Ciò che non desidero (2013)

"Ciò che non desidero" è sicuramente la mia storia più divisiva. Sporca, feroce, crudele, apertamente sensuale, perversa. È anche il mio secondo romanzo più lungo, dopo "La Farfalla sul Croco", pur scandagliando profondità diverse. "Ciò che non desidero" è stato uno sfogo psicologico, forse ispirato dai romanzi di Carlos Luis Zafón, ma portati all'estremo. La protagonista, Arianna, una ragazza di ventitré anni che vive coi genitori, non ha mai fatto nulla al di fuori degli schemi nonostante la maggiore età... ha più di un punto di contatto con la mia esperienza personale. La scena in cui legge un manga per la prima volta, la meraviglia che prova ha un che di autobiografico. La sua reazione allo scoprire che la sua migliore amica ha avuto un'esperienza omosessuale è legata agli orribili stereotipi sulla comunità LGBTQ+ che erano ancora diffusi in Italia negli anni 2010 (e forse non se ne sono andati). Ho rimesso mano a questo racconto nel 2018, per adattarlo e cambiare un finale di cui non ero contento, snellendo alcune parti e modificandone altre. Questa versione di "Ciò che non desidero" contiene la prima scena semi-esplicita che ho scritto in un racconto - quanto riuscita non so dirlo - che è riportata integralmente anche in questa versione di archivio. Soprendentemente, questo romanzo contiene riferimenti ad altre storie, incluso ancora una volta "Neonlight", qui un film centrale nella trama, con Nicolas Cage nel ruolo di Ezequiel. Non posso fuggire dalla maledizione di "Neonlight". Red ed Ezequiel torneranno sempre a tormentarmi.
RiflessisselfiR
Specchi. Specchi ovunque. Frammenti di immagine caleidoscopici, multiformi, riflessi di molteplici esistenze. Decine, centinaia, migliaia di volti, simili tra loro, la stessa espressione spenta ripetuta all'infinito.
Non un battito di ciglia, non una smorfia, un cenno di vita.
Non una traccia di morte.
Occhi di vetro, pupille dilatate, riflesse sui pannelli lucidi, riflesse dai pannelli lucidi in tutta la stanza. Una visione estasiante, da contemplare con avidità. Corpi perfetti, lisci, inviolati. Fermi, immobili.
Vivi.
Né legati, né incatenati.
Vivi.
Respiravano, certo.
Un così dolce respiro...
L'unico, timido segnale che quei corpi non erano finti.
Ed erano lì, a sua completa disposizione.
Un peccato, un peccato davvero non poterne godere appieno... ma non posso cedere alla tentazione, non ora. Non posso permettermi di consumare tutto, non così in fretta.
Fretta?
No, non c'era bisogno di averne, proprio no. Perché quando torni dall'aldilà non ne hai più, di questi problemi, devi solo decidere come trascorrere il tempo residuo.
Ciò che resta lo vivi come vuoi, tanto non devi più mangiare, non devi più bere, non hai nemmeno bisogno di respirare.
Però questo tempo non è eterno.
Un sospiro.
Pensarci troppo non gli sarebbe stato di alcun giovamento. Meglio concentrarsi sul tesoro.
I corpi erano solo una decina, in fondo, ma gli specchi li moltiplicavano all'infinito, in mille combinazioni scintillanti.
I corpi erano solo una decina, in fondo, ma gli specchi li moltiplicavano, riproducendoli in mille combinazioni scintillanti.
Respiravano in silenzio, accarezzandolo con le loro mani vellutate. Pelle liscia, profumata, brillante, scintillante, bianca, bianchissima o anche scura, non importa basta che sia pelle, solo pelle. Nient'altro.
Un'ossessione? Forse. O forse no.
Poteva definirlo un hobby? Forse. O forse no.
Forse, solamente un passatempo per trascorrere il transiente nel miglior modo possibile. Peccato per le immagini, peccato per gli specchi. Riflettevano la stanza, certo, in un infinito caleidoscopio di colori, forme ed immagini.
Riflettevano le vecchie credenze ammuffite, le ragnatele, il lampadario cigolante.
Riflettevano ognuno di quei corpi perfetti, ogni essere umano, ogni oggetto nella stanza.
Ad eccezione di lui.
Un altro sospiro.
Qualcosa si deve pur perdere, quando si attraversa la soglia.
Uno dei corpi sinuosi si mosse alla sua sinistra e lo baciò sulla guancia, dolcemente. Un bacio, una languida carezza, uno sguardo perso nel vuoto.
Uno dei corpi sinuosi si mosse alla sua sinistra e lo baciò sulla guancia, dolcemente. Un bacio, una languida carezza, uno sguardo perso nel vuoto.
Ovvio.
Non erano in grado di reagire, non erano in grado di percepire nulla, se non ciò che era loro comandato. Un altro bacio, e un altro, un altro ancora.
La allontanò leggermente, per riprendere possesso di sé. Gli specchi... gli specchi non lo avevano riflesso neanche in quel momento. La ragazza, quella perfetta creatura vellutata, sinuosa, aveva baciato il nulla, accarezzato l'aria.
Strinse il pugno, strizzò gli occhi fino quasi a provare dolore, serrò i denti fin quasi a ringhiare, come una bestia feroce.
Quando si concentrava, poteva effettivamente scorgere alcuni, insignificanti particolari del suo corpo. Le mani erano a posto, i piedi anche, i vestiti erano impeccabili.
Ma il viso? Era lo stesso? Lo stesso di quando era precipitato giù dalla scogliera?
Non poteva saperlo. Non lo avrebbe mai saputo.
Un boato fragoroso, rumore di nocche contro assi di legno marce.
Subito dopo, il rimorso.
Calmati, pensò, calmati. Non puoi perdere il controllo in questo modo.
Tornare dall'aldilà provoca uno strano effetto, si sa. L'ebbrezza di poter assaporare nuovamente piaceri dimenticati. Il turbinio dell'aria, il vento sulla pelle, il calore del corpo di una donna.
E lo desideri, certo. Lo desideri perché non devi più soddisfare alcuna altra necessità.
Una carezza gentile, sull'altra guancia. Una mano scura, leggermente, non troppo. Stessa espressione, assente, provocante.
Rise, rise pensando ai ricchi viziati che si circondavano di bambole costruite per riprodurre l'immagine femminile. Perché bambole? Non ha senso quando puoi avere delle vere ragazze... e in quella quantità.
