dice il contrario. Le darei, diciamo... ventitré anni? Ventiquattro ad essere generosi.”
“La prima che ha detto era giusta.”
Jackson rimase in silenzio per un po' di tempo.
“Lei ha idea del perché tutti – e quando dico tutti intendo proprio tutti – hanno disertato questo annuncio?”
“A dire il vero, no.”
“Lei non è di qui, vero?”
“Bingo. Sono di San Pietroburgo, in effetti. Prima di sei giorni fa, non avevo mai sentito nominare la Encorp. Di cosa vi occupate?”
L'uomo sorrise maliziosamente.
“Solo uno straniero può non conoscere la nostra ditta, signor Schneider. Non sa nemmeno che compiamo esperimenti per conto del governo?”
“Che genere di esperimenti?”
“Questa domanda non gioca a suo favore per quanto riguarda l'ultimo requisito... comunque, non posso risponderle. Non direttamente almeno. Ma le basterà chiedere di noi in giro. Lo faccia, la prego. Si renderà conto di quanto timore possa suscitare un nome.”
Stevan si incupì.
“No, a parte gli scherzi... voi operate solamente nel campo del legale o siete tra gli sciacalli che lavorano nella zona grigia del quasi-consentito, del non proprio illegale, del manca una legge a proposito? Vorrei avere una risposta sincera, se lei è autorizzato a darmela.”
“Diciamo che secondo la sua modesta opinione, apparteniamo a quella specie di canidi che si nutrono dei cadaveri degli animali morti...”
“Se le cose stanno così... non posso dirvi altro che arrivederci. Non ci tengo per niente a diventare uno dei vostri. Addio.”
“Aspetti, signor Schneider... mi permetta di fare qualche considerazione sul suo stato di salute.”
Stevan si fermò.
“Cosa vuol dire?”
“Mi sembra ovvio. Lei non mangia come si deve da almeno un mese. L'ho notato, sa? Inoltre deve avere un urgente bisogno di soldi, a quanto sembra...”
“Poniamo per assurdo che sia vero. Cosa cambierebbe?”
“Lei è davvero sicuro di voler rinunciare ad un impiego così ben remunerato per questioni etiche? L'etica si può comprare. Se hai abbastanza soldi, quello che fai è equo e solidale. Se non ne hai, sei un criminale. Oggi è questa la mentalità dominante. Ne è al corrente, vero? Inoltre, mi permetta di farle presente che la notifica di sfratto che il proprietario del suo monolocale le ha gentilmente inviato sarà effettiva da lunedì prossimo. Capisce cosa intendo? Non faccia il difficile... e non si comporti da finto moralista. Lei necessita del nostro denaro, Schneider. Non può farne a meno, se non vuole affondare.”
Stevan si voltò verso di lui.
“Un ottimo servizio di informazione, non c'è che dire... quanto ci avete messo a compilare questo dossier?”
“Non ci crederebbe, se glielo dicessi. Ad ogni modo... penso che le convenga riconsiderare la nostra offerta.”
“Suppongo di non avere molte alternative...”
“Oh, una ci sarebbe: vivere da barbone, sotto uno degli accoglienti ponti di St. Patrick, rubacchiando qua e là mentre le sue speranze di trovare lavoro si affievoliscono. Le sembra uno scenario accettabile?”
“Nessuno le ha mai detto che è una carogna, signor Jackson?”
L'uomo rimase senza parole. Stevan si sedette nuovamente al suo posto.
“Ad ogni modo, temo che lei abbia ragione. Non ho un soldo. E sto facendo la fame. Sono fuggito dal mio paese per colpa della guerra. Spero che lei sappia come vanno le cose nell'U.R.S.S. ultimamente.”
“Dovrei esserne al corrente, in effetti. Vuole riassumermi anche questo?”
“Non mi sembra proprio il caso. Ora... ipotizziamo che io accetti la vostra offerta di lavoro. Cosa dovrei fare?”
Jackson sorrise.
“Dovrebbe, diciamo... ecco, fare la guardia. Sì, direi che non si può trovare un modo migliore per dirlo.”
“A che cosa? E come?”
“Il come è semplice. Avrà un fucile mitragliatore semiautomatico e un manganello a disposizione, oltre ad una siringa corredata di diversi sieri tranquillanti. Mi sembra un equipaggiamento adeguato.”
“Non necessariamente. Tutto dipende dalla natura della merce. Cosa devo proteggere?”
L'uomo assunse un'espressione seria.
“Diciamo che mi ha frainteso... lei non dovrà proteggere nessuno. Dovrà impedire che le nostre creature fuggano.”
“Le vostre creature? Animali?”
“Non proprio.”
“Ok, Jackson, mettiamola così. O mi racconta nei dettagli cosa devo fare, o vado al più vicino posto di polizia a denunciarvi. Prima di firmare voglio sapere esattamente in cosa consiste il mio compito.”
Stevan si era alzato dalla sedia e si era avvicinato pericolosamente al limite dello spazio vitale del suo interlocutore.
“Con quale precisione stimata? Vuole anche un dépliant informativo?”
“Ne ho abbastanza del suo modo di fare, Jackson. Su una cosa aveva ragione: non posso permettermi di rifiutare questo posto. Questo però non significa che io debba essere all'oscuro di tutto. Cosa diavolo fate alla Encorp?”
L'uomo si sistemò gli occhiali con calma.
“Si calmi signor Schneider. Da un certo punto di vista, neanche noi possiamo permetterci di non assumerla. Lei è l'unico disponibile sulla piazza - sufficientemente disperato, ma con le carte in regola per svolgere questo compito. E noi abbiamo urgenza assoluta di arruolare personale. Ora che questo è assodato, diciamo che lei dovrà solamente fare in modo... che le nostre cavie non lascino la struttura. Tutto qui. Nulla di più, nulla di meno. Non voglio nasconderglielo – tanto so che firmerebbe comunque, conosco le persone, io – noi sperimentiamo sugli esseri umani. La nostra ricerca è fondamentale per il governo, lo sa? I finanziamenti arrivano addirittura dalla tesoreria della Casa Bianca. Tutti sanno che non è perfettamente legale, ma nessuno fa nulla per fermarci, Schneider... e lo sa perché? Perché c'è bisogno di noi. Qualcuno a questo mondo deve pur farlo.”
Stevan sprofondò nella sedia.
“Intendiamoci, Jackson. Io non sono per nulla d'accordo con le vostre scelte, con la vostra ideologia, con i vostri esperimenti... ma non posso rifiutare. Non ho il becco di un quattrino e penso di non avere molte altre possibilità. Quanto mi dareste?”
“Le di quanto ha bisogno?”
“Millecinquecento dollari netti al mese. Non voglio di più. Ma neanche di meno, ok? Non sono disposto a trattare.”
Era un bluff. Stevan ne avrebbe accettati anche la metà. Doveva essere abile a non darlo a vedere.
“Millecinquecento, dice? Se devo essere sincero, mi aspettavo chiedesse di più, data la sua situazione... comunque per noi va bene. Se anche questo aspetto è stato chiarito, cosa ne pensa di firmare il contratto?”
“Va bene. D'altronde, non ho molte alternative.”
Jackson aprì la sua cartellina di pelle ed estrasse alcuni moduli prestampati ed una penna.
“Prego, legga con calma gli estremi dell'accordo e le note scritte in piccolo.”
Il ragazzo le esaminò con cautela. Impiegò mezz'ora per visionare tutte le clausole e le annotazioni. Passarono altri cinque minuti.
“Ok, mi passi la penna.”
Stevan appose la sua firma nella sezione apposita. Jackson riprese i fogli e li ripose delicatamente nella cartellina, dopo aver validato la firma con un timbro speciale e aver controllato ogni singola istanza del nome.
“Posso vedere la sua carta di identità, signor Schneider? Solo per precauzione...”
“Certo, eccola.”
Stevan gli porse un documento stropicciato e malridotto. Jackson prese il suo netbook e lo accese. Una finestra quadricromatica lo salutò come al solito, tramite una barra di caricamento verde formata da tre segmenti. L'attesa durò meno di un minuto. Il minicomputer diede segni di vita e si animò, mostrando la finestra di login. Jackson digitò la sua password. Lo schermo cambiò colore e sfondo, mostrando una rilassante veduta delle Alpi innevate. L'uomo attivo il collegamento ad Internet e dopo i consueti trenta secondi di caricamento, lanciò il browser, assieme al programma di diagnostica e certificazione. Una schermata grigia con il logo della Encorp si mostrò trionfalmente davanti ai suoi occhi. In uno dei campi di testo inserì il codice del documento di Stevan e avviò lo scanner. Il programma incominciò a controllare gli archivi degli uffici anagrafe di tutto il mondo, in cerca di un matching completo con il numero inserito. La ricerca diede esito positivo. Jackson sorrise, poi chiuse lo schermo del netbook.
“Ok, signor Schneider, è ufficialmente dei nostri. Il computer ha isolato i suoi dati, ed è risultato in regola. Il posto è suo.”
L'uomo gli porse la mano. Stevan evitò accuratamente di stringerla.
“Mi sono legato a voi a vita, se ho letto bene le clausole. Non è così? Contratto a tempo indeterminato con impossibilità di recesso.”
Jackson rimase immobile, con la mano protesa verso il ragazzo.
“Certo, vogliamo tutelarci... ma prima di accettare ha avuto modo di leggere attentamente il modulo in ogni sua parte. Quindi non ha assolutamente nulla da recriminare.”
“No di certo...”
Stevan si diresse verso l'uscio.
“Quando inizio? Sui fogli informativi non era specificato.”
“Domani mattina si presenti ai laboratori Encorp di St. Patrick. Lì le forniranno un alloggio e le daranno le direttive necessarie per svolgere al meglio il suo compito. Se tanto mi dà tanto, la destineranno all'orfanotrofio.”
Il ragazzo si voltò di scatto.
“Avete un orfanotrofio all'interno della vostra struttura? Cosa diavolo vi serve?”
“Non le è dato saperlo, per ora, ma se è intelligente come credo, penso che lo abbia già capito da solo.”
Oddio, spero che non sia per quello che... ma no, sarebbe inumano! E io? Farei parte di questo gioco malato? No, che assurdità! eppure... ho firmato il contratto! Ma avevo altra scelta? No, direi di no... a questi punti, mi conviene fare come dicono, tanto più che mi sono legato le mani da solo...
“Ok, non fa niente, scusi la mia curiosità malata. Sarò puntualissimo. A che ora ha detto?”
“Non l'ho detto. Alle otto, possibilmente. Si faccia trovare pronto. A presto, Schneider.”
“Arrivederci.”
Spero a mai più, Jackson.
Stevan varcò la porta con decisione e si diresse verso l'uscita del palazzo. Jackson mantenne il contatto visivo più a lungo possibile.
“Stiamo affidando la sicurezza dei nostri laboratori ad un poppante. Non pensavo che saremmo caduti così in basso.”
Prese il telefono cellulare dalla cartella e digitò un numero sulla tastiera. Dopo tre interminabili secondi una voce lo accolse dall'altro capo del ricevitore.
“Pronto, Jackson? Che novità porti?”
L'uomo sorrise.
“Un pesce ha abboccato alla lenza.”
“Capisco. Che genere di pesce?”
“Direi una sardina, ma crescendo potrebbe diventare uno squalo.”
“Jackson, spero che sia adatto alle mansioni previste. Lo sa che...”
“Sì, sì, non mi ripeta la predica! Non volete un altro affaire Red...”
“Non lo chiami così. Comunque, diciamo che ha ragione. Non vogliamo un'altra testa calda nel nostro organico.”
“Io avevo già espresso dubbi a proposito, ma non ero stato preso sul serio.”
“Jackson, non si preoccupi e lasci tutto a me. Ne parleremo più avanti. Piuttosto... quanto ha dovuto raccontare dei nostri esperimenti per convincerlo a fidarsi?”
“Praticamente nulla. Era un disperato con l'acqua alla gola. Non avrebbe rifiutato il posto neanche se avesse voluto.”
“Ok, perfetto. Non poteva andare meglio. Chiuda tutto poi mi raggiunga in ufficio. Dobbiamo discutere del progetto Medusa.”
Jackson balzò in piedi.
“Volete dire... che l'avete approvato?!”
“Quasi. Ha avuto una buona idea, questa volta. Dobbiamo solamente mettere a punto i dettagli.”
“Vi raggiungo immediatamente! A dopo, signore!”
L'uomo riattaccò. Ormai era fatta. Se Virkill Thomson aveva approvato il suo piano, era sulla buona strada per diventare un dirigente a tutti gli effetti. Avere buone idee era l'unico modo per fare carriera nella Encorp. Non averne equivaleva ad un fallimento umano e professionale.
Rabbrividì. Non voleva prendere in considerazione la seconda possibilità. Neanche per scherzo. Neanche per sogno. Sarebbe stato peggio che morire... e lui aveva già avuto a che fare con esseri a cui era toccata una sorte peggiore del trapasso.
Fallire alla Encorp portava inevitabilmente a diventarne la cavia.
E questa era l'ultima cosa che si augurava.