Incoscienti, certo.
Incapaci di capire, di parlare.
Sanno solo respirare e baciare, baciare bene.
Ma d'altronde, è questo che volevi, no? Godertela un po' visto che in vita non ne hai avuto l'occasione. Sei morto troppo presto, a trentacinque anni, per uno stupido incidente, dopo aver seppellito un cadavere. E la scogliera si avvicinava sempre di più, sempre di più. In quel momento cos'hai pensato? Dillo, cos'hai pensato?
Peccato non averne approfittato.
Ma lei mancava ancora. Non l'aveva presa, non c'era riuscito.
Uno scherzo del destino?
Forse.
Un retaggio che non era il caso di cancellare, uno scoppio di sentimenti che lo aveva atterrato, squassato, distrutto. Tornare indietro, dopo così poco tempo, e poter finalmente sfogare i propri desideri più repressi e perversi...
Una manna dal cielo … o una dannazione aggiunta?
Non puoi avere ciò che desideri, non puoi volere ciò che già hai. Mai soddisfatto. C'è da impazzire, da perderci la testa.
E precipitare.
Nell'abisso.
Di nuovo.
Già.
Perché, di solito, non c'è una seconda possibilità, ne hai una sola.
Sprecala, ed è finita.
Tutti i sentimenti bruciati, ridotti in cenere, nera e polverosa, fuliggine maledetta. Danzi su quelle ceneri, senza un preciso motivo, poi smetti anche di ballare. Perché non provi più nulla. Un guscio vuoto, senza speranza, senza vita, privo di intelletto. Questo è il destino dei perdenti.
Una brutta situazione, vero?
Molto brutta. Pessima.
E lei dov'è?
Lei?
Sì, proprio lei. La creatura per cui sei tornato.
Non lo so.
Non è vero, lo sai, lo sai bene.
Perché dovrei mentire a me stesso?
Perché ti sembra... da depravati.
Non è vero.
Intendiamoci, stai desiderando di ritrovarla, ma non per contemplarla, come queste bambole! Tu la vuoi, la brami. Non la lascerai inviolata come le altre.
Sì, è così.
Purtroppo è così.
Serrò le palpebre, sferrò un pugno contro uno degli specchi, incrinandolo leggermente.
Nessuna delle ragazze reagì. Si limitarono ad osservarlo con sguardo languido e desideroso, inconsce della loro completa nudità. Stupide marionette senza fili, incapaci di pensare, prive di ogni senso critico, condannate a seguire solamente l'istinto.
Aprì gli occhi.
Era pienamente padrone di sé, il momento di ebbrezza era passato, la follia sembrava essersi placata. Si lasciò accarezzare dolcemente da quei corpi che rispondevano solo a lui. Chiunque al posto suo si sarebbe sentito in pace con il mondo.
Chiunque il mondo non l'avesse visto dall'alto – o dal basso, nello spazio non hai punti di riferimento.
Per un attimo dimenticò i suoi problemi e si adagiò mollemente sul divano. Era il re di quella piccola Versailles dimenticata dal mondo, lontana da tutto e da tutti.
Sprofondò in una sorta di sonno oppiaceo, privo di sogni, privo di vita. Le carezze, le moine, le fusa non potevano risvegliarlo, solo acuirne i sensi, renderli parte del Campo intrinseco della natura.
Flussi di informazioni, informazioni sotto forma di suoni, colori, figure.
A intervalli regolari, immagini di vita si infrangevano sulla sua mente, propagandosi con tutta la loro forza.
Architravi maestosi, finestre enormi, luce ovunque.
La vera Versailles fece capolino nei suoi pensieri turbinanti, ridestandolo dal torpore. Cos'aveva quel suo minuscolo, insignificante regno della sfarzosa reggia francese?
Nulla.
Solo gli specchi.
Già, gli specchi...
Specchi che non mi riflettono.
Ma rifletteranno lei, amico mio.
Non posso farle del male.
Rilassati, non sei più il suo galoppino.
Lo sono stato. L'ho servita. Le sono stato vicino.
Per convenienza.
Sì, solo per quello.
Eppure la brami, la vuoi.
Non è così, Francesco?
Svanire
Sembrava ubriaca, da quanto camminava storta. L'espressione del suo viso tradiva uno spiccato senso di appagamento, di pace interiore. Era al settimo, no! all'ottavo, no! al nono cielo.
Scosse la testa, come per riprendere il controllo di sé.
Da quanto non provava una sensazione simile? L'amore, forse non quello vero, ma puro e semplice. E per chi poi! Un sentimento forte, dolce e terribile, improvviso.
Come aveva fatto a dimenticarsi tutto ciò?
Afferrò il lampione con la mano destra e girò tre volte attorno, senza curarsi degli sguardi dei passanti.
Completò ancora due giri, poi si lanciò a centro strada, in mezzo alla folla, tra lo stupore delle madri che portavano i bambini a scuola e i padri che si recavano al lavoro. Si accarezzò i capelli rossicci, un colore che la rappresentava appieno, prima, durante e dopo il...
Il...?
La sua mente si bloccò per un lungo istante, censurando la parola, cestinandola nell'immenso archivio di cose poco importanti.
Ora doveva affrettarsi, correre, rallentare, camminare, a passo lento, fermarsi. Sì, fermarsi in mezzo alla folla, ad occhi chiusi, con le braccia aperte, allargando il giubbotto di pelle e mostrando la maglia candida al vento, una leggera brezza che si divertiva ad appiccicargliela al corpo, il corpo di una ventitreenne ebbra di gioia, ebbra di vita. Certo, poteva sembrare strana agli altri, ma qual era il problema?
A ventitré anni hai tutta la vita davanti.
O tutta la vita dietro?
Abbassò le braccia, delusa.
Non era così semplice decidere quale fosse l'alternativa corretta.
Sprofondò in un'immensa tristezza, così, all'improvviso. Il suo umore era a dir poco altalenante. Si sarebbe voluta addormentare, addormentare e risvegliarsi l'indomani, consumando in un lampo le sedici ore che la separavano dall'inizio di una nuova giornata.
Perché? Non lo sapeva, non poteva farci nulla. Era facile preda delle emozioni, forse troppo facile.
Ma era meglio così, davvero, meglio provarne troppe di emozioni che non provarne per nulla. Cascate di sensazioni contrastanti contrapposte ad aridi deserti di razionalità e conformismo.
Se avesse potuto scegliere, non avrebbe avuto dubbi.
“Cassie!”
Quel nome la scosse, la riportò alla realtà. Cassie era lei. La stavano chiamando?
“Ehi, Cassie! Tutto a posto?”
Una ragazza. Aveva la sua stessa età. Capelli corvini, abbastanza lunghi, occhi grigi, un paio di occhiali riposanti.
Chi è?
Arianna.
Sì, sì, lo so.
Allora perché l'hai chiesto?
Così. Mi andava di farlo.
“Ti ho visto dondolare come una scema dall'altro lato della strada! Cos'è, hai perso una scommessa?”
“Può darsi.”
Arianna, la nuova arrivata la squadrò dalla testa ai piedi. Chi aveva di fronte? Una ragazza esile, un po' più bassa di lei, con capelli rossi scompigliati dal vento e occhi verdi profondi, vestita come un maschiaccio: giacchetta di pelle con borchie di metallo lucido, maglia bianca un po' troppo aderente, jeans strappati in più punti, scarpe slacciate consumate dall'uso.
Stile, questo sconosciuto...
Si sistemò gli occhiali con un gesto rapido e cercò di riprendere il filo della conversazione.
“Può darsi non è una risposta.”
Cassie sospirò rumorosamente.
“No, okay? Non ho perso nessuna scommessa! Semplicemente... desideravo comportarmi così.”
Scoppiò in lacrime, senza un preciso motivo.
“Solo che nessuno... nessuno mi capisce... tutti mi criticano...”
Un sorriso si stampò sul suo volto rigato.
“Ma in fondo, chi se ne importa?”
Arianna la osservò perplessa. Quei continui sbalzi di umore erano tipici di Cassie. Passava con disinvoltura dalla gioia alla depressione, senza preavviso. Forse era affetta da un qualche tipo di disturbo bipolare, ma non poteva esserne certa. La conosceva da poco, da troppo poco: era arrivata in città solo qualche mese prima. Non sembrava avere parenti né conoscenti, lì in giro. E, forse, era proprio per quello che avevano legato subito. Cassie era sola, disorientata e preda delle più violente emozioni, emozioni di cui non sembrava essere padrona.
Era come se le redini della sua anima fossero in mano ad un misterioso, invisibile burattinaio, nascosto dalle nuvole, nascosto tra le nuvole. Un macabro, crudele burattinaio, intento a giocare con la sua marionetta, a sperimentare diversi comportamenti, per suo piacere personale. Un giorno lo avrebbe cercato, con il telescopio.
Chi lo sa? Magari lo trovo davvero: tutto intento a tirare fili con quelle assurde manopole a forma di croce, sogghignante e divertito. E dopo averlo visto, potrò tagliare i fili e liberare Cassie. Certo, liberarla, renderla autonoma, senza quei vincoli imposti dall'alto. Forse non le sarà facile gestire tutto, all'inizio, però...
Scosse la testa.
No, chi mi assicura che i fili non li abbiamo già recisi? Magari è proprio per questo che Cassie è così originale. Magari siamo noi ad essere controllati da burattinai invisibili, in modo da comportarci esattamente come ci è richiesto dalla società. Forse, solo le persone come lei sono veramente libere... e io sto sbagliando tutto.
Una questione di relatività. Cassie era esuberante e a dir poco strana per i canoni della società civile ma, dal suo punto di vista, potevano essere gli altri a sbagliare, ad essere troppo ingessati.
Meglio non pensarci e godersi la prima giornata di sole, dopo un inverno insolitamente rigido. Ma sarebbe stato possibile, assieme a Cassie? Forse no – almeno, non nel vero senso della parola.
Era già stato chiaro dal loro primo incontro che non sarebbe stato facile avere a che fare con lei.
Arianna sospirò, tentando di ricordare i dettagli – anche quelli più imbarazzanti – di quel momento.
Era con un paio di compagni di classe, in giro per le vie della città. Sorridevano e chiacchieravano, pur mantenendo un determinato contegno. Ad un certo punto, compare questa rossa dal nulla, che corre ridendo sguaiatamente nella loro direzione, inseguita da un salumiere – lo si capiva dal grembiule e dal cappellino col logo del Paradiso della Coppa. L'omone gridava a squarciagola improperi ed insulti e sembrava intenzionato ad usare la mannaia che brandiva nella mano destra. I suoi amici avevano immediatamente rivolto lo sguardo altrove, lei no. C'era qualcosa di particolare, nella rossa. Qualcosa di inspiegabile, di magnetico. Era impossibile scollarle gli occhi di dosso. Di certo, l'abbigliamento non contribuiva a migliorare la situazione: era troppo originale per non essere notata. Cos'era successo dopo?
Ah, sì.
L'uomo l'aveva raggiunta e le aveva urlato addosso qualcosa di incomprensibile. Lei, sempre sorridendo, aveva risposto quasi a voce bassa, con gli occhi rigati da lacrime – ma non di paura.
Stava piangendo dal ridere.
Un comportamento vergognoso, da condannare.
Il macellaio l'aveva afferrata per il polso e riportata la negozio, mantenendo la sua espressione burbera, che faceva coppia con la sua corporatura robusta e tondeggiante.
Strano, aveva pensato, strano davvero. Se avesse voluto, quella lì l'avrebbe staccato di sei chilometri.
Invece, si era fatta riprendere. Arianna aveva seguito con lo sguardo tutta la scena, senza perderne nemmeno un fotogramma. Neanche un minuto dopo, la rossa era uscita sorridente dal negozio, accompagnata dalle urla del pizzicagnolo. Erano urla diverse, di irritazione, non di rabbia.
E dopo?
Beh, la curiosità era stata troppo forte. Si era avvicinata alla ragazza, seguita a ruota dai suoi compagni. In fondo, anche loro erano interessati alla situazione, ma non potevano ammetterlo apertamente. Sarebbe stato sconveniente.
“Tutto a posto?”
Sì, le prime parole dovevano essere state quelle.
Sai che originalità...
“Certo! Certo che è tutto a posto! Sono qui, parlo, rido, scherzo, piango! È veramente tutto a posto! Sto benissimo!”
La ragazza aveva accompagnato quelle parole con ampi gesti delle braccia, sventolando la giacca di pelle a destra e a manca.
“Cosa gli hai fatto? Conosco Crescenzio da quando ho sei anni. Non l'ho mai visto così irritato.”