5. Lo spettro
Le quattro di notte passate. O era più corretto dire di mattina? Il confine tra buio e luce non poteva essere meno marcato. Ezequiel controllò per l'ennesima volta la pistola. Aveva appena sostituito il caricatore. Non voleva avere brutti scherzi. Montò lentamente il silenziatore, poi la ripose nella fondina dopo aver fatto scattare la sicura. Era tutto pronto. La notte era silenziosa e muta. Non un rumore. Non un suono. I palazzi di vetro di St. Patrick sembravano osservarlo con sguardo truce e inquisitivo. La sua presenza non era gradita. Senza sbattere una volta le palpebre si guardò attorno. Non c'era più un cane in giro. La notte ghermiva la città con i suoi tetri artigli di tenebra, artigli che stavano per lasciare il posto ai timidi bagliori di luce dell'aurora. Diede ancora una rapida occhiata alla strada, poi si acquattò in un angolo buio. Doveva mimetizzarsi con l'ambiente, se voleva che il suo piano funzionasse. Era tutto calcolato nei minimi dettagli. Doveva solamente aspettare. Attendere. Con pazienza. Pazienza che, in fondo, non gli mancava. Da cinque anni a quella parte l'agitazione non era più un suo problema. La stessa parola nervosismo era scompara dal suo vocabolario, sostituita da un sinonimo di razionalismo puro. Ed era esattamente per quel motivo che il suo piano non poteva fallire. I suoi sensi si fecero più acuti per cogliere anche il più flebile dei segnali. Il silenzio fu finalmente rotto da un rumore cupo e lontano, continuo e persistente. Un rumore sordo e borbottante, il ruggito di una bestia morente. Un motore forse.
Bingo.
Sembrava provenire dal primo anello esterno del quartiere alto, a due minuti di viaggio dal punto in cui si trovava. Attese nell'ombra. Se avesse potuto avrebbe sorriso, ma il suo cervello non voleva saperne di elaborare questa informazione. Il rumore si fece più forte e nitido. Era sicuramente un automobile. Ma non un automobile qualunque. La linea affusolata rendeva il veicolo simile ad un piccolo velivolo, di color nero carbonio, ornato da fregi e linee bianche che attraversavano tutta la carrozzeria. I fari allo xenon ricordavano gli occhi di qualche belva mitica, uno sguardo allo stesso tempo bello e terribile, etereo e terrificante. Due eleganti lampeggianti ovoidali decoravano il tettuccio di quel proiettile scintillante. Era una Corvette della polizia. Appena uscita di fabbrica, a quanto pareva. Non poteva avere più di due mesi.
Il veicolo accostò, proprio davanti al palazzo. Due sottili linee verticali fecero la loro comparsa sulla fiancata, divenendo sempre più marcate, fino a provocare il distacco, lento e aggraziato, di parte della scocca, che si ritirò all'interno della carrozzeria. L'agente scese dall'auto e si diresse svogliatamente verso il citofono.
Il turno di notte è una vera seccatura. Dormi tranquillo fino alle due – tre di mattina, poi succede qualche casino e sei costretto ad intervenire. Che palle! Giuro che se è un falso allarme come l'altra volta, stavolta mi sentono. Stavolta mi sentono davvero. Li arresto per procurato allarme, li sbatto in galera. Sì, faccio così. Perché se non è vero che c'è stato un omicidio, io che diavolo ci sto a fare qui non lo so. Poi chi diavolo sia questo tale, Vergil Meinoss, io non ne ho idea. Che palle! Non ci potevano mandare Kovalski? Ora dovrò cercare pure il nome sul citofono. Troppa fatica... ma sto deficiente che ha chiamato la centrale non poteva farsi trovare qui, porca puttana? Mi avrebbe fatto risparmiare tempo. Se sapessi chi è, lo prenderei a manganellate sullo sterno, così impara a rompere i coglioni alle quattro di notte.
L'uomo posò lo sguardo sonnolento sui cognomi, riportati in ordine di piano. Si accucciò fino quasi a sedersi per poter osservare meglio quelli più in basso, in cerca del fantomatico Meinoss. A quanto pareva, un parente di quel tale Vergil l'aveva trovato morto sul letto, ucciso da un colpo di pistola, dopo essere tornato da una serata di bagordi con gli amici. Il suddetto parente aveva detto di essere lì accanto al cadavere in quel momento, di citofonare all'arrivo che avrebbe aperto al poliziotto. L'agente sbadigliò nuovamente e chiuse gli occhi. Poi la sua testa colpì il terreno. E fece un bel rumore. Un tonfo secco. Quasi quanto quello prodotto dal calcio della pistola che lo aveva colpito. Ezequiel osservò il corpo immobile. Una contusione alla nuca, con conseguente leggera commozione cerebrale. Nulla di irrisolvibile, un paio di giorni e sarebbe tornato a posto, tutto lì. Però era necessario. Non doveva citofonare a Virkill. Ci avrebbe pensato lui.
Uno squillo improvviso e inatteso trafisse i padiglioni auricolari dei dormienti. L'uomo imprecò in almeno due lingue, prima di alzarsi dal letto. A cinquant'anni, svegliarsi a quell'ora poteva essere fatale per il proprio riposo. Riaddormentarsi sarebbe stato un evento traumatico. Lo squillo si ripeté con la stessa forza, obbligandolo a raggiungere la porta il prima possibile. Biascicando parole incomprensibili alzò la cornetta del citofono.
Se sono ancora quei rognosi giovani idioti che fanno scherzi stupidi, io li denuncio.
“...chi è? ...osa vuo... ...uest'ora?”
Una voce piatta e priva di espressione lo accolse dall'altro capo del ricevitore.
“Lei è Vergil Meinoss? Sono l'agente Warren, della polizia di St. Patrick. Abbiamo ricevuto una segnalazione riguardante un presunto giro di prostituzione a casa sua.”
L'uomo deglutì rumorosamente.
“...è uno scherzo, vero? Può provarmi che lei è della polizia?”
“Si affacci dalla finestra. Vedrà i lampeggianti della macchina.”
Vergil non se lo fece ripetere due volte e si diresse verso la veranda. Due luci intermittenti di colore blu e rosso lo salutavano dalla strada antistante il palazzo. Non c'erano dubbi. Erano sbirri. Ma come avevano potuto anche solo pensare che lui fosse coinvolto in un affare del genere?
Tutte puttanate. Qualcuno si è divertito a rompermi le scatole.
Non c'era modo migliore di dimostrare la propria innocenza se non di aprire a quel maledetto piedipiatti.
“Salga pure. Non ho nulla da nascondere.”
“Questo è quello che verificheremo.”
Vergil attese spasmodicamente davanti al portone blindato. Non vedeva l'ora di liberarsi di quella seccatura. Lo sbirro bussò alla porta, facendosi precedere dalla sua voce piatta e monotona.
“Signore Meinoss? Sono Warren. Mi faccia entrare.”
L'uomo aprì molto velocemente la serratura. Si fermò solamente un attimo prima di estrarre l'ultimo cilindro.
Quella voce. Io l'ho già sentita. Ma dove?
La sua mano si era bloccata all'improvviso. Un brivido freddo lungo la schiena. Battito cardiaco accelerato. Poi il nulla. Zero. Era tornato padrone di sé.
Solo paranoie. Ci sono migliaia di voci simili tra loro.
La serratura cedette al volere di Vergil, che soffiò via l'ultimo, effimero sigillo premendo la maniglia della porta.
Accadde tutto in un istante.
Vergil non ebbe nemmeno il tempo di sorprendersi.
Davanti a lui si stagliava una figura maestosa, un uomo imponente, quasi titanico. Era vestito di nero, con un grande cappello a tesa larga dello stesso colore. Il copricapo era strappato in più punti e ricordava molto quello di un cowboy dei vecchi film in bianco e nero. Ma la cosa più inquietante era lo sguardo. Occhi fissi, privi di emozioni. Privi di pietà.
“Ci ho messo più tempo del previsto, Virkill, ma come vedi sono arrivato.”
“Io non conosco nessun Virkill! Chi diavolo sei? Cosa vuoi da me?”
L'uomo si rigirò uno stuzzicadenti tra i molari, senza curarsi della sua domanda.
“Virkill Thomson. Direttore del settore innovazione e sviluppo della Encorp. Scomparso dalla circolazione cinque anni fa, senza lasciare tracce. Anzi, mi correggo...”
Una delle sue mani scivolò nella tasca della giacca ed estrasse le fotocopie di un paio di ricevute. Le osservò per un attimo, senza cambiare espressione, poi le lanciò al suo interlocutore, riverso a terra.
“...lasciandone poche.”
Vergil raccolse i foglietti.
“Quelle poche che mi hanno permesso di trovarti. Non pensavo che fossi così depravato, Virkill.”
Gli occhi verdi dell'uomo si riempirono di terrore. Aveva avuto una piccola debolezza. Una sola. Ed era bastata a quello sconosciuto a ricostruire il suo percorso, la sua fuga per la salvezza. Una fuga terminata. Il suo passato era tornato a perseguitarlo. Si rialzò, come per mostrare sicurezza e forza, una forza che lo stava abbandonando.
“Lavori per loro, vero? Ti hanno chiesto loro di trovarmi?”
L'uomo rispose con tranquillità, senza modificare il proprio tono di voce.
“Non ti ricordi di me, non è così?”
Vergil – o Virkill, ormai tanto non faceva differenza – lo squadrò meglio. Viso affilato, capelli castani di media lunghezza. Barba mal rasata, occhi fissi, grigi. Non aveva ancora sbattuto una volta le palpebre. Uno stuzzicadenti fisso in bocca. Nessun particolare utile a riconoscerlo.
“Ti vedo smarrito. Forse questo ti aiuterà.”
Si tolse il cappello, con gesti ampi e lenti.
Solo in quel momento Virkill si rese conto di trovarsi di fronte ad uno spettro. Crollò sul pavimento, in ginocchio.
“Tu! Non è possibile!”
Allibito, si stropicciò gli occhi. Non voleva credere ai suoi sensi.
“Tu sei morto! Sei... sei morto! Non puoi essere qui!”
L'uomo si risistemò il copricapo in silenzio. E portò l'altra mano alla fondina.
“Ezequiel, giusto? È così che ti facevi chiamare. Con quello strano nome. Ma sei morto! Non puoi essere qui!”
Arretrò urlando di terrore. La canna cromata di una calibro 32 si posizionò esattamente tra i suoi occhi.
“Sorridi, Virkill.”
Beatrice si era svegliata di soprassalto. Il rumore dei cilindri del portone blindato avevano messo ogni suo senso in allerta. Si era alzata dal letto, in camicia da notte, e si era avvicinata alla porta della sua camera. Era strano che Vergil la cercasse a quell'ora. Solitamente, non aveva bisogno di lei fino alle otto del mattino. Quindi i casi erano due: o era successo qualcosa di veramente grave, o aveva semplicemente cambiato i suoi piani. La ragazza desiderava con tutto il cuore che nessuna delle due ipotesi fosse corretta. Si accarezzò i capelli lisci, sfumati di grigio, poi, con il cuore in gola, decise di premere la maniglia. Si fermò. Doveva prendere ancora qualcosa. Si voltò verso il suo comodino e raccolse la piuma di cigno che aveva comprato da poco, per abbellire il suo cerchietto per capelli. Doveva essere una sorpresa per Vergil, ma non gliel'aveva ancora mostrata. L'aveva nascosta bene nei propri abiti, in modo che non la vedesse al suo rientro. Sorrise. Sì, quella sera era stata particolarmente in gamba a non fargliela trovare. E non era stato facile. Proprio per nulla. La accarezzò con delicatezza e se la sistemò tra i capelli. Non c'era un motivo particolare per farlo. Aveva deciso così. In fondo, non era scritto da nessuna parte che dovesse limitarsi ad agire in modo razionale. Appoggiò l'orecchio destro al pannello di legno e cercò di captare ogni rumore. Con sua enorme sorpresa, riuscì a decifrare alcune frasi. Vergil stava parlando con qualcuno. Un altro uomo. Aveva una voce priva di intonazione, una litania monotona, distaccata e fredda, quasi gelida. Una lama di ghiaccio nella schiena. Cercò di capire qualcosa. Effettivamente, fu in grado di ricostruire alcune parole.
“...uoi essere qui!”
poi un urlo. Vergil stava urlando. Di paura. Lo aveva già sentito gridare, ma mai così. Mai per uno spavento. Era terrificato. Beatrice si fece coraggio. Poteva avere bisogno di aiuto. E lei doveva rispondere.
“Sorridi, Virkill.”
“Non ho motivo di farlo, considerato che stai per spararmi.”
“Spararti?”
La canna della pistola si allontanò dal suo volto.
“Non sarebbe logico.”
Vergil lo osservò titubante. L'uomo ripose l'arma nella fondina, poi portò la mano alla tasca destra, estraendone un paio di fogli pinzati.
“Cosa sono quei documenti?”
Ezequiel glieli porse.
“Leggili attentamente, Virkill. Puoi anche tenerli, se vuoi. Io ne ho una copia al sicuro. Pronta ad essere inviata a tutti i giornali. Anche ai rotocalchi scandalistici. Un bell'invia a tutti. Se entro ventiquattr'ore non sarò tornato, la mail sarà inoltrata automaticamente.”
Vergil afferrò il plico e lo sfogliò con malcelato nervosismo.
Sbiancò improvvisamente. Lesse con attenzione ogni riga, ogni parola. Pesò ogni lettera. Rilesse tre volte la prima facciata.
“Questo cosa significa? Dove hai trovato tutto questo materiale?”
“Cinque anni sono un lasso sufficiente di tempo.”
Vergil si alzò a fatica da terra. Tutti gli oggetti della stanza gli stavano vorticando attorno. La sua mente era persa in pensieri tremendi, allucinanti o privi di significato.
“Tu vuoi la mia rovina. Se anche una sola di queste righe venisse pubblicata...”
“Tu saresti morto. La Encorp verrebbe subito a cercarti. Magari manderebbero Red, chi lo sa? È un po' che non lo vedo. L'ultima volta che ci siamo visti, mi ha scaricato addosso un fucile semiautomatico.”
“Allora dimmi. Cosa vuoi da me? Vuoi ricattarmi, forse? Vuoi dei soldi? Guarda che ne ho, non ne sono sprovvisto. Ho dei bei conti pieni e...”
“Nulla di tutto questo.”
Ezequiel gli porse una pistola.
“Volevo solo farti sapere che sei finito.”
Vergil la raccolse senza capire il motivo di quel gesto.
“Cosa vuoi dire?”
“Prima ho mentito.”
Si sistemò il colletto della giacca, con noncuranza.
“La mail è partita cinquantadue minuti fa. Fai attenzione ai giornali di domani, Vergil. Sicuramente, quelli più scalcinati riporteranno parte del dossier senza nemmeno controllarne la veridicità.”
Cadde a terra urlando.
“Non puoi avermi fatto questo! Io non c'entro nulla con chi ti ha assalito, quella notte! Mi hai rovinato, maledetto bastardo! Stronzo!”
“Ora capisci perché ti ho lasciato quell'arma?”
Un'arma.
Una pistola. Vergil aveva una pistola. Gliel'aveva data il suo interlocutore. Gliel'aveva lasciata in mano. Un clic e sarebbe finita. L'uomo davanti a lui sarebbe morto. Caduto a terra, impotente. Senza possibilità di sopravvivere. Premere il grilletto. E via. Sarebbe morto. E con lui le sue minacce, e... No! Le sue minacce sarebbero divenute realtà! E farlo fuori avrebbe solo aggravato la sua posizione. Allora per lui sarebbe stata la vera fine. Ergastolo. Ed Ezequiel? Un paladino della libertà. Un martire. Santificato.
Cosa fare, allora? Cosa? COSA?
Improvvisamente, la canna della pistola divenne alquanto invitante. L'uomo la puntò dritta alla tempia.
“Cosa stai facendo?”
Vergil rispose sprezzante.
“Sorrido, Ezequiel.”
6. Pausa caffè
Non c'era molto altro da fare, se non attendere. Forse sarebbe potuto andare a dormire, ma alle quattro di mattina, chi poteva averne voglia? Red osservò senza convinzione il contenuto del bicchierino di plastica, quell'acqua sporca che si ostinavano a chiamare caffè. Scosse la testa. La compagnia più potente della Terra non si era mai dotata di macchinette efficienti. Il cappuccino non sembrava nemmeno averlo visto il latte, la cioccolata sapeva di tutto fuorché di cioccolata, e il caffè, la sostanza nerastra che si presentava circondata da un involucro di materiale difficilmente riciclabile faceva schifo. Davvero schifo. Però teneva svegli. Quanto bastava. Girò un paio di volte il cucchiaino per mescolare bene il surrogato di zucchero che gli era stato propinato assieme alla bevanda. Una voce assurdamente rauca lo apostrofò.
“Anche tu qui, Red?”
Era Pëtr. L'unico in grado di apprezzare quella brodaglia scura. E di berne più di uno al giorno. Forse era al terzo. Si diresse con decisione verso la macchinetta, inserì la chiavetta e premette uno dei tasti. Red lo osservò disgustato.
“Come fai a bere questa merda, Pëtr? È orribile.”
“Sei forse stato in Russia in ultimi dieci anni, Red?”
L'uomo dai capelli rossi avvicinò il bicchierino alle labbra, chiudendo gli occhi, cercando di escludere le papille gustative, di spegnerle, perlomeno.
“Non che io ricordi.”
“Là non c'è neppure questo surrogato. Crisi nera. Stiamo perdendo.”
Red deglutì a fatica. L'acqua sporca aveva attraversato il suo cavo orale senza troppa convinzione ed ora era in viaggio verso lo stomaco.
“Ci casco sempre. Sempre, eh? Ogni volta che premo quel tasto, spero che esca fuori qualcosa di bevibile. È una speranza vana, dannazione!”
“Io lo trovo ottimo.”
“Tu sei uno stramaledetto sovietico, Pëtr! Grazie al governo di Kobačëv, voi russi avete tutti le pezze al culo. Perché avete dovuto iniziare questa cazzo di guerra lo sapete solo voi. Per me, la Guerra Fredda poteva durare ancora una decina di anni. Non era necessario invadere Berlino Ovest, in questo modo avete legittimato gli stelle-e-strisce ad attaccarvi. Loro non aspettavano altro.”
“U.R.S.S. è una grande nazione. Vittoria finale sarà nostra, credo.”
“La tua è pura illusione. Ma stai tranquillo, chiunque vinca, vinciamo anche noi.”
“Magra consolazione.”
Pëtr mescolò con cura il suo caffè. La sua voce da megafono era particolarmente irritante, ma forse era più sopportabile di Roger. Forse.
“La Encorp fornisce armi ad entrambi gli schieramenti. Diciamo che siamo a cavallo.”
“Più o meno. C'è stato un piccolo problema.”
Red rise di gusto.
“Dimmi, quando mai non ce ne sono stati? No, sul serio. Abbiamo mai portato a termine un'operazione senza problemi? Io non ricordo.”
“Sai cos'è progetto Medusa, Red?”
“E lo chiedi a me? L'ho portata io Medusa qui.”
Pëtr scosse la testa.
“Tu pensi di sapere. C'è altro.”
Era particolarmente seccante il modo di fare del russo. Lasciava tutto in sospeso, finché ne aveva voglia. E certe volte l'attesa durava anche un paio di minuti. Bevve il suo caffè a piccoli sorsi, poi allontanò nuovamente la tazzina dalle labbra, per farlo durare più a lungo. Emise un lungo sospiro.
“Non una Medusa. Due. Una Jackson, una LeJarme. Una per USA, una per U.R.S.S.. Due esemplari diversi. Uno mai arrivato a destinazione.”
Red lo interruppe.
“Esiste un'altra puttanella dagli occhi d'oro? Non ne sapevo un accidenti di niente. E chi doveva portarla?”
“Non una. Uno. E doveva portarlo Trevor. Ma Trevor morto nell'incidente oggi. E così esemplare. Una sola Medusa rimasta. Una per due concorrenti. Forse Encorp farà asta. Forse no. Chi lo sa? Di fatto, noi abbiamo solo una fava per due piccioni.”
“Interessante. Immagino che i governi pagherebbero un sacco di soldi per un'arma del genere.”
“In effetti, anche Canberra è interessata.”
“L'asse neutrale?”
“Proprio loro.”
Sogghignò.
“Come si fa a rimanere neutrali in una guerra del genere? La neutralità significa non schierarsi, permettere ad entrambi gli eserciti di attraversare il tuo territorio senza prendere provvedimenti. Da chi è formato l'asse dei codardi?”
“Australia, Sudafrica, Giappone, India, Svizzera.”
“Stai a vedere che alla fine la guerra la vincono loro, senza peraltro combatterla. Dopo il conflitto, il blocco occidentale e quello orientale si ritroveranno nella miseria più nera. Loro avranno i soldi, e sai come andrà a finire, no? Per curiosità, l'Italia da che parte si è schierata questa volta?”
“Non si è ancora schierata. Ma lo farà. Per parte che promette di più. Italiani fatti così, vedi due guerre mondiali. Prima da una parte, poi dall'altra. Sempre. Domanda non è con chi si schiererà l'Italia. È con chi finirà la guerra.”
“Già, già.”
Red accartocciò il bicchierino nella propria mano, poi tentò di far canestro nel più vicino cestino della spazzatura, invano. Il russo sogghignò.
“Pessima mira, Red.”
“Fatti gli affaracci tuoi.”
L'uomo dai capelli rossi si adagiò al muro, chiudendo gli occhi. Doveva pensare. Perché quella non era un'occasione che capitava ogni giorno. Una sola Medusa per due contendenti. Una sola arma letale. Una. E due gruppi di nazioni ansiosi di vincere una guerra che stava mettendo in ginocchio l'economia globale.
Quanto sarebbe disposta a spendere l'Unione Sovietica per avere quella stronzetta? E gli Stati Uniti d'America? Una cifra onesta potrebbe aggirarsi attorno al milione di dollari. No, perché uno solo? Cosa diavolo me ne farei, soprattutto? Per cambiare nome, faccia, città e vita dovrei avere di più... dieci volte tanto? Ma sarebbe abbastanza? Sarei braccato come un cane da quegli stronzi ingrati dei miei colleghi per tutta la vita. Forse farei la fine di Virkill. O forse sarei più fortunato. Chi lo sa?
“Red? Tutto a posto?”
Riaprì gli occhi.
“Sì, Pëtr. Magnificamente. Ora scusami, ma devo andare. Devo sbrigare un affare. E devo fare in fretta, altrimenti sai come finisce, no?”
“Capito. Alla prossima pausa, Red.”
Red salutò con un cenno, poi si diresse verso l'ascensore. Doveva raggiungere il piano meno quattro, prima che qualcuno lo intercettasse. Primo fra tutti, Roger. Roger non l'avrebbe appoggiato, no. Lui era ligio al regolamento, teneva molto a quei suoi sporchi, fottutissimi milleseicentoventidue dollari mensili, al netto delle tasse. E non aveva intenzione di rischiare il suo stipendio per un'utopia. Un'utopia malata. Azzannare il braccio che ti nutre. Tradire la fiducia di chi ti ha assunto. Tradire la Encorp.
Perché no?
Era una sfida e, come tutte le sfide, era eccitante.
Red raggiunse il vano dell'ascensore e premette il pulsante di chiamata. Attese pazientemente che il mostro di acciaio risalisse il condotto per accoglierlo e portarlo con sé nelle viscere dell'Inferno. Perché era così che chiamavano la parte più intima e nascosta della struttura. Inferno o Underground. Entrambe i nomi evocavano qualcosa di nascosto e pericoloso, un luogo letale per chi vi si avventurava senza conoscerlo. Un fastidioso tintinnio annunciò l'arrivo della cabina. Le porte scorrevoli si aprirono con un sinistro cigolio. Red prese posto al suo interno. Le sue dita scorsero tutti i pulsanti numerati, per poi fermarsi su quello che recava inciso un meno uno. Non poteva agire così, senza un piano, senza un'idea di come portare a termine il suo progetto per non essere scoperto. Un lampo a ciel sereno.
Un'idea. Un'idea folle, ma che forse lo avrebbe aiutato a raggiungere il suo scopo. Senza esitazione, premette il pulsante. Le porte del traslatore si chiusero alle sue spalle. I motori muggirono, costringendo la cabina a muoversi lungo i binari. Non sarebbe stato semplice. Per nulla. Ma a chi piacciono le cose semplici?
Red sorrise.
Il primo atto era iniziato.
Jackson era nervoso. Molto nervoso. I test andavano a rilento. Le scatole di latta coi cingoli ci stavano mettendo veramente troppo tempo ad analizzare la sua creatura. Era l'unica rimasta sulla piazza, e questo portava il suo valore alle stelle. La Encorp avrebbe guadagnato una marea di quattrini per quell'esemplare. E lo avrebbe ricompensato come meritava. Vincent Jackson. L'uomo dalle idee d'oro. Il progetto Medusa lo avrebbe consacrato, sarebbe asceso all'empireo dei creativi. E non avrebbe dovuto condividere il successo con quel borioso di...
“Vincent. Da quanto tempo non ci si vede?”
Si voltò. Conosceva quella voce. E quell'accento. Un accento francese, molto marcato. Gli dava quasi fastidio. Quasi più della persona stessa. Antoine François Marie LeJarme. Direttore della sezione ricerca e sviluppo. Un pezzo grosso alla Encorp. Ma presto sarebbe stato storia antica.
“Non mi sembra di averti salutato, LeJarme.”
Il francese si avvicinò. Era mediamente alto, con capelli lisci mediamente lunghi di un colore intermedio tra il grigio ed il nero. Portava occhiali da vista con una montatura abbastanza sottile, ma non troppo. Era il classico uomo comune. Non aveva tratti distintivi, poteva benissimo passare inosservato in una folla di gente.
“Sei scontroso, Vincent. Proprio oggi che avevo intenzione di trovare un accordo con te.”
“Un accordo in merito a cosa?”
LeJarme si sistemò gli occhiali.
“In merito a Medusa.”
“Ah.”
“Non sembra che la cosa ti sorprenda più di tanto.”
“No, infatti. Era l'ultima carta che potevi giocare.”
Il francese sogghignò.
“Ad essere precisi, la penultima, ma di questo parleremo dopo.”
“Cosa vuoi da me? Io non ti devo nulla.”
“No, infatti. Ma potresti aiutare un collega in difficoltà.”
Jackson rise di gusto.
“Difficoltà è un termine generico e riduttivo. Sei venuto qui ad elemosinare la mia protezione perché sei finito. Lo sai, vero? Certo che hai avuto sfortuna, Tony. Perdere l'esemplare dopo cinque anni di lavoro. E tutto per un autista ubriaco...”
Gli occhi di LeJarme si strinsero fino a diventare fessure.
“Ti diverti a rivoltare il dito nella piaga, Vincent? Dimmi quando posso parlare io.”
Jackson si esibì in un ampio cenno con la mano, per buggerare ulteriormente il suo rivale.
“Avanti, parla. Dimmi! Per quale ragione sei venuto qui a rompermi le scatole?”
“Ho una proposta che non penso tu possa rifiutare.”
Il tono di voce si era fatto gelido e pungente. Jackson lo osservò attentamente. LeJarme aveva qualche asso nella manica, doveva averne uno per comportarsi così. Oppure stava bluffando. In modo marcato, anche. Si stava giocando un all-in, evidentemente. La seconda ipotesi era più probabile. Il francese non poteva aver scoperto nulla per fare pressione su di lui. Jackson trattenne a stento le risate.
“Quale sarebbe la tua cosiddetta offerta, Antoine?”
“Tu condividi con me gli onori del progetto Medusa ed io, in cambio, non autorizzo la diffusione di questo rapporto.”
LeJarme estrasse un plico di fogli stampati di fresco.
“Mi sono arrivati un'ora fa. Mittente anonimo. Dacci un'occhiata, se ti va.”
Jackson assunse un'espressione stupita.
“Dovrebbero interessarmi?”
“Perché no? In fondo c'è il tuo nome sopra.”
Un brivido freddo risalì lungo la sua spina dorsale.