“Be', ho preso un panino con il prosciutto per ricordarmi che sapore avesse... ma mi sono dimenticata che bisogna pagarle, le cose che compri.”
“Così ti ha inseguita.”
“Sì. Ma è stato divertente! Sono scappata per essere ripresa, mi mi sono fatta acchiappare apposta.”
“A... ah, ecco. Logico.”
La rossa le aveva premuto l'indice sul naso, esibendosi in un sorrisetto malizioso.
“Guarda che il panino gliel'ho pagato, alla fine! Avevo una decina di euro da parte, sono bastati per fortuna. O per sfortuna. Se mi avesse inseguito di nuovo sarebbe stato ancora più divertente!”
Subito dopo, aveva allungato la mano e l'aveva esibita in un cordiale gesto di amicizia.
“Io sono Eva Cassiopea, ma non chiamarmi così, per favore. Il mio primo nome è troppo biblico, mi fa sentire male. Pensa un po'... Ciao, Eva, come stai? No, no, non suona bene. Il secondo è troppo lungo, mi dà quasi fastidio. Chiamami Cassie e siamo a posto così.”
Arianna si era guardata bene dal ricambiare. Sembrava – e forse era – una svitata, incapace di relazionarsi col mondo. Non vestiva per niente alla moda, i suoi pantaloni erano rattoppati in più punti (solo col tempo avrebbe scoperto che gli strappi erano parte integrante dei suoi jeans), si comportava come una perfetta stupida. Eppure...
“Arianna, lasciala perdere. Abbiamo ancora delle commissioni da fare!”
I suoi amici avevano cercato di trarla in salvo, ma il rimedio era stato peggiore del male. Cassie aveva afferrato la mano della ragazza e l'aveva abbracciata.
“Arianna è un bel nome, molto bello! Però troppo lungo, anche se meno di Cassiopea. Arianna. A-ri-an-na. Ari-anna. Ha un bel suono! Lo pronuncerei per ore!”
Vittorio e Samuele si erano subito dati da fare per dividerle. Non stava bene vedere due ragazze abbracciate, se poi una era una pazza dai capelli rossi...
“Ora dobbiamo proprio andare, okay?”
“Sì, non abbiamo tempo da perdere.”
Cassie aveva lasciato la presa, lievemente imbarazzata.
“Scusate...”
Poi, all'improvviso si era avvicinata ai tre e li aveva baciati sulla bocca. Tutti. Arianna compresa. E ci aveva pure messo la lingua.
Infine, era fuggita, lasciando dietro di sé solamente il nome e uno strano, piacevole batticuore che Arianna non avrebbe mai confessato a nessuno, pena la sua radiazione dalla società civile.
Ma per ritrovarla era stato abbastanza.
“Oggi mi sembri più strana del solito, Cassie. Non ho ancora capito se sei meteoropatica o qualcosa del genere. Senti l'arrivo della primavera?”
“In un certo senso, sì. Sono molto confusa, è vero. Non riesco bene a capire cosa voglio, capire chi o che cosa sono. Provo tutto contemporaneamente – gioia, dolore, eccitazione, odio – e spesso non sono capace di scegliere con efficacia.”
“Me lo hai già detto tre volte, da quando ci conosciamo. Piuttosto...”
Si sistemò gli occhiali con un gesto repentino.
“... vedi di evitare comportamenti così sconvenienti quando siamo in giro assieme. Quando ci siamo incontrate per la prima volta hai addirittura... sì, insomma, ero lì per vomitare dopo che...”
“Che ti ho baciata? Ma era solo un gesto di amore fraterno!”
“Era tutto tranne che fraterno.”
Cassie le premette l'indice sul naso affusolato, esattamente come la prima volta.
“Quasi vomitato, sì, certo! Scommetto che ti è piaciuto, invece. Avevi la faccia di una che non aveva mai limonato prima.”
Arianna si produsse in uno sbuffo deciso.
“Basta, okay? Non scherziamo, per favore! Sei un po' troppo su di giri per i miei gusti, oggi.”
“Se mi sopporti così poco, perché mi sei venuta a cercare? Potevi startene a vomitare a casa tua, nel tuo scrigno di porcellana levigata e dotato di pratico sciacquone, piuttosto che girare mezza città alla ricerca di quella fantomatica Eva Cassiopea, di quella stupida ragazza in fuga da un salumiere. La domanda, quindi, è perché?”
Già, perché? La risposta, a dirla tutta, era molto semplice.
“Sei diversa dai miei amici. Non segui le nostre regole, non segui alcuna regola. Non lavori, non studi, sei sempre in giro a stupirti di qualunque cosa. Sei l'esatto contrario di ciò che serve per mandare avanti questa società.”
“È un modo per dire che sono... sbagliata?”
“È un modo per dire che mi hai incuriosita. In generale, chi si comporta come te è un reietto, si allontana dal mondo e cerca di non farsi trovare. Tu sei sempre in mezzo ad ogni disastro, ad ogni incidente, ad ogni maledetta stranezza o bizzarria che avviene in questa stupida città! Trovarti è fin troppo semplice, quindi delle due l'una: o sei autolesionista e ti piace essere additata come una stupida parassita oppure hai qualcosa... di diverso.”
“In effetti... io ho qualcosa di diverso.”
Si portò le mani dietro la testa, ruotando come una trottola.
“Qualcosa di banale. Fra un mese – forse meno – me ne andrò, non vedrò più né te, né questo posto. E non potrò più farvi ritorno.”
Sospirò lievemente, come per interrompere il filo del discorso. La sua voce assunse toni malinconici.
“Sto solo cercando di raccogliere più immagini possibili nel mio cuore, nella mia anima, per non dimenticare, una volta che sarò svanita dalla tua vita, dalla vita di questa città, di tutti coloro che ci abitano. Chissà se il salumiere si ricorderà ancora di me?”
“Può darsi.”
“Tu non capisci, non è così?”
“No.”
“Chiaro. Nessuno può capirmi... e io non posso esprimermi meglio. Il problema, il nucleo, è tutto qui. La finitezza delle parole. Quando assapori l'infinito, l'inspiegabile, non sei più in grado di tornare indietro. Ma, prima di venirne a contatto, forse sì. Io non l'ho ancora fatto, mi sono tenuta lontana apposta. Avrò fatto bene?”