“Proprio un bel lavoro. Oltre duecento pagine di dossier inviato a tutti i principali quotidiani nazionali, più un paio di rotocalchi. Per fortuna – per tua fortuna – io sono il garante delle comunicazioni per conto della Casa Bianca e posso bloccarne la pubblicazione, sempre che tu – sia chiaro – ricambi il favore.”
“Dai qua!”
Jackson gli strappò i fogli di mano. Una marea di annotazioni, tabulati, fotocopie di ricevute, decine di documenti ufficiali con il logo della Encorp, firmati con la grafia inconfondibile di Virkill Thomson, tutti relativi a...
“No! Non è possibile! Chi diavolo... come cazzo...”
“Gente molto abile. Esperta di informatica, direi. Oppure una talpa. Sta di fatto che devi decidere, Vincent.”
LeJarme aprì le braccia, a mo' di bilancia.
“Da un lato, la rovina. Dall'altro, una giusta divisione dei meriti.”
“No.”
“Non hai scelta, Vince. Se queste carte diventano di dominio pubblico, tu sei un uomo morto. Sai com'è, la Encorp dirà che hai agito di tua spontanea volontà e ti scaricherà. Dovrai rispondere di sequestro di...”
“NO!”
Jackson alzò la voce, come per farsi coraggio. Si asciugò il sudore dalla fronte, a fatica. La mano gli tremava.
“No! No! NO! Io non voglio fare da capro espiatorio per Virkill! È solo colpa sua! Lui ora sarà al sicuro da qualche parte lontano da qui! Io non c'entro niente! Niente!”
LeJarme sorrise a denti stretti.
“Ah, a proposito di Virkill... questo dossier è su di lui. C'è giusto qualche accenno alla tua figura, ma per il novanta percento queste pagine riguardano i suoi spostamenti... e le sue depravazioni. Spiegano esattamente dove si trova in questo momento. Non ci crederai. È a un tiro di sputo da qui, nel quartiere bene di St. Patrick. Si fa chiamare Vergil Meinoss ora. Ho già mandato due dei nostri a prenderlo.”
“Chi?”
“Roger Wades, il tuo autista personale, e il rosso, quello che parla per turpiloquio e che fa coppia con lui.”
“Jerediah Horovitz.”
“Sì, penso che si chiami così. È viscido come una serpe, però è letale. Non lo avrei assunto, io.”
“Io neppure, ma la decisione non spettava a me.”
“Già, già...”
LeJarme schioccò le dita.
“Ad ogni modo, cosa ne dici del nostro accordo? Affare fatto?”
Riluttante, Jackson allungò la mano.
“Affare fatto.”
LeJarme sorrise e suggellò il patto tra gentiluomini.
“Parfait! Ora, cosa ne dici di portarmi da lei? Voglio sincerarmi del suo stato di salute.”
Jackson annuì meccanicamente.
“Seguimi.”
I due uomini in giacca e cravatta imboccarono un lungo corridoio, disseminato di telecamere nascoste. Automi di controllo qua e là garantivano il regolare funzionamento del condotto. Il percorso terminava con un ascensore, l'unico modo per raggiungere i piani interrati. Una sorta di discesa all'Inferno. LeJarme osservò l'indicatore, deluso.
“Qualcuno lo sta già usando. Dovremo attendere un po'. Sembra che sia diretto al piano meno quattro. Quando si ferma, premo il pulsante.”
Jackson sembrò sorpreso da quell'affermazione.
“Cosa significa? A quest'ora nessuno dovrebbe essere autorizzato a raggiungere l'Underground. L'accesso al piano meno quattro è consentito solo ai dirigenti autorizzati!”
LeJarme sgranò gli occhi.
“Il vecchio non c'è, Ivory è in vacanza, Rinaldi torna domani... questo vuol dire...”
“Che solo noi abbiamo la tessera per raggiungere quel maledetto piano! Noi e la guardia notturna!”
L'uomo guardò il suo orologio.
“Dovrebbe trovarsi al piano meno uno a quest'ora.”
“Sandler è un tipo preciso. Non ha senso.”
“Merda! Vuol dire che c'è un intruso!”
“Io chiamo la sicurezza.”
“Aspetta! Raggiungiamo Medusa prima! Non vorrei che...”
L'ascensore annunciò il suo arrivo con uno squillo. I due si voltarono di scatto. La porta scorrevole incominciò a ritirarsi, rivelando l'occupante della cabina.
Jackson urlò a squarciagola.
7. La bambola
Un mare di stelle, di diverse dimensioni e magnitudine affollavano la sua vista. Pianeti nel vuoto infinito dello spazio, tra luccichii e improvvisi bagliori corruschi. Lentamente, i contorni della stanza riaffiorarono dal nulla, poco per volta. I muri... concavi? Convessi? Si stavano lentamente raddrizzando. Così come la porta. Aperta. Ma non l'avevo appoggiata?
Nessuno in giro. Una figura scura, imponente. Dai contorni sfumati.
Vergil? Dove sei?
Doveva capire dove si trovava, prima di tutto. Mosse una mano, lentamente ed incontrò la soffice carezza del cotone. Era sdraiata sul suo letto. Poco ma sicuro. Forse. Non ne aveva realmente la certezza. Le piaceva pensarlo.
Vergil?
Nessuna risposta. Ma lo stava veramente chiamando? O era solo uno scherzo dei suoi sensi assopiti? Forse entrambe le cose. Forse.
Forse se avesse ricollegato gli ultimi ricordi... già, cosa ricordava? Ah, sì, l'estraneo. L'uomo nero, Ezechiele, o come diavolo si chiamava. Era entrato in casa e aveva parlato con Vergil. Sì, quello era certo. Poi? Ah, sì. Aveva aperto la porta perché lo aveva sentito urlare. E poi? Ah, certo. Vergil aveva letto qualche foglio e aveva discusso a proposito di una mail. E dopo? Ah, okay.
Vergil si era sparato.
E lei era svenuta. Certo. Doveva essere andata così. Vergil era morto. E nel vederlo morire aveva avuto un mancamento.
Però l'altro non doveva essere cattivo.
Non l'aveva ucciso lui, Vergil. Si era suicidato. Quindi non ne era responsabile. O sì? Era lui la figura nera accanto al suo letto? Forse. Ma non aveva importanza che lo fosse o no. Lei aveva deciso così. E così sarebbe stato. Anche se in realtà, magari, era solo un appendiabiti. Però per lei era quell'Ezechiele o Ezequiel. E se non lo fosse stato, amen.
Chi se ne importa?
Magari l'avrebbe portata via con sé. Magari. Perché da sola non aveva così tante speranze di sopravvivere. Non a lungo, almeno.
Ezequiel la osservò attentamente. Vergil non aveva parenti in vita. Quella non era sua sorella. Eppure gli somigliava. Gli stessi occhi. Identici. Senza ombra di dubbio.
C'era una sola spiegazione logica. Era lei. Cosa avrebbe dovuto farne? Non certamente ucciderla. Non aveva senso sporcarsi le mani, ora che la prima parte del piano aveva avuto successo. Portarla con sé poteva essere un rischio. Lasciarla libera di parlare, un rischio ancora maggiore. Nessun problema. La sua mente aveva già selezionato l'alternativa più conveniente. Doveva solo metterla in pratica. E stabilire un contatto sarebbe stato prioritario. La ragazza si mosse, dapprima lentamente, poi sempre di più. Stava riacquistando conoscenza. Ezequiel si schiarì la voce. Doveva mettere subito le cose in chiaro.
“Ben svegliata. Prendi le tue cose e mettile in una valigia. Che tu lo voglia o no, vieni via con me.”
La giovane si sedette sul letto, poi si stropicciò un po'. Si voltò tranquillamente verso di lui e annuì.
“Come desideri.”
Ezequiel si sistemò lo stuzzicadenti.
“Dovrei essere sorpreso dalla tua reazione, ma proprio non ne vedo il motivo. È grazie a te se sono arrivato a lui. So tutto di te, Beatrice. L'unico dato che mi mancava era il tuo aspetto. Non avevo una tua foto. Solo il tuo numero di serie. E la fotocopia della garanzia. A nome Virkill Thomson. Una bambola. Un lusso abbastanza costoso.”
La osservò meglio. Alla base del collo, una piccola serie di numeri e lettere nere, marchiate o incise.
“Non giudico. Non so giudicare. Però è oggettivamente da depravati. Il senso comune direbbe così. La morale.”
La fissò a lungo, con quel suo sguardo freddo ed inespressivo.
“Sia chiaro. Io non ho una morale. Solo logica. Ferrea. Tutto ciò che mi è rimasto.”
“Posso fare qualcosa per te?”
“Elencami le tue caratteristiche.”
“Come vuoi. Mi chiamo Beatrice. Beatrice Meinoss, per essere precisi. Ho diciassette anni apparenti, cinque reali. Sono stata cresciuta nel centro di incubazione di Sovereign Park, nel distretto nove di St. Patrick. Il mio aspetto è stato deciso da Vergil, così come il mio nome ed il mio livello di autonomia decisionale. Sono alta un metro e sessantotto, peso cinquantuno chili. Basta così, o vuoi sapere altro?”
“Tu sei una moda del momento, Beatrice. Bambole. Creature in carne ed ossa che non invecchiano, che vivono giusto una ventina d'anni. Prodotte con l'aspetto deciso da un vecchio riccone bavoso e depravato. Questo è ciò che pensa la gente. Io non mi esprimo. I fatti sono altri. Ti usava solamente per fare sesso quando voleva, senza vincoli, senza resistenze. Carne sempre giovane. Carne viva. Non una macchina, che si può riparare. Carne che alla fine muore. E si sostituisce. Una volta che uno dei committenti ne ha acquistata una, non riesce più a farne a meno. Non avete mestruazioni, siete sterili, prive di ghiandole sudoripare e di peli, fate qualunque cosa vi venga chiesto, non avete mai mal di testa, ne avete sempre voglia. Puoi confermare, non è così?”
Beatrice annuì. Ezequiel si aprì una lattina di aranciata.
“Non ho nulla da spiegarti. Sappi solo che devi venire via con me. Mettiti qualcosa addosso, qualcosa che non sia una camicia da notte, e raggiungimi di là. Ho bloccato la finestra in modo che tu non possa né uscire né provare a suicidarti. Ti do cinque minuti.”
“Non vuoi rimanere qui mentre mi cambio? Vergil me lo chiedeva sempre.”
“Non ho questa urgenza.”
Ezequiel scolò la bibita, poi si diresse verso l'uscio e chiuse la porta alle sue spalle.
“Quando sei pronta, bussa.”
Beatrice annuì, nonostante Ezequiel non potesse vederla.
Doveva forse provare pietà per quella creatura? Avrebbe dovuto, in effetti. C'erano tutti i presupposti per farlo. Se tutto fosse andato bene, avrebbe avuto ancora quindici anni di vita. Non di più. Una vita da sottomessa, da giocattolo, non da essere vivente. Ma lui non provava pena. Lui non provava nulla. Assolutamente nulla. Si adagiò al muro. Avrebbe voluto poter riposare un paio d'ore, prima di fuggire, ma non aveva tutto quel tempo. Presto, l'agente di polizia si sarebbe ripreso. Sarebbe stato molto difficile giustificare la propria presenza lì. Forse avrebbe potuto andarsene subito. Nessuno avrebbe creduto alla testimonianza di una bambola. Forse avrebbero addirittura incriminato lei. Sarebbe stato molto più semplice, in effetti. L'aveva forse voluta salvare? Scosse la testa. La sua mente stava tentando nuovamente di ingannarlo, di convincerlo.
Tu puoi provare qualcosa. Lo hai fatto perché provavi pietà.
No. Era tutta una bugia. Se aveva deciso così, era stato per convenienza. Non esisteva un'altra spiegazione possibile. Due colpi secchi sulla porta alle sue spalle.
“Sono pronta.”
Ezequiel girò la chiave e aprì. Beatrice si presentò davanti ai suoi occhi vestita di un girocolllo senza maniche con decorazioni bianco-neon luccicanti, un paio di guanti senza dita, lunghi fino al gomito, una gonna nera con lo stesso motivo del top e un paio di stivaletti alti fino al ginocchio. Sulla testa, un cerchietto decorato con una piuma di cigno. Aveva una piccola valigia con sé. Ezequiel non batté ciglio.
“Va bene. Muoviamoci. Se ci fermano, mostra la tua id sul collo. Non ho altro da dirti. Lascia sempre parlare me e non intervenire se non richiesto.”
“Come desideri.”
Ezequiel la portò fuori dall'appartamento, poi chiuse la porta con le chiavi di Virkill, dall'esterno. I due scesero le scale e raggiunsero il pianterreno. Ezequiel si guardò attorno. Voleva essere sicuro che il poliziotto non si fosse già ripreso. Per evitare problemi, aveva sabotato la radio di bordo della Corvette e fatto a pezzi il cellulare del suo occupante. Non avrebbe potuto chiamare rinforzi. Fortunatamente, era ancora lì, svenuto, nel bidone dei rifiuti in cui era stato nascosto.
“Andremo a piedi.”
“Perché?”
“È la scelta più logica. Tutti si aspettano una fuga in macchina. Nessuno verrebbe ad infastidire due passanti.”
“Ma sono le quattro e venti di notte! Sei sicuro che nessuno si insospettisca?”
“St. Patrick è la città che non dorme mai.”
Beatrice annuì, con poca convinzione. Un vecchio blindato Ford fece la sua comparsa, muovendosi in modo sgangherato e traballante. La logica impeccabile di Ezequiel ebbe un sussulto. Nessun mezzo di trasporto ad eccezione degli autobus e dei veicoli di polizia poteva raggiungere la zona alta St. Patrick, a meno che non avesse un'autorizzazione speciale. E l'unico ente che poteva fornire quei permessi era la Encorp.
“Fai finta di niente, Beatrice. Comportati in modo disinvolto.”
“Davvero posso farlo?”
“Devi.”
Come risposta, la ragazza gli rubò il cappello ed incominciò a correre.
“Vieni a prenderlo allora! Dai, su! Un po' di vita!”
Ezequiel rimase interdetto per un attimo. Lei sorrideva e continuava a correre. La sua mente gli diceva di fregarsene, ma una zona non precisata del suo emisfero sinistro stava lentamente elaborando una strategia migliore. Se l'avesse inseguita, l'autista del mezzo che stava sopraggiungendo, avrebbe pensato a due amici – o fratelli, o fidanzati – che stavano, in qualche modo, giocando. Non avrebbe mai potuto collegarli al suicidio di Virkill. L'uomo iniziò a correre.
“Dammi quel cappello! Beatrice, se solo riesco a prenderti...”
Chiunque, all'esterno, avrebbe creduto che in quel momento Ezequiel stesse provando qualcosa.
Roger sbadigliò. Rientrare alla Encorp alle quattro di mattina era seccante. Dover uscire per un controllo subito dopo essere rientrato era molto seccante. Coprire un collega stronzo che non aveva voglia di eseguire gli ordini era decisamente più seccante. Ed eccolo lì, nella zona alta di St. Patrick a guidare il suo vecchio furgone. Solo perché LeJarme glielo aveva ordinato.
Fanculo.
Roger lo mandò a quel paese tre volte, con aggettivi sempre meno lusinghieri. E tutto per ritrovare Virkill Thomson. Un traditore. Voleva fare la bella vita, il Virkill. Era fuggito con trenta milioni di dollari, prelevati dalle casse dell'azienda. Ed era sparito. Nessuno ne aveva più saputo nulla.
Fino ad un'ora prima.
Già, cos'era accaduto esattamente un'ora prima? LeJarme era entrato in possesso di materiale scottante. Materiale su Thomson, inviato da un gentile mittente anonimo. E come tutte le missive anonime, puzzava di falso da un chilometro. Aveva provato a spiegare al suo capo che non ci si poteva fidare di quel materiale, ma niente, non aveva voluto sentire ragioni. Vai, Roger! Bisogna verificare, Roger! Sono cose grosse, Roger! Se riuscissimo a trovarlo, Roger... e via dicendo. L'uomo frugò nella tasca della giacca. Emise un sospiro di sollievo. I suoi amati occhiali da sole erano ancora lì. Sfortunatamente era notte, non poteva indossarli, ma senza di loro si sentiva nudo. Allora li teneva a portata di mano. Forse era da psicopatici. Forse sì. Però se lavori alla Encorp, devi crearti uno scrigno, qualcosa a cui tenere. Altrimenti rischi di alienarti completamente. E quello scrigno per lui erano gli occhiali da sole. L'unico oggetto che sembrava dirgli tu sei un essere umano.
Ripose accuratamente gli occhiali al loro posto e si concentrò sulla strada. Non c'era l'ombra di un cane in giro. Proprio nessuno. Sembrava una città fantasma, dominata da luci baluginanti e crepuscolari, neon bianchi ed eterei, che scintillavano con il bagliore del nulla. Il navigatore satellitare – gentilmente offerto da LeJarme – indicava una distanza di cento metri dal palazzo in cui abitava Thomson. Sempre di poter credere alle parole di un dossier anonimo consegnato via mail ad un'ora improponibile della notte, ma questo era sottinteso. All'improvviso, due figure sfocate fecero la loro comparsa sul ciglio della strada. Una più piccola, una ragazza, a giudicare dai capelli e dal profilo, stava correndo brandendo un vecchio cappello. Un uomo la stava inseguendo, gridandole di restituirlo. Lei rideva. Lo prendeva in giro. Un gioco innocente tra innamorati? Forse. Roger si sentì a disagio. Forse avrebbe potuto scendere dal camion e correre con loro. Sentirsi vivo almeno per dieci minuti. Scosse la testa.
“Cosa stai pensando, vecchio mio? Se fai una cosa del genere sei morto.”
Però una cosa poteva farla. Accostarsi e chiedere informazioni. Stabilire un contatto con il mondo esterno. Un contatto con un essere umano che non fosse Red o uno dei suoi capi. Fermò il veicolo e abbassò il finestrino, poi si sporse fuori.
“Ehi! Scusate! Ho bisogno di un'informazione! Siete di qui?”
La ragazza si fermò e lo fissò con i suoi occhi verdi e magnetici.
“Sì, certo! Se non sei di qui, non puoi permetterti di stare fuori a quest'ora!”
Una voce dolce e squillante. Era quasi piacevole starla a sentire.
“Mi si è rotto il navigatore e devo raggiungere un posto. Se ti dico la via, sai dirmi dov'è?”
Era una bugia. Aveva solo un urgente bisogno di evadere dal suo mondo di stress e obblighi, di tensione costante. L'uomo raggiunse la ragazza e si riprese il cappello.
“Cosa succede qui? Ha bisogno di aiuto?”
Una voce monotona, quasi una cantilena, priva di accenti. Questa era la prima impressione. Roger lo osservò attentamente. Profilo affilato, capelli castani. Occhi... scosse la testa. Doveva essere un effetto del lampione sotto cui si trovava. Gli occhi delle persone normali non luccicavano. Non in quel modo, almeno. L'uomo mostrava solo il suo profilo sinistro, per qualche ragione. Forse era mezzo brillo. Forse era ubriaco perso. Decise di non pensarci.
“Sto cercando il palazzo Zener, nel secondo anello. Non sono molto pratico e...”
“Palazzo Zener? Vai dritto fino alla prossima rotonda, poi gira a sinistra. È subito lì, non è difficile raggiungerlo!”
La ragazza aveva risposto in modo affabile e cortese, esibendosi in un bel sorriso. Roger sorrise a sua volta.
“Grazie mille. Siete stati gentilissimi.”
“Prego. Di nulla.”
La voce dell'uomo lo fece rabbrividire. Non aveva nulla di umano. Forse era un robot... o solo uno psicopatico. Uno spreco. Davvero. Una ragazza così carina con una cosa del genere. Non sembrava capace di esternare qualcosa di simile ad un'emozione. I suoi occhiali da sole avevano un'espressività migliore ed erano sicuramente più entusiasti di quello strano tipo vestito di nero. Roger decise di non pensarci e di ricordare solamente il volto della ragazza, come un tesoro da custodire gelosamente nella propria memoria. Alzò il finestrino, ingranò la marcia e partì, dopo aver salutato. I due passanti divennero figure sempre più piccole negli specchietti del furgone, fino a scomparire del tutto. Raggiunse in poco tempo la rotonda indicatagli. Da lì, girò a sinistra. Raggiunse il parcheggio privato di un palazzo. Era riservato ai mezzi di emergenza e alle forze dell'ordine, ma per lui avrebbero fatto volentieri un'eccezione. Del resto, era improbabile trovare un auto della polizia a quell'ora, in quella zona.
Improbabile ma non impossibile.
Due lampeggianti alternati lo accolsero accendendosi ritmicamente, esibendosi in multiformi geometrie colorate. Una Corvette. Un auto da sogno. Certo, non se guidata da uno sbirro che cerca di multarti per eccesso di velocità. In quel caso diventava seccante. E dannatamente troppo veloce da seminare. Inchiodò. C'era qualcosa che non andava. Cosa diavolo ci faceva un agente da quelle parti, a quell'ora? Poteva essere una coincidenza?
No. Troppo bello per essere vero.
Un amaro sorriso di rassegnazione si fece largo sul suo volto.
Era arrivato troppo tardi.
8. Carcere
Si dice che al primo giorno di lavoro sia normale sentirsi nervosi. Se il tuo lavoro prevede l'utilizzo di armi, il nervosismo è più che giustificato. Se, inoltre, sei costretto a lavorare in una struttura segreta, sotto cento metri di terra, senza avere una minima idea di ciò che ti aspetta...
Stevan si alzò a fatica dalla branda. Il suo contratto di collaborazione con la Encorp aveva assunto validità legale da poche ore. Osservò sconsolato i led della sveglia, organizzati in forme regolari. Chiuse le palpebre. Le riaprì, sperando di aver commesso un errore di valutazione. Scosse la testa, sconsolato. Non poteva sbagliarsi.
Era l'una e venti.
Di notte.
Sbadigliò senza troppa convinzione. Aveva esattamente venticinque minuti per bere una tazza di latte e caffè, vestirsi, prendere i documenti e raggiungere il settore 15.
Il settore 15... un anello difeso da mura di cemento armato lontano circa un paio di chilometri dal centro abitativo.
L'unica sezione della Encorp che non aveva ancora visitato.
Nei giorni precedenti, uno zelante galoppino di Jackson, un tizio di colore che indossava orribili occhiali da sole anche di sera, gli aveva fatto fare un giro turistico della struttura. Qualunque cosa potesse venire in mente, alla Encorp era presente. Laboratorio di genetica? C'era. Fabbrica di robot industriali? C'era. Ristorante di lusso a cinque stelle? C'era anche quello, ma solo per i dirigenti. Gli impiegati, come lui, dovevano rivolgersi alla mensa aziendale per rimediare due pasti caldi al giorno. In generale, non era possibile definire propriamente cibo l'insieme di intrugli che i cuochi del casermone grigio preparavano con malcelata insofferenza. Le patate al forno sapevano di sabbia. Stevan sembrava l'unico a poterle apprezzare. Aveva patito la fame per tre mesi e qualsiasi schifezza minimamente commestibile era una manna dal cielo, in confronto alle verdure crude che avevano popolato la sua tavola per troppo tempo.
Il suo collega gli aveva mostrato praticamente ogni anfratto della gigantesca struttura, comprese le zone ricreative in cui anche i più ligi e zelanti impiegati in giacca e cravatta si ritiravano a fumare marijuana o ad appartarsi con colleghe ben disposte.
Lì aveva incrociato per la prima volta il suo sguardo.
Uno sguardo freddo, fisso, incapace di esprimere qualcosa che non fosse odio.
Una cascata di capelli rossi, trattenuti da una fascia nera. Una faccia da schiaffi squadrata, irritante. Portava un ampio giaccone beige e un pendaglio col simbolo della pace, di quelli che andavano di moda a Woodstock tre, quattro decenni prima. Stava fumando una generosa dose di hashish assieme ad un paio di ragazze bionde. Tra i tre, sembrava il più lucido. L'unico in grado di accorgersi di essere osservato.
“Cerchi rogne, stecco?”
Stevan era rimasto in silenzio. Il suo accompagnatore si era frapposto tra lui e il rosso, senza attendere un millisecondo di più.
“No, Red, non cercava guai. È solo una recluta, non sa ancora praticamente nulla. Gli stavo facendo fare un giro, tutto qui.”
Red, o come cavolo si chiamava, lo aveva fissato ancora per un paio di secondi, prima di sciogliersi in una risata alticcia.
“Non mi dirai che è lo scemo che ha accettato il posto al settore 15? Se è così, permettimi di farti i complimenti. Non è da tutti avere il coraggio di...”
Non terminò la frase.
“Be', perché rovinarti la sorpresa? Tanto sono sicuro che non ti hanno detto ancora nulla a riguardo. Buona fortuna, Stecco!”
L'uomo si allontanò e abbracciò una delle due tipe che stavano fumando con lui. Cos'era successo dopo? Stevan non era sicurissimo di ricordarlo. Erano passate circa ventiquattro ore, ma le sue connessioni neurali erano ancora in braccio a Morfeo. Forse aveva chiesto al moro chi fosse il figlio dei fiori in ritardo di una generazione. Forse la risposta era stata una cosa del genere Meglio non saperlo. Forse sì. Ma forse, in fondo, non aveva neanche tanta voglia di ricordarselo.
Si alzò dal letto e preparò il caffè a velocità supersonica. Non aveva tempo da perdere e, da quanto aveva capito, i ritardatari sparivano in circostanze misteriose dopo il secondo richiamo.
Per non essere più ritrovati.
Indossò il giubbetto corazzato che gli era stato fornito assieme alla divisa. Fece colazione in meno di cinque minuti, poi allacciò gli stivali e i guanti di protezione. Con un equipaggiamento del genere si sentiva pronto ad affrontare persino un tirannosauro. Ovviamente, sperava di non doverlo fare. D'accordo che la Encorp era avanti con e sperimentazioni, ma così tanto sarebbe stato esagerato. Il fatto stesso che il settore 15 fosse così sorvegliato rendeva la situazione particolarmente inquietante. Chiuse la porta del suo alloggio, poi indossò il casco. Calò la visiera in modo da coprire perfettamente gli occhi e si avviò verso il piazzale di raccolta.
La strada era completamente deserta, non c'era l'ombra di un cane. Stevan controllò l'orologio da polso. Era esattamente l'una e quaranta minuti. Entro trecento secondi, il furgone blindato sarebbe venuto a prendere lui e i suoi colleghi per portarli sul posto di lavoro. Si guardò attorno, cercando di cogliere il minimo movimento. Quel silenzio irreale, rotto solo dal rumore delle ventole per il riciclo dell'aria, contribuiva a creare un'atmosfera tetra e rarefatta. Una leggera foschia permeava macabramente l'aria, impedendogli di vedere a più di cinquanta metri di distanza. Il set perfetto per girare un film dell'orrore.
Ora da un tombino esce un mostro alieno alto tre metri e...
Un latrato lontano lo riportò alla realtà. Un cane stava abbaiando con furore a qualche isolato di distanza. Era impossibile non udirlo, ma il suono arrivava soffuso, attutito dalla cappa di vapore acqueo e rendeva il tutto ancora più surreale.
All'improvviso, due lumini fecero la loro comparsa, due deboli scintille di vita nella nebbia.
Sempre più vicine, sempre più marcate.