Stava piangendo, ma non erano lacrime di gioia. Rassegnazione? Forse. Con Cassie non c'era mai nulla di definito. Un mese aveva detto...
Così presto?
Avrebbe dovuto affrettare i tempi, dunque. Un mese non sarebbe stato sufficiente.
Arianna si tolse nervosamente gli occhiali e li ripose in una tasca della sua divisa universitaria. Doveva chiederglielo, non c'era più tempo, doveva farlo.
Ma è proprio in questi istanti che ti manca il coraggio, vero?
Rimase in silenzio, a lungo, poi estrasse nuovamente gli occhiali e li inforcò con un unico gesto.
No, non è ancora il momento.
“Io vado, Ary. Devo trovare qualcuno a cui raccontare la mia serata di ieri senza che si scandalizzi. Tu sei troppo... giusta, ecco. Troppo controllata, repressa. Se ti dicessi cos'è successo, probabilmente...”
Cassie fece il segno delle virgolette con le dita di entrambe le mani, prima di esibirsi in una linguaccia.
“... vomiteresti, come quella volta! O sverresti dalla vergogna... o qualcosa del genere. Liberati un po' di più di te stessa, okay? Ciao, ciao!”
Camminò, accelerò il passo, iniziò a correre, sempre più veloce, sempre più lontana.
Arianna rimase lì, rigida come uno stoccafisso.
Le era mancato il coraggio di fermarla, di dirle No, aspetta! Fermati un attimo!
Le era mancato il coraggio di porle quella domanda, quella stupida domanda che si portava dentro da quando l'aveva conosciuta.
Sospirò con disappunto.
Pazienza, avrò un'altra occasione. Un mese è un tempo lungo, abbastanza lungo da darmi una seconda possibilità.
No, non era vero.
L'occasione giusta era appena sfumata.
Ricerca
Svegliarsi è forse una delle sensazioni più orribili.
Nei sogni viviamo un'altra realtà, esteticamente più raffinata e libera dai vincoli.
Il mondo dei sogni non è il nostro mondo, segue altre regole, più intime e nascoste.
Quando ce ne rendiamo conto, il sogno diventa il nostro impero, la nostra via.
Nei sogni puoi volare, uccidere, amare, senza rimorsi, senza rimpianti.
Il mondo si piega al nostro volere, percepisce i nostri pensieri e vive delle nostre emozioni.
È una simbiosi potente, inspiegabile.
Noi siamo parte del sogno e il sogno stesso è parte di noi.
È un rapporto duplice e mutevole: il mondo onirico non può vivere senza di noi, noi non possiamo prescindere dal mondo onirico.
Quando sogniamo, interagiamo col campo intrinseco della natura, con la sua struttura fine, la sua energia sottile.
Il sogno è il portale per un altro mondo, per un'altra vita.
Nei sogni noi possiamo ricostruire l'intimo contatto con la nostra madre perduta e nascosta, una madre che noi non vediamo, ma siamo in grado di percepire.
La ragione deve inchinarsi di fronte a tutto ciò, deve chinare il capo ed attendere pazientemente il proprio turno: la veglia.
Ahimè, qui si sviluppa il paradosso! Io vorrei trascorrere la mia vita nel sogno e guidare gli altri verso questa meta infinitamente vicina e lontana allo stesso tempo... ma per farlo devo rimanere sveglio, devo impedire ai miei sensi, al mio intelletto di assopirsi.
Devo trasmettere ciò che so ed apprendere ciò che ancora non so, altrimenti il mio sforzo sarà stato vano. Solo quando tutti gli altri si saranno addormentati per sempre, io potrò aggiungermi alla schiera dei sognanti, a mia volta... per non risvegliarmi mai più.”
**
Chiuse il libro.
Sognare è bello, è certamente bellissimo... ma risvegliarsi lo è altrettanto, specie se eri sicuro di non poterlo più fare.
Chi era l'autore? Un inetto che probabilmente non era in grado di reagire alla realtà.
Però il contenuto latente del libro era interessante. Nelle righe, nelle parole era celato un messaggio, un messaggio potente ma allo stesso tempo rassicurante. Il campo intrinseco della natura, un modo per interagire col mondo, con la sua intimità.
I druidi celtici, gli stregoni medievali... forse erano solo persone in grado di comunicare col mondo e sfruttare il tessuto stesso della realtà per deformarla a proprio piacimento.
In fondo, in un universo olografico basta cambiare un paio di zeri e uni nella matrice di proiezione per trasformare ciò che ci circonda, no?
Francesco lasciò una banconota da venti al venditore ambulante e si allontanò col volume in mano. Perché l'aveva acquistato? Uno con la sua abilità dialettica avrebbe potuto convincere facilmente il commerciante a regalarglielo. Scrollò le spalle. Il libro valeva il prezzo pagato, tutto lì.
Puoi avere gratis solo quello che effettivamente non merita uno spreco di denaro, come le sue bambole.
La scelta non era casuale, esisteva un sottile filo conduttore tra gli esemplari della sua collezione. Un filo che dipendeva tutto dalla personalità dominante, in quel momento. Il vecchio Francesco era abituato a scegliere, scegliere per lei, la signorina.
Come si chiamava?
Si fermò a pensarci per un po', senza troppa convinzione.
Buffo, non riusciva a focalizzarne il nome. Il suo aspetto, le sue azioni erano vividamente impresse nella mente, ma per quanto riguardava quel piccolo, trascurabile dettaglio...
Già, già. Meglio lasciar perdere.
Si guardò attorno, in cerca di una possibile preda.
Non sembrava esserci nulla di particolarmente indicato.
Sospirò rumorosamente, si ricompose. Un servitore solerte non può permettersi di prodursi in azioni di così bassa lega, quali lamentarsi del proprio compito o... no, no! Cosa stai dicendo, pezzo di imbecille? Quei tempi sono trascorsi, andati! E tanti saluti alla tua deontologia professionale! Sei qui per goderti quello che non hai potuto avere alla tua prima occasione!
Non era semplice separarsi da se stessi. Se per dieci anni ti sei atteggiato in un determinato modo, come fai a cambiare di punto in bianco?
Devi morire.
Fatto. Quindi ora posso cambiare?
No, devi.
Chiaro.
Il vento si fece più forte. Francesco portò la sciarpa a coprire il viso e si calò il cappello sugli occhi. Sembrava quasi che la brezza gli fosse ostile, che desiderasse respingerlo con tutte le sue energie. Era il caso di andarsene?