Poco per volta, una sagoma scura fece la sua comparsa tra i vapori di condensa, accompagnata dal rumore ritmico e ripetuto di un motore a benzina. Una forma squadrata fece finalmente capolino dalla foschia, mostrando il suo aspetto agli occhi di Stevan. Un vecchio blindato Ford con almeno dieci anni di servizio alle spalle si fermò a pochi metri da lui.
Un sonoro colpo di clacson annunciò lo spegnimento del motore. Stevan si coprì le orecchie d'istinto. Il portellone del camion si aprì con un clack, rivelando l'identità dell'occupante. Un uomo dai capelli neri e dalla pelle scura scese dal veicolo con tranquillità. Era il tizio che lo aveva guidato nella sua visita alla Encorp.
“Buongiorno, Stevan! Come mai sei già sveglio?”
Il ragazzo si voltò verso l'autista.
“Pensavo che alla Encorp la puntualità fosse d'obbligo.”
L'uomo rise.
“I primi tempi anch'io la pensavo così, poi ho imparato a prendermela comoda. Ti ci abituerai anche tu. Comunque, io non faccio la spia. È sufficiente che tu sia qui dieci minuti dopo che ho suonato il colpo di clacson. I tuoi colleghi fanno così da qualche anno: aspettano che io arrivi, prima di alzarsi dalla branda. Fra un po' li vedrai strisciare fuori dai loro alloggi come zombi.”
Stevan annuì con uno sbadiglio.
“Grazie dell'informazione, se me lo avessi detto ieri avrei evitato di puntare la sveglia.”
“Perché avrei dovuto? Tu mica me l'hai chiesto. Anzi, se devo dire la verità, io so solo il tuo nome. Non sei stato molto loquace.”
“Non mi piace parlare.”
L'uomo sorrise.
“Perfetto. Meglio così. Chi fa poche domande ha più possibilità di arrivare a fine giornata illeso. Comunque io sono Roger. Se hai bisogno di qualcosa, fammi uno squillo.”
Tese la mano.
“Ricordati di contattarmi in caso di ritardo. Io sono l'unico che può darti un passaggio fino al tuo settore di lavoro.”
Stevan rimase fermo per un attimo, indeciso sul da farsi, poi ricambiò il gesto, con poca convinzione. Roger si voltò verso le unità abitative.
“A quanto pare, i morti si sono svegliati. Dai un'occhiata, se vuoi. Avrai tempo di conoscerli durante il viaggio.”
Stevan seguì il suo sguardo. Cinque soldati in divisa si stavano lentamente facendo strada verso il furgoncino. Due di loro sembravano sonnambuli. Roger aprì il vano posteriore e fissò i sedili per i passeggeri.
“Tutti in carrozza, svelti.”
Uno per volta, i militari presero posto sul mezzo e si allacciarono le cinture di sicurezza, con un gesto meccanico, ripetuto fin troppe volte. Solo Stevan sembrava leggermente impacciato, ma era comprensibile. In fondo, era il suo primo giorno di lavoro. I sedili erano disposti a gruppi di tre, con gli schienali appoggiati alla scocca laterale. In quella posizione era praticamente impossibile vedere il percorso. Non c'erano finestrini né fenditure. Stevan si voltò verso la cabina di guida. Si accorse solo in quel momento che a fianco di Roger c'era una seconda persona. Era quasi sicuramente un uomo, la corporatura non dava adito a dubbi. Aveva capelli rossi lunghi fino alle spalle e...
Scosse la testa. Non poteva essere il fattone del giorno precedente. Era impossibile.
Decise di distogliere lo sguardo e farsi gli affari propri. Non sarebbe stato il caso di guastarsi la giornata così presto.
“Siete pronte, dolcezze? Allora partiamo. Destinazione: settore 15. Non provate a sbirciare il percorso, potrebbe non essere salutare.”
L'autista girò la chiave nel quadro comandi. Il motore emise un muggito stanco, poi diede timidi segnali di vita. Le ruote del furgone incominciarono ad aggredire l'asfalto, mordendo la strada con decisione. Stevan si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Non aveva nessuna intenzione di socializzare con i suoi compagni di sventura. Meno si immergeva nell'ambiente, meglio era. Era lo stesso motivo per cui non aveva praticamente proferito sillaba durante il giro turistico. Non voleva conoscere nessuno, nemmeno Roger. Non gli avrebbe mai chiesto il nome, se non si fosse presentato. Pensandoci bene, non gli aveva chiesto proprio nulla. Aveva fatto tutto da solo.
Sospirò.
Entro una decina di minuti avrebbe finalmente capito per cosa era stato assunto. Non avrebbe mai risposto a quell'annuncio, se non fosse stato costretto dalla fame e dagli stenti. Non avrebbe firmato, se avesse potuto permettersi di scegliere. Non avrebbe indossato di nuovo una divisa, se non per sopravvivere.
Luci corrusche rotearono davanti ai suoi occhi, esibendosi in uno spettacolo con suoni e figure. Una principessa urlava disperata sul tetto del furgone, c'era un cane che stava miagolando... o era un gattino nero? Sì, un gattino nero che lo stava graffiando.
William, per favore, uccidilo, mi sta facendo male!
Ma William non si muoveva. Stava recitando versi di dubbia provenienza su un tizio danese complessato, che parlava con un teschio. Dal teschio comparve un serpente, seguito da una tarantola, una mosca, un sigillo spezzato. E un clown. Un clown con la faccia di William, il Bardo inglese. E pattinava, pattinava con leggerezza sul pavimento del furgone. In quel momento, Stevan si accorse di essere in preda a Morfeo, ma non fece nulla per evitarlo. Semplicemente, chiuse gli occhi, così come nella realtà. E sognò di sognare. Poi il nulla.
La fase REM aveva lasciato spazio al sonno profondo.
Red si voltò verso i passeggeri.
“Non erano cinque, tre giorni fa? Ne hanno preso un altro?”
Roger annuì. Red inarcò il sopracciglio destro.
“Non dirmi che è veramente Stecco...”
“Proprio lui. Sembra sia stato l'unico a rispondere all'annuncio.”
“Capisco...”
Red sprofondò nel sedile.
“Quello che non capisco è perché. Davvero quel cazzo di posto ha bisogno di tutte queste guardie? Addirittura sei? Porca puttana, mica devono domare bestie feroci!”
“Questione di opinione pubblica, Red. Penso di avertelo spiegato una decina di volte, ad oggi. Sai benissimo cosa succederebbe se trapelasse la verità...”
“La verità, eh?”
Red chiuse gli occhi e si calò un vecchio cappello da cowboy sul viso.
“La verità si compra, Roger. Non c'è bisogno di evitare che diventi di dominio pubblico. Viene rivelato qualcosa che doveva rimanere segreto? Chi se ne fotte, ci metti la grana, compri un po' di funzionari e dopo due giorni la verità è quella che decidi tu. La versione ufficiale cambia, sul web si muovono un paio di blogger fidati... e ti assicuro che della vera verità non si accorge più nessuno. Diventa un bel ricordo sbiadito, come quello di una favola. Basta mettere sul piatto un po' di centoni, tutto qui. Ma ora basta parlare di stronzate. Siamo già in ritardo. Svegliami quando arriviamo, okay?”
Roger annuì ed innestò la prima. Il vecchio Ford cigolò, lamentandosi e muggendo disperato, ma non ebbe altra alternativa se non quella di partire. Le ruote aggredirono l'asfalto con rinnovato vigore, permettendo al furgone di muoversi verso la foschia, verso la nebbia.
Red si era addormentato di colpo, senza alcun preavviso. Roger tirò un sospiro di sollievo. Per un po' non avrebbe parlato a sproposito. Red era intelligente – molto intelligente – ma aveva dei modi di fare veramente bruschi e privi di tatto. Doveva essere mezzo autistico, non c'era altra spiegazione. Lo conosceva da tre anni e in tutto quel tempo non lo aveva mai visto stringere relazioni sociali. Con nessuno.
Jackson non ne era per niente contento, ma c'era poco da fare. Per certi lavori, Red era il migliore. Punto. Non c'era bisogno di aggiungere altro. Privarsi di lui sarebbe stato un errore madornale. Non era il miglior compagno per andare a bere una birra, ma sapeva il fatto suo.
La sua mente tornò a qualche tempo prima, quando avevano discusso sui metodi di selezione del personale. Era stato lui a tirare in ballo l'argomento, ne era sicuro. Cercò di ricordare che cosa si fossero detti in quell'occasione.
“Senti, Red. Cosa ne pensi di Jackson?”
“È un idiota.”
Red aveva risposto senza mezzi termini.
“Questo è quello che dicono tutti.”
“Io non sono tutti. Resta il fatto che è un idiota.”
“Per quale motivo?”
“Mi ha assunto.”
Roger doveva aver sicuramente sorriso – sì, doveva essere andata così.
“No, non è autoironia, moretto. Io non lo avrei mai fatto. Non avrei mai dato un lavoro ad un ex-agente del Mossad con alle spalle così tanto sangue, così tante insubordinazioni e così tanti anni di galera.”
“Meglio per te, no? Se ti hanno assunto vuol dire che sei l'uomo adatto per loro.”
“Hai centrato il punto. Dimmi un po'... per che genere di lavoro assumeresti un figlio di puttana come me?”
“Qualcosa di difficile, in cui si rischia la vita. Qualcosa adatto a gente che non ha più nulla da perdere.”
“Oppure qualcosa di talmente depravato che nessun altro accetterebbe.”
“Cosa intendi per depravato?”
“Qualcosa di completamente... amorale.”
“Sii più preciso, non riesco a seguirti.”
“C'erano altre otto persone, al colloquio. Otto persone. E hanno preso solo me. Vuoi dirmi che tra queste otto non ce n'era una meno pericolosa? Qualcuno che non avesse mai visto il Sole a scacchi per avere sparato ad un suo superiore?”
“Evidentemente, tu avevi qualche qualità in più.”
“Se vogliamo chiamarla così...”
Roger si doveva essere voltato verso di lui – non ne era molto sicuro.
“Dai, ora mi hai incuriosito, raccontami un po'.”
Red aveva scrollato le spalle.
“Non c'è molto da dire. Il colloquio è stato breve. Mi hanno fatto solo due domande. Per prima cosa, mi hanno chiesto se fossi disposto ad uccidere per soldi.”
“Immagino che tu abbia risposto di sì.”
“Io come tutti gli altri. L'annuncio era piuttosto esplicito a riguardo. Ad ogni modo, mi hanno posto una seconda domanda.”
“Sarebbe?”
“Per soldi, uccideresti tuo padre?”
Roger doveva essere rimasto pietrificato per un attimo – forse più di un attimo, ma era difficile ricordare tutto nei minimi dettagli. Red aveva continuato con noncuranza.
“Quelli prima di me si sono spaccati in due. Quattro hanno risposto sinceramente di non sentirsela. Quattro hanno detto – con diversi livelli di convinzione – lo farei.”
“Tu cosa gli hai risposto?”
Red aveva sorriso in modo idiota e lo aveva fissato negli occhi.
“L'ho già fatto.”
9. Predatore
L'ascensore era vuoto. Avevano gridato per nulla. All'interno della cabina non c'era nessuno. Jackson si avvicinò cautamente per analizzare meglio la situazione. C'era qualcosa di strano. L'ascensore era diretto al livello meno quattro, un piano per cui è necessario possedere una tessera, ma si era fermato al piano zero, dove si trovavano lui e LeJarme. Poteva essere solo un malfunzionamento, certo... ma come poteva esserne sicuro? Forse qualcuno aveva cercato di accedere al terminale interno per poter raggiungere anche le sezioni ad accesso riservato. Era un'ipotesi plausibile. Nel tentativo di addomesticare il meccanismo di selezione, il misterioso intruso doveva aver fatto un errore e questo aveva spinto la cabina a fermarsi all'ultimo piano permesso. I fatti potevano essersi svolti esattamente in quel modo. Questo poneva due inquietanti interrogativi: chi e perché? A dire il vero, il primo era quello che preoccupava maggiormente Jackson. Il motivo non aveva molta importanza, dopotutto. Ogni essere umano al mondo aveva almeno una buona ragione per odiare la Encorp. Avevano pizzicato miriadi di spie industriali, di improbabili terroristi, addirittura alcuni fanatici convinti che il loro dio volesse la fine della compagnia. I motivi erano sostanzialmente riconducibili a due macrocategorie: da un lato, chi detestava l'azienda e voleva farla pagare a questo o quel dirigente per le ragioni più svariate; dall'altro, gente interessata a ciò che veniva prodotto all'interno della struttura. Erano avvenuti più di duecento episodi del genere, dalla fondazione della Encorp. Il problema era un altro. Dopo anni di silenzio, viene alla luce un dossier completo sugli spostamenti di Virkill Thomson. Non solo, dei due esemplari relativi al progetto Medusa, quello di LeJarme muore in un incidente stradale. Nelle tre ore successive, qualcuno tenta di accedere di nascosto ai piani sotterranei. Troppe coincidenze per un giorno soltanto. Per questo motivo la sua mente si era rifiutata di credere al guasto.
“Non ci siamo, Tony. Proprio non ci siamo. C'è qualcosa che non mi convince.”
“Per la prima volta nella mia vita sono quasi d'accordo con te. Temo che ci sia veramente un intruso nella struttura.”
“Dovremmo andare al piano meno quattro e controllare che lì sia tutto a posto. Se qualcuno rapisse o uccidesse l'esemplare...”
LeJarme si espresse in un gesto eloquente.
“Sarebbe la guillottine per entrambi. Penso che tu abbia ragione.”
Jackson entrò nella cabina e si diede un'occhiata attorno.
“Non sembra ci sia nulla di diverso dal solito. Proprio niente.”
“È la presenza di questa dannata macchina, in questo momento, in questo preciso posto ad essere anomala.”
Jackson controllò anche la pulsantiera. Non era stata manomessa, era tutto come l'avevano lasciato il giorno prima.
“Sinceramente non sono così convinto di voler andare a controllare da solo. Non potremmo chiamare qualche operativo? Molti sono appena tornati alla base dopo l'incidente che ha coinvolto Medusa – B.”
“Un paio sono già fuori. Come ti ho detto prima, ho spedito Roger e Red a verificare parte del dossier su Virkill.”
Jackson si voltò di scatto.
“A proposito... perché proprio loro? Fino a prova contraria, spetta a me dare ordini a quei due.”
“Non ti scaldare, Vince. Erano i primi che ho trovato, tutto qui. Avevo bisogno di gente disposta a partire il prima possibile.”
“Tra tutti quelli che potevi contattare, proprio Red?”
“Non ti fidi, Vince?”
“No. È un pessimo elemento. Prende iniziative personali e più di una volta ha rischiato di mandare a monte tutto. Se fosse stato per lui, Medusa sarebbe morta stecchita.”
Il francese si aggiustò gli occhiali.
“Capisco. Ho fatto una cazzata.”
“Per fortuna c'è Roger.”
“Il nero?”
“Proprio lui. È meno furbo di Red, ma ci sa fare con le parole. Sa tenerlo a bada.”
“Che bella coppia...”
Jackson si voltò all'improvviso. Fece cenno a LeJarme di stare zitto e lo invitò ad ascoltare. L'uomo annuì e tese l'orecchio. Un rumore ritmico, lento, regolare... rumore di passi, in lontananza. Sempre più nitido, sempre più vicino. Proveniva dalle scale di emergenza. Inutile dire che l'accesso a quel vano era proibito se non in caso di rottura degli ascensori. Chiunque ne stesse usufruendo, doveva averne forzato la serratura elettronica. Chiunque ne avesse forzato la serratura, non doveva avere buone intenzioni. LeJarme iniziò a sudare freddo. Iniziò a tremare come una foglia. Jackson mantenne il suo proverbiale sangue freddo, almeno in apparenza. Un passo. Un altro passo. Sempre più forte. Sempre più vicino. Un sinistro cigolio metallico ad ogni passo. Jackson estrasse la pistola dalla tasca e la puntò verso la porta. Chiunque ne fosse uscito, si sarebbe trovato un calibro trentotto nel cervello. LeJarme appoggiò la schiena alla parete e osservò la scena con gli occhi sbarrati. Era sull'orlo di una crisi di nervi e stava per urlare. Sì, stava per urlare, urlare a squarciagola, gridare dalla paura. Non era coraggioso, no, era solo un colletto bianco abituato a svolgere pratiche burocratiche. Il massimo dell'azione che si era concesso in un giorno era andare a fare la spesa per la moglie. Poi si erano lasciati, sei anni prima, e lui non aveva più dovuto occuparsi di quella seccatura. Tutta qui la grande vita avventurosa di Antoine François Marie LeJarme.
“Dimmi che è la guardia notturna! Dimmi che è la guardia!”
“Stai zitto, brutto idiota! Così peggiori solo la situazione!”
In un altro momento, sarebbe stato molto divertente per lui vedere il collega in quello stato. Una patetica larva pronta ad elemosinare pietà pur di salvarsi la pelle. Un lombrico di terra che pretendeva di sembrare un uomo. Certo, sarebbe stato molto divertente, ma in quegli istanti il cervello di Jackson era troppo concentrato sul prendere bene la mira per potersi accorgere della propria soddisfazione. Un passo. Un altro passo. Poi, silenzio. Era di fronte alla porta. Poteva sentirlo respirare affannosamente. Jackson caricò il colpo in canna. Sperava solo che il misterioso ospite non stesse facendo esattamente la stessa cosa. Poteva gridare un chi va là? Identificati! ma sapeva troppo di film d'azione ed era ben poco realistico. In generale, la risposta a quella domanda era una salva di proiettili.
“Signor Jackson? È lei?”
Abbassò l'arma. Era una voce nota.
“Signor Jackson, so che è molto irregolare, ma l'ascensore non rispondeva...”
La porta si aprì di scatto.
“Come può vedere, mi sono dovuto arrangiare in un altro modo.”
LeJarme si scollò dalla parete e cercò di assumere un minimo di contegno. Jackson bestemmiò senza ritegno.
“Maledetto imbecille! A momenti non mi fai morire d'infarto!”
“Scusa, Jacko. Non sono mai stato un campione di buone maniere.”
Soliti capelli rossi, solito cappotto beige, solita espressione da fattone. Tutto a posto, tranne per un dettaglio. Non doveva essere lì.
“Horovitz! Non... non l'avevo inviata con Wades...”
Il verme aveva ripreso coraggio e stava cercando di creare un'apparenza di autorità.
“Certo. A controllare quanto di buono ci fosse in un dossier anonimo falso come una banconota da tre dollari? No, grazie. Ho lasciato il lavoro al moretto.... e in effetti si può dire che io abbia fatto bene. Ho trovato il cadavere di Sandler al piano meno uno e un ascensore guasto, diretto al piano meno quattro. Interessante, non trovate?”
Jackson ripose la pistola. Red giocherellò un po' con la sua.
“Se due più due fa ancora quattro, abbiamo un problema. Con il badge di Sandler il misterioso intruso potrà raggiungere senza fatica il nascondiglio della vostra creatura e...”
LeJarme ebbe la forza di sorridere.
“Sandler non era abilitato ad entrare nei laboratori. Chiunque sia il nostro ospite, non avrà mai accesso a...”
“Rifletti prima di parlare, Tony! Vuoi veramente pensare che uno capace di intrufolarsi alla Encorp eludendone il sistema di allarme non sia in grado di modificare la tessera per ottenere l'accesso?”
LeJarme si sistemò gli occhiali.
“Ci avevo già pensato, Horovitz. Semplicemente, lo ritengo poco probabile.”
Jackson si intromise senza preavviso.
“Controllare non ci costa nulla, tanto più che siamo in tre, di cui almeno uno addestrato per affrontare situazioni di questo genere. Raggiungiamo quel fottutissimo laboratorio e diamo un'occhiata. Se perdessimo Medusa...”
Il francese annuì.
“Non possiamo correre rischi. Ok, tutti a bordo.”
I due uomini in giacca e cravatta presero posto nella cabina di metallo. Red scrollò le spalle, poi li raggiunse, camminando lentamente. Sembrava non avesse la minima fretta. LeJarme estrasse il suo badge dal portafoglio e lo passò all'interno del lettore ottico. Una serie di led si illuminarono di verde, confermando il successo dell'operazione di riconoscimento. Le sue dita si mossero sulla pulsantiera, fino a raggiungere il tasto relativo al livello meno quattro, poi premette il pulsante. Le cifre sul display assunsero la forma desiderata, emettendo un suono appena percettibile. Le porte dell'ascensore si richiusero con il consueto clangore, imprigionandone gli occupanti in una gabbia di metallo e carbonio. Red rivolse uno sguardo di sufficienza ai due superiori. Lombrichi privi di spina dorsale, capaci solo di dare ordini su ordini, spesso assurdi. Gente che sarebbe stata benissimo sotto tre metri di terra, ornati da una lapide commemorativa con il loro nome e da parenti disperati, intenti a declamarne la bontà, la disponibilità, le generosità e molte altre qualità ancora. Veramente. Patetico.
Se fosse stato lui a dirigere tutta la baracca, non avrebbe mai assunto lecchini del genere. Proprio no. Li avrebbe lasciati marcire nelle loro topaie agli angoli estremi di St. Patrick, nei distretti poveri. Perché era da lì che arrivavano. Tutti e due. LeJarme era francese. Gli immigrati non possono vivere nei distretti dal quattro in su senza un conto in banca con almeno cinque zeri. Neanche Jackson doveva essersela passata bene, a quanto pareva. Le informazioni sul suo conto erano frammentarie ma concordavano su un punto: prima di incontrare Virkill Thomson viveva nella miseria più nera. Tutti e due nelle catapecchie, ai lati della strada, a pulire le scarpe dei passanti – di quelli non ancora dotati di scarpe autopulenti, intendiamoci. Bello spettacolo, bello davvero. Un'umiliazione niente male. La cabina si fermò, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Erano arrivati. Le porte si aprirono. Nessuno si mosse.
Red sospirò. Era chiaro, stavano aspettando che lui andasse in avanscoperta. Non volevano certo mettere a repentaglio le loro preziose vite. Estrasse la pistola e la puntò in direzione dell'uscita, si avvicinò alle porte e le attraversò, tutto questo in circa un paio di secondi. Controllò a destra e a sinistra, senza far rumore. I suoi occhi scandagliarono completamente l'area di fronte a lui. Nessun movimento, nessun suono, nessun rumore. Solo silenzio. Silenzio rotto dalla sua voce.
“Zona pulita. Potete uscire.”
Jackson e LeJarme si portarono fuori dalla cabina cautamente e con prudenza. Red se ne accorse e assunse un'espressione stizzita.
“E che cazzo! Non vi fidate? Vi ho detto che la zona è sicura!”
Jackson annuì e si portò al suo fianco.
“Il laboratorio dove è ospitata Medusa è il terzo sulla destra. Raggiungilo poi facci segno se possiamo proseguire o meno.”
Il rosso sorrise.
“Ok, perfetto.”
Attraversò il corridoio con la pistola in mano, puntandola alternatamente in ogni direzione. Nessun suono, nessun rumore se non quello dei suoi passi sul pavimento di piastrelle finemente cesellate, piastrelle odiose che rendevano quel posto più simile ad una villa rinascimentale piuttosto che ad un laboratorio di ricerca. Raggiunse una porta abbastanza grande, certamente blindata. Si avvicinò al lettore e provò a passare il suo badge. I led non diedero segni di vita.
“Mi serve uno di voi, qui. Non posso aprire questa porta.”
“Non è ovvio, pezzo d'asino? Solo i dirigenti possono accedere a quest'area dopo l'orario di chiusura!”
“Sarò un idiota come dite voi, ma allora spiegatemi come faccio a controllare che sia tutto a posto. Non c'è nessuno qui. Potete raggiungermi, se avete abbastanza coraggio.”
Jackson non se lo fece ripetere due volte. Pur di zittirlo, affrettò il passo e lo raggiunse in cinque secondi scarsi. LeJarme gli corse dietro, per paura di rimanere da solo, lì davanti all'ascensore.
“Spostati, imbecille. Per aprirlo è necessaria la mia impronta digitale.”
Red si scostò dal lettore, lasciando campo libero al suo capo. L'uomo sfilò la sua tessera dal portafogli e la inserì nella macchina. I led si accesero, brillando di un giallo intenso. Jackson pose il suo pollice destro su un secondo lettore, poco distante dal primo e premette un pulsante. Alcuni led verdi sostituirono quelli precedenti, dando il segnale di via libera. La porta si aprì sul locale attiguo, per poi chiudersi automaticamente al passaggio dei tre. Jackson corse verso il tavolo su cui era adagiata Medusa. Stava dormendo. Probabilmente era sotto sedativi. Un sonno oppiaceo, privo di sogni, privo di vita.
“Sembra che la signorina sia a posto. L'intruso non è arrivato qui.”
LeJarme si tolse gli occhiali e li ripulì con un fazzoletto.
“Evidentemente siamo arrivati prima di lui.”
“Davvero? Io non ne sarei così sicuro.”
Il rumore di una pistola carica atterrì Jackson.
“Che cazzo stai...”
“Non lo hai ancora capito, Jacko? L'intruso sono io.”
LeJarme si voltò di scatto.
“Stai scherzando, vero?”
“Tu che ne dici?”
Red puntò l'arma alla fronte del suo superiore.
“Non... non premerai quel grilletto, vero? Fi... finirai nei guai, se lo fai...”
“L'ho già premuto, oggi. Pensi che Sandler si sia suicidato?”
Jackson rimase paralizzato dalla scena. LeJarme cadde in ginocchio.
“Non mi uccidere! Non farlo, ti prego! Non voglio morire! Ho ancora molto tempo da vivere! Non ho fatto nulla per meritarlo!”
Red sorrise divertito.
“Già, hai proprio ragione.”
Uno scoppio nel silenzio. Gli occhiali di LeJarme caddero a terra, inerti.
“Non hai fatto nulla per meritare di vivere così a lungo. Avrei dovuto farlo prima.”
Abbassò la canna ancora fumante e perquisì il cadavere dell'uomo, con estrema calma. Jackson era immobile. Non riusciva a parlare. Non riusciva neppure a pensare, o ad urlare. Ogni muscolo, ogni nervo si era bloccato.
“Vediamo un po'... dovrebbe essere qua.”
Estrasse una tessera magnetica bianca lucente.
“Ecco, proprio quello che cercavo. Però non basta. Ne servono due.”
Sogghignò compiaciuto.
“Ehi, Jacko! Ti stai allenando per interpretare l'albero in una recita scolastica? L'espressione è quella giusta, però mi cadi sulla stabilità della posizione. Tremi troppo.”
“Perché... perché stai facendo questo? Perché?”
“La domanda non è quella giusta, Jacko. Se te lo dicessi, manderesti all'aria tutto. Per ora, accontentati di sapere il come.”
Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi.