No, devi scegliere.
Chi lo dice?
Tu l'hai detto. Io te lo sto solo ricordando.
Ah, già. E tu chi sei?
Chi altri se non te stesso?
Già, già.
Procedette controvento, come per sfidare la natura stessa, per farla sua e dominarla, come le sue bambole. Già... le bambole. Era possibile che stessero indagando su di lui, ma non sarebbero mai arrivati a nulla. Se non hai filmati e non hai immagini, se non ci sono testimoni, come fai ad accusare un libero cittadino? Perché gli era tornato in mente?
Ah, sì.
Il vento gli aveva portato un frammento di manifesto. Una foto, sopra. Una ragazza di diciannove anni. Bella, bella davvero. Peccato che non avesse un'anima. Era solo una volgare imitazione di una ragazza. Orgogliosa del proprio corpo, ma intellettualmente vuota. Una bella bambola da vestire e pettinare, nulla di più. Buffo pensarla adagiata su un divano, a casa sua, con lo sguardo perso nel vuoto, priva di ogni contatto mentale con i propri sensi.
Ogni volta era facile, troppo facile. Mancava il gusto della sfida.
Portò lo sguardo al cielo, cercando risposte alle sue domande. Le nuvole plumbee non emisero alcun suono, rimasero ferme, in attesa di un suo cenno, forse. Abbassò gli occhi, amareggiato. Sembrava quasi che il cielo si quietasse ogni volta che aveva bisogno di consultarlo, fornendogli solamente nuovi quesiti.
Lasciò andare il pezzo di carta e lo riconsegnò ai turbini d'aria improvvisati, assieme alla polvere, alle foglie, alle cartacce. Il manifesto danzò in aria per molto tempo prima di baciare l'asfalto.
Commovente.
Distolse la sua attenzione dai mulinelli di sudiciume, si diresse a passo svelto verso la fermata dell'autobus. Non avrebbe concluso nulla per quel pomeriggio, probabilmente.
Pazienza, ho tempo.
E dire che era una così bella giornata fino a due ore prima. Con quel vento, le ragazze erano sicuramente intabarrate in pesanti giacconi che non lasciavano nemmeno un centimetro di pelle scoperto. Come riconoscere le potenziali prede, allora?
Rifletti, Francesco. Come le riconoscevi una volta? Dai capelli, dalla corporatura, dallo sguardo. Solo che era diverso. Le cercavi innocenti, Francesco, ora è tutto il contrario.
Per mia scelta.
Sì, per tua scelta. Dì la verità, provavi pena.
Mentire non fa parte della mia deontologia professionale.
Ma davvero?
Sono sempre stato un servitore impeccabile, nei miei dieci anni di lavoro.
Mi risulta che il tuo lavoro sia finito.
Infatti.
Si sedette su una panchina, per riprendere fiato. Non ne aveva assolutamente bisogno, ma voleva, doveva dare una parvenza di normalità. E smettere di ingannare se stesso. Non stava cercando una preda, ma un modo per non interessarsi alla signorina.
Tergiversava, perdeva tempo. Si rifiutava di assecondare il suo istinto malato.
Nuocere alla signorina! Ah, quale dubbio atroce! Farlo o non farlo? E se sì, come evitare di incorrere in sensi di colpa?
Peccato non averne approfittato.
Il suo ultimo pensiero.
Ma lo voleva veramente?
Certo.
Allora perché girarci attorno?
Punta dritto alla meta!
Non è così semplice. Devo distrarmi.
Passò a fianco ad un vecchio cinema scalcinato. Era intitolato ad Edward D. Wood Jr., il regista noto per aver girato il peggior film della storia. Strana associazione di idee. Osservò l'edificio con attenzione. Crepe ovunque, mattoni a vista in più punti, i neon dell'insegna lampeggiavano, senza riuscire ad accendersi. Un posto del genere poteva avere sì e no cento clienti al mese, nel caso più favorevole. Non ricordava di esserci mai entrato.
Si fermò ad analizzare i cartelloni dei film in programma. Il modesto edificio aveva due sale: nella prima era in corso la proiezione di Neonlight, uno scalcinato film d'azione di qualche anno prima in cui recitavano, perlopiù, attori di bassa lega. Il lungometraggio era stato prodotto al risparmio e i risultati – artisticamente parlando – erano stati particolarmente sotto le aspettative. Però aveva incassato molto. Forse per via dell'incidente? Ma sì, era plausibile. Un'assistente di scena era morta durante le riprese e girava voce che il regista avesse lasciato nella pellicola una registrazione dell'incidente. Roba buona solo per Studio Aperto (che – come da copione – aveva colto l'occasione per trasmettere un servizio speciale di due ore sull'accaduto). L'unica nota interessante era la presenza di Nicolas Cage nel ruolo del protagonista, il sicario privo di emozioni noto come Ezequiel.
Bella scelta, non c'è che dire. Un uomo, un solo volto, una sola espressione per ogni stato d'animo. Calza a pennello con il personaggio. Però, se hanno scritturato Cage, di soldi dovevano averne parecchi.
Passò alla seconda locandina.
In primo piano una ragazza di venticinque anni circa, fasciata in un abito bianco troppo aderente e troppo corto che lasciava ben poco all'immaginazione, affiancata da un maggiordomo effeminato, vestito completamente di nero. Sullo sfondo una casa nobiliare, oscurata con un filtro nero, sulla quale capeggiava il titolo: La Magione degli Orrori. Un titolo stupido per un film probabilmente ancora più stupido. Scorse velocemente la lista degli attori. Non ne conosceva neanche uno. Evidentemente, era il classico film di serie Z, a metà tra l'horror e il porno. Eppure... c'era qualcosa che non quadrava. La villa, il maggiordomo, la giovane... troppi elementi in comune. Strano, molto strano. Forse addirittura troppo, per essere vero. C'era solo un modo per sincerarsene.
Entrò nel vecchio cinema e raggiunse la cassa.
Una vecchia lo fissò con occhi spenti, al di là di un vetro incrinato. Notandolo, si sforzò di sorridere, mostrando i suoi denti mancanti, coperti solo in parte da labbra screpolate e ritoccate alla meno peggio con una sottomarca di rossetto.
Francesco non se ne curò minimamente, limitandosi a sfoderare il suo tono più cortese e suadente.
“Un biglietto per La Magione degli Orrori, per favore.”
“In cerca di emozioni forti, giovanotto?”
“L'ha già visto?”
“Solo la locandina. Non mi ispira per niente. Il maggiordomo sembra gay, però la protagonista è ben fornita. Per voi uomini direi che è a posto, avrete qualcuno per cui sbavare per i prossimi novanta minuti.”
Francesco scrollò le spalle.
“Questione di gusti.”
“Il film inizia tra poco... sala due. Mi faccia sapere com'è.”
“Non mancherò, milady.”
Francesco si esibì nel suo miglior inchino, prese i biglietti dalla mano nodosa della cassiera e si diresse alla volta della sala. Forse aveva sprecato i suoi soldi, ma non era importante. Un dubbio è un dubbio e finché non te lo sei tolto non riesci a vivere tranquillo.
Vivere? No, quel verbo non era adatto alla sua situazione corrente, meglio ripiegare su un più tranquillo esistere.
La maschera, un uomo alto, scheletrico con la faccia squadrata, contornata da un cappellino ridicolo, strappò il biglietto e gli mostrò il suo posto. C'erano solo altre sei persone: due nerd con gli occhialoni che magari speravano di vederla per la prima volta, una specie di critico improvvisato, con tanto di taccuino alla mano, una ragazza che masticava una gomma con noncuranza e due uomini privi di qualunque apparente affinità. Uno dei due indossava una maglia con l'effigie di Freddy Krueger. Magari sperava in uno splatter, di quelli con morti sanguinolente ai limiti della decenza. Francesco si tolse il cappello e si mise a sedere. Non si aspettava granché, ma tanto valeva godersi lo spettacolo. In caso non fosse stato di suo gradimento, avrebbe rimediato acquisendo un nuovo pezzo per la sua collezione. La masticacicche sembrava adatta allo scopo. Doveva solo aspettare la fine del film... ma no, non era ancora il caso di curarsene, non in quel momento.
Avrebbe avuto ben novanta minuti per riflettere con calma.
Le luci si spensero e, dopo le consuete, interminabili pubblicità, i titoli di testa fecero capolino.
Francesco registrò accuratamente le immagini sulla retina, in modo da non perdere neppure un minuscolo, insignificante dettaglio. Un lungometraggio di produzione italiana, realizzato con soldi interamente privati basato su una storia vera. Un campanello d'allarme risuonò nella sua mente.
“Che tipo di storia vera?”
“Forse se stai zitto lo scopriamo tutti, idiota!”
Uno degli uomini alle sue spalle lo aveva apostrofato in modo volgare. Strinse il pugno. Era tutta colpa sua, non era riuscito a non esprimere i suoi dubbi. Una macchia indelebile sul curriculum di un... no, no! Il passato è passato. Basta! Basta!
La proiezione entrò nel vivo. La giovane della locandina era una figlia di buona famiglia, viziata e coccolata dal maggiordomo e dai genitori. Dopo appena quindici minuti, si poteva assistere ad una tremenda scena di sesso incestuoso tra lei e il padre, pensata male e girata peggio.
Francesco sprofondò nella poltrona, tranquillizzato da quelle immagini, fondamentalmente innocue.
Poi il colpo di scena: i genitori muoiono e la signorina rimane sola con il suo maggiordomo. Altra scena esplicita?
No, non stavolta.
Francesco alzò la testa.
La signorina piange, si avvicina al maggiordomo, gli confida lo stupro subito dal padre e gli dice di essere...
“Ma che ca...”
“Zitto!”
“Facci sentire!”
Si stropicciò gli occhi, tese i padiglioni auricolari, per captare quante più informazioni possibile.
Non è possibile...
Il maggiordomo la ascolta la consola e...
No! No!
Francesco fu colto da una tremenda sensazione di oppressione. Fece per alzarsi, ma la sua mente lo costrinse a resistere. Fino a quel momento poteva essere stata tutta una stupida serie di coincidenze. Doveva andare oltre. Rimase immobile, in trepidante attesa, con gli occhi sbarrati per tutta la durata della proiezione.
L'uomo con la maglia di Freddy Krueger doveva essersi divertito parecchio, specie durante la seconda parte. I due nerd stavano discutendo animatamente sui dettagli anatomici della protagonista, raccolti con avidità durante le frequenti scene di nudo integrale. Il critico sembrava soddisfatto del materiale raccolto, mentre l'altro uomo sembrava particolarmente deluso.
“Ho buttato i soldi nel cesso, ca...!”
La masticacicche pareva appagata dallo spettacolo, l'espressione del suo volto tradiva una certa soddisfazione. Francesco uscì a fatica dalla sala. Era annichilito. Chiunque avesse girato quel film, sapeva la verità, tutta la verità.
Quindi... la vicenda è emersa? È di dominio pubblico? Oppure, solo lo sceneggiatore ne è a conoscenza?
Doveva effettuare qualche ricerca, doveva farlo se voleva avere una qualche possibilità di ritrovarla. Tutto quadrava, purtroppo. La storia del film era la sua storia, pur annegata in un mare di scene equivoche e di dubbio gusto. Avrebbe potuto contattare la produzione, quello sì. Vista la qualità della pellicola, era probabile che la sceneggiatura fosse stata artefatta in modo da renderla appetibile a qualche scalcinata casa cinematografica di quinto ordine. Una vicenda così cupa non poteva incontrare il favore di un largo pubblico, per renderla accettabile avevano sicuramente aggiunto i mostri, tutte quelle scene di sesso e l'incesto iniziale, giusto per renderlo ancora più scandaloso e fornire ai giornali un po' di materiale con cui imbastire improbabili speciali.
“Com'era il film?”
La vecchia alla cassa?
“Mi sembri un po' pallido. Ti ha scioccato?”
“Quando è entrato in programmazione?”
L'anziana donna ci pensò su un attimo.
“Direi sei giorni fa, ma conta che il nostro è un cinema vecchio. Da noi i film nuovi arrivano in ritardo. Questo avrà sì e no un mese.”
Un mese non era poi così tanto. Sarebbe stato facile trovare informazioni fresche.
Bene, molto bene.
“Grazie mille. È stata gentilissima.”
Francesco si esibì in un baciamano da manuale.
“Ah, comunque le sconsiglio la visione di suddetto lungometraggio. È robaccia per adolescenti affamati. Riservi i suoi risparmi per qualcosa di più interessante.”