“Dunque... come iniziare? Ah, sì. Voglio raggiungere questo livello, ma non ho il badge adatto. Mi ricordo che solo voi camicette inamidate avete il tesserino che mi serve. LeJarme è ancora qui dentro. Lo so perché ha provato a mandarmi in missione. Io non ce ne avevo il cazzo e mi sono fatto coprire da Roger. No, sto divagando, non era importante. Cancella l'ultima frase. Diciamo che avevo bisogno di un pretesto per scendere giù con voi. Intendiamoci, sarebbe bastato ammazzarvi entrambi e fregarvi i badge, ma se poi mi fossero servite le vostre impronte digitali? I morti sono inutili da questo punto di vista. Allora scendo al piano meno uno e uccido il guardiano notturno – due colpi al cuore col silenziatore. Poi, saboto l'ascensore. Faccio in modo che il display esterno segni come destinazione il piano meno quattro, mentre in realtà è diretto allo zero, dove siete voi – è bastato consultare i computer per sapere dove vi trovavate. Voi vi spaventate, temete che ci sia un intruso. Allora arrivo io, dalle scale di emergenza. Vi rassicuro, vi offro il mio aiuto. Voi mi portate dove volevo. Potrei uccidervi, ma aspetto ancora un attimo. Faccio bene, servono le tue fottute impronte per aprire questa porta. Entriamo qui, trovo la bella addormentata nel bosco. A questo punto non ho più bisogno di voi, solo dei vostri badge. Per registrare la vostra uscita, intendiamoci. Così nessuno si preoccuperà, almeno fino a domani mattina. Controllo bene la stanza. Non ci sono telecamere? Benissimo. Uccido prima il francese, mi sta più antipatico...”
Frantumò gli occhiali di LeJarme in mille pezzi con una pedata.
“... poi passo a quello stronzo del mio capo e lo torturo psicologicamente facendogli capire che sta per morire.”
Jackson lo fissò sconvolto. Dopo un attimo di pausa, Red aprì nuovamente bocca
“Divertente, l'essere umano. Quando è in pericolo, o corre via scappando di corsa o rimane immobile come uno stoccafisso. Direi che tu appartieni alla seconda categoria.”
Si avvicinò al letto dove giaceva la ragazza, dando le spalle alla sua vittima. Jackson non ci pensò due volte. Non avrebbe più avuto un'altra occasione. Estrasse la pistola e la puntò verso il suo aguzzino.
“Dunque... ho la ragazza, ho ucciso LeJarme... sto forse dimenticando qualcosa?”
Jackson armò il proiettile e si preparò a premere il grilletto.
“Ah, già.”
Il muro si tinse di rosso in perfetta sincronia con lo scoppio della polvere da sparo. Quello che restava di Jackson era riverso a terra, in una posizione totalmente innaturale.
“Mancava il finale. Scusa, Jacko, me l'ero completamente svanito.”
Non appena il dito dell'uomo aveva raggiunto il grilletto, Red aveva premuto il suo. Questione di centesimi di secondo, quell'infinito, infinitesimo tempo che distingue chi sa sparare da chi lo fa per hobby o porta la pistola per sentirsi al sicuro.
Red ripose l'arma e tornò ad occuparsi della ragazza.
“Mia cara principessina, nessuno ci disturberà più. Nessuno.”
I frammenti di vetro sul pavimento luccicarono in modo sinistro. Riflettevano un volto.
Un volto umano che di umano non aveva nulla.
10. Inerzia
Il tizio sul furgone era quasi certamente lui. Non poteva sbagliarsi. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva visto quello scassatissimo blindato Ford dell'anteguerra, ma non poteva dimenticarsene. Era stato il suo traghetto per l'Inferno. Impossibile non riconoscerlo.
L'autista era lo stesso. Stessa espressione assonnata, stessa fastidiosa parlantina. Non aveva gli occhiali da Sole, ma sarebbe stato logico indossare delle lenti scure in piena notte? L'idiozia umana non aveva limiti, ma non sembrava plausibile un comportamento del genere. No, le emozioni non erano schematizzabili. Se Roger avesse provato il desiderio di indossare quei Ray-Ban, la logica ed il ragionamento non avrebbero potuto fare nulla per contrastarlo. Proprio così. I sentimenti non erano inquadrabili, non si potevano raccogliere e catalogare. Spesso spingono a compiere atti completamente insensati, ma non te ne puoi accorgere. Sul momento, sembra tutto giusto, quasi idealistico. Ti senti forte, ti senti un eroe. Solo dopo, dopo che tutto è finito, ti rendi conto di aver agito in modo impulsivo, di essere semplicemente un disgraziato che ha ignorato tutte le basi del ragionamento strutturato, di essere stato preda delle passioni e di conseguenza aver sbagliato. Il preoccuparsi degli altri rientrava in questa tipologia di errori. Logicamente, non è necessario salvaguardare la vita di altre persone se si mette a rischio la propria. Un annullamento dell'io è quanto di meno auspicabile possibile. Il ragionamento comporta una sostanziale chiusura di ogni relazione che non sia di pura convenienza. Se oggi ti do qualcosa, tu ti sentirai in dovere di ricambiare, prima o poi. Se tu mi dai qualcosa, per me non cambia nulla. Se non si ha un senso di colpa, tutto risulta più semplice. In questo modo si poteva sopravvivere, andare avanti, probabilmente tutta la vita. Un comportamento simile ti relega ai margini della società. Sei visto come un cane capace di azzannare anche il suo padrone se ne va del suo bene personale. Un cane privo di obiettivi se non quello di sopravvivere, di andare avanti. La vita diventa una sorta di lotta per non morire, senza uno scopo, senza un fine. Se ti pagano per un lavoro, lo accetti. Non ti importa quale lavoro e perché, né per chi. Lo accetti e basta. Bene? Male? Sono solo due concetti relativi. Se pagano va tutto bene. Ovviamente, si deve sempre agire in modo da rispettare la legge, o almeno evitare di essere scoperti. Una segnalazione agli organi di polizia sarebbe deleteria per la propria esistenza. Per questo motivo aveva portato la bambola con sé. Solo per quello. Non perché gli facesse pena o qualcosa di questo genere. Era conveniente portarla via. Punto.
“Mi sembri preoccupato. Tutto a posto?”
“Non è il caso che tu me lo chieda.”
“Non è una risposta.”
“Si sono forse dimenticati di inserirti qualche algoritmo logico nel tuo cervello? Non c'è altra spiegazione alle tue domande.”
“So ragionare. Non sono una bambina.”
“Hai ragione. Sei una bambola. Solo una bambola.”
Non avrebbe avuto senso spiegarle tutta la storia. Con buona probabilità, non sarebbe stata in grado di capirla. Logicamente, un automa programmato per soddisfare i desideri di ricchi clienti, per la maggior parte maschi, non necessitava di una cultura molto approfondita, né di un particolare profilo psicologico.
“Lo so. Ma so anche che non vorrei esserlo.”
Ezequiel allungò il passo. L'automobile era ancora lontana, l'aveva lasciata all'ingresso della città. Non dovevano né potevano utilizzare mezzi pubblici. Avrebbe dovuto rendere la vita difficile ad eventuali inseguitori. Gli autisti erano fin troppo loquaci con chi si premurava di offrir loro un caffè o semplicemente fermarsi a fare due chiacchiere. Il Funzionario lo aspettava in un piccolo autogrill in mezzo al deserto. Non sarebbe stato saggio farlo aspettare. Il sessantacinque percento degli amministratori o degli addetti ai pubblici uffici era insofferente ai ritardi, secondo le statistiche più recenti.
“Tu sai che ho circa quindici anni di vita residua, vero? Non posso sperare in molto di più. Non ho avuto un'infanzia, sono diventata donna ancora prima di essere ragazza. Non vedrò mai la vecchiaia. Rimarrò così come mi vedi, così come sono nata. Così come morirò. La mia esistenza non ha uno scopo, sono solo un oggetto di lusso, tutto qui.”
“Vedo che ci sei arrivata da sola. Comunque non ho intenzione di lasciarti andare. Ho ancora bisogno di te.”
“Sono a tua completa disposizione.”
Ezequiel si fermò per un istante. Chissà quante volte aveva dovuto pronunciare quella frase davanti a Virkill. I suoi giorni erano probabilmente scanditi da diversi tipi di umiliazione, compresi frequenti rapporti con il suo padrone. Una persona vera si sarebbe ribellata. Lei gli era rimasta fedele. Quindi lei non era una persona vera. Un sillogismo perfetto. Impeccabile. Doveva solo decidere cosa rispondere. La scelta più logica sarebbe stata chiederle di non accennare alle sue mansioni fino a quando non l'avesse lasciata libera. Ma era quella più sensata? Il ragionamento lo aveva portato ad un'altra conclusione. Se lei fosse stata troppo zitta, avrebbe solo attirato sospetti su di sé. No, non era la soluzione migliore. Doveva permetterle di esprimersi, di parlare, anche se questo poteva tradursi in svariate decine di minuti di monologhi e domande prive di coerenza o di un oggetto valido.
“Cosa vuoi che faccia per te? Chiedimi pure tutto quello che desideri.”
“Per il momento, pensa solo a seguirmi e a non dare spettacolo. Per il resto, puoi fare quello che vuoi.”
I vetri opachi dei grattaceli li fissavano intensamente. Occhi spettrali, inesistenti. Pallidi fantasmi che li racchiudevano in un groviglio di metallo e cemento, illuminato da fiochi neon. Luci corrusche, bagliori improvvisi nel silenzio. Lampade intermittenti capaci di farti perdere il senso dell'orientamento, flash bianchi nel nero notturno. St. Patrick era una trappola per insetti. Le luci ti attiravano, ti stordivano, ti facevano perdere coscienza di te stesso. Se ti andava bene, ti rovinavi in un casinò. Se ti andava male, la mattina eri all'obitorio. Perdere l'orientamento è un attimo. Recuperarlo è impossibile. Ezequiel ne era ben conscio. La domanda era se anche il Funzionario ne fosse consapevole. Il Funzionario... cosa sapeva di lui? Poco. Era una sorta di intermediario tra lui ed il suo committente. Qualcuno con i soldi. Molti soldi. Non era riuscito a ricavare molte informazioni sulla sua precisa identità. Aveva ricevuto una ingente somma di denaro come anticipo, corredata da un file criptato in cui era nascosta la sua richiesta. Chiunque fosse, lo conosceva bene. Sapeva il suo nome completo, primo, secondo e cognome, non solo quell'Ezequiel con cui era noto nel giro. Probabilmente era una sua vecchia conoscenza, qualcuno con cui aveva lavorato. Scosse la testa. Inutile lambiccarsi il cervello in assunzioni e ipotesi prive di fondamento. Ciò che era veramente importante era andare avanti, vivere, ad ogni costo, con ogni mezzo. E porsi poche domande. Poche domande, certo, ma sufficienti a comprendere il motivo di quella richiesta. Era strano, in effetti. Il compito assegnatogli aveva a che fare con il suo passato, con la Encorp, con Virkill Thomson, quello stesso Virkill per cui aveva lavorato. Gli era stata offerta la possibilità di vendicarsi, corredata da un notevole contributo economico. Aveva accettato solo per i soldi. La vendetta non era una scelta logica. Portava solamente un enorme dispendio di energia e di tempo, senza peraltro assicurare alcun vantaggio. Ci si sente meglio, forse, ma per sentirsi meglio è necessario poter provare emozioni... quindi, per lui, non aveva senso.
“Perché sei venuto a casa mia?”
Beatrice aveva ancora una volta spezzato il filo dei suoi pensieri.
“Cercavo Virkill.”
“Vergil, vuoi dire?”
“Proprio lui.”
“Perché lo cercavi? Volevi che si uccidesse?”
“Non volevo nulla. Dovevo portare a termine un lavoro. Tutto qui.”
La ragazza sospirò.
“Possibile che tu non abbia personalità? È quasi più divertente parlare con la mia piuma.”
“Non penso tu sia stata generata per fare conversazione.”
“No, come sai ho ben altri compiti.”
“Già, sei nata solo per scopare.”
Un breve silenzio. Beatrice lo fissò negli occhi privi di espressione .
“Perché sei così... apatico? Perché la tua voce non cambia mai tono? Ordinami qualcosa! Grida, piuttosto! Bisbiglia, fai quello che vuoi ma cambia tono di voce! Sembra di parlare con un nastro registrato! Vergil era mille volte più umano di te!”
Ezequiel si fermò. Portò la mano destra alla testa e si tolse il cappello.
“Cosa pensi sia questo?”
L'indice della mano sinistra indicava qualcosa nascosto tra i capelli.
“Una placca metallica? Non l'avevo notata, prima.”
“Copre il foro di entrata di un proiettile. Un proiettile che non è mai uscito.”
Beatrice sgranò gli occhi.
“Il mio cervello è stato danneggiato, non sono più in grado di provare nulla. Mi è rimasta solo la logica. Ho dimenticato cosa siano i sentimenti. Questa è la verità. Non posso provare odio, non posso provare felicità. Non so nemmeno cosa significhino. Il mio unico scopo è vivere. Non ho passioni, non ho hobby. Sono bravo a sparare. Questo è il solo motivo per cui faccio quello che faccio. Non ho paura della morte, né di sentir dolore. Questa è la mia esistenza, da cinque anni a questa parte.”
Indossò nuovamente il copricapo nero.
“Per la cronaca, anche altre zone sono state danneggiate in modo irreversibile. Per far fronte a questo, il mio cervello si è riorganizzato. Ho una memoria di ferro. Non dimentico assolutamente nulla. Ogni parola, ogni frase che hai detto mi è rimasta impressa, marchiata a fuoco nella mia mente. Se fuggi, ti ritroverò ovunque tu vada.”
La ragazza arretrò, spaventata. Si ricompose. L'espressione sul suo voltò tornò la solita. In qualche modo, era programmata per non stupirsi di nulla. Se il suo padrone le avesse chiesto di fare l'amore con un cactus, lei avrebbe dovuto farlo. Era la politica aziendale della Zavira, la compagnia che produceva le bambole. Le avevano lanciate sul mercato una decina di anni prima con lo slogan per loro, nulla è troppo. Un lancio efficace, in grande stile. Anche Virkill era caduto nella trappola. Aveva firmato la sua condanna a morte, in quel modo. Morte avvenuta per sua stessa decisione. Ezequiel non glielo aveva imposto. Il grilletto aveva deciso lui di premerlo.
(Non) fine