Salutò cordialmente con un bell'inchino – non il migliore, ma quasi – e uscì dalla porta principale. Aveva una traccia, una traccia insperata.
Ma, in fondo, c'era ancora tempo. Poteva divertirsi un po', rilassarsi forse. Magari dedicarsi ad un'attività costruttiva.
Per esempio, adescare la masticacicche.
KarAshÒ!
“Ecco, osserva bene... questa è l'ultima ripresa che abbiamo.”
“Non sembra particolarmente buona.”
“No, infatti. È la telecamera di sorveglianza all'angolo col cinema Ed Wood”
“Quel vecchio postaccio scalcinato? È ancora aperto?”
“Evidentemente sì. Vedi? Doveva essere la fine della proiezione. Passano due ragazzi, un tizio allampanato, due uomini... e la nostra scomparsa.”
“Una bella ragazza...”
“Come le ultime dieci.”
“Non mi dirai che...”
“Stessa modalità. Osserva attentamente.”
“Vedo solo la ragazza che cammina.”
“Zitto e aspetta due secondi.”
“Cosa dovrei aspettare?”
“Ora.”
“Ma cosa... si è girata, come se l'avessero chiamata?!”
“Non c'è nessun altro. La telecamera all'altro angolo lo conferma.”
“Già, già. Sembra quasi che si sia accorta di aver dimenticato qualcosa nel cinema.”
“Dici? Secondo me è diverso. Guarda, le è pure caduta la borsa.”
“E non ha fatto nulla per raccoglierla.”
“No, infatti.”
“Sembra in trance.”
“Non possiamo capirlo. L'immagine è troppo sgranata.”
“Abbiamo a che fare con un ipnotizzatore, quindi?”
“Solo se credi nell'ipnosi a distanza.”
Il commissario allungò la mano e indicò un particolare sullo schermo.
“Vedi? Non c'è nessuno nell'arco di cento metri. A meno che non sia un metodo ipnotico basato sull'etere, questa ipotesi non è valida.”
“Allora? Cosa concludiamo? Allontanamento volontario?”
“Come gli altri dieci.”
Il commissario posò la sigaretta elettronica e si grattò il mento. Un caso del genere non era mai stato posto alla sua attenzione. Dieci – anzi undici – ragazze spariscono nel nulla senza lasciare tracce, senza testimoni. Sempre lo stesso copione: la vittima passeggia tranquilla, ad un certo punto si volta come se fosse chiamata, si ferma improvvisamente, lascia perdere quello che stava facendo e cammina in direzione della voce – o presunta tale. Perché nulla lascia presupporre che ci sia effettivamente qualcun altro, nei paraggi. Un rapimento non rapimento. Brutta gatta da pelare, forse la peggiore da quando era ritornato in Italia. Richiamò il suo collaboratore con un cenno della mano.
“Mostrami di nuovo la scena, Angelo.”
L'ispettore premette un tasto sul display, riavvolgendo il nastro. La ragazza camminò nuovamente sugli schermi, si voltò, si fermò e uscì dall'inquadratura. Tutto come da copione. Niente di nuovo, niente di più di tutti gli altri casi. No, forse a ben vedere, qualcosa di diverso c'era, quella volta: il cinema. La giovane era sparita nei pressi di un cinema. C'era una buona probabilità che avesse assistito ad uno degli spettacoli.
Il commissario mugugnò qualcosa in un russo molto stretto, sporcato da influenze piemontesi mai del tutto dimenticate.
“Angelo, l'abbiamo mandata una pattuglia ad interrogare il personale dell'Ed Wood, sì?”
L'ispettore annuì.
“Puoi anche usarle le parole, non è che perché sono straniero non ti capisco. Sono nato qui, dopotutto... e poi sono quasi quattro anni che ho lasciato la Russia.”
Quattro anni in cui ho rimediato una benda sull'occhio destro e una sigaretta elettronica a sostituire la mia amata pipa, ma pazienza.
“Qual è il responso?”
“La ragazza era uscita da poco più di due minuti. Aveva appena terminato di assistere alla proiezione de La Magione degli Orrori, assieme ad altre sei persone.”
“Che avete già interrogato.”
“Che abbiamo già interrogato.”
“Tutte?”
“Non siamo riusciti a rintracciarne una.”
“Quale di quelle nel video?”
“Non compare nel video. È un giovane di trent'anni circa. La cassiera ce l'ha descritto con precisione. Non è riuscita a cogliere molti particolari del suo volto, purtroppo. È entrato coperto da una sciarpa pesante, è uscito allo stesso modo. La maschera ha detto di non essere fisionomista. Se non avessimo insistito, non si sarebbe ricordato nemmeno della ragazza. Abbiamo dovuto torchiarlo.”
“Chiaro.”
Anzi, no. Però qualcosa si poteva ricavare anche da quelle informazioni scarne e frammentarie.
“Qualche altro testimone?”
“Nessuno, l'ha detto anche lei...”
“Non mi sono spiegato bene. Qualche testimone che abbia visto il nostro misterioso amico prima che entrasse in quella topaia?”
“Non abbiamo verificato.”
“Cosa aspettate, allora? Che ve lo dica io? Forza, forza!”
L'ispettore gli lanciò un'occhiata tremenda.
“Sarà una faticaccia.”
“Ci pagano per questo.”
Il commissario portò la sigaretta alla bocca ed inspirò. Giochicchiò con i suoi capelli rossicci, annodandoli e rilasciandoli, senza un preciso motivo. Si grattò la benda con fare distratto, poi espirò con forza, esalando una densa nube di fumo biancastro.
“Quando pensi di iniziare, Angelo? Per una volta che abbiamo una traccia...”
“Non potrebbe farlo lei, commissario?”
Meraviglioso! Non aspettavo altro per allontanarmi dal mio comodo ufficio. Evviva l'aria aperta!
Non l'aveva presa molto bene.
Proprio no.
Andrea Nethanienko, trentun anni. Ispettore di polizia. Una vita passata sulle scartoffie. Un analista, dicevano in giro. Aveva lavorato per sei anni negli archivi della polizia di stato a San Pietroburgo, poi aveva sentito la nostalgia di casa ed era tornato in Piemonte, per essere subito reindirizzato in un altro commissariato in Liguria, lontano dalla sua Torino.
Sì, come no... la nostalgia di casa.
Una bella scusa per giustificare il trasferimento. Perlomeno, era servita allo scopo.
“Perché dovrei, Angelo? Io sono il tuo superiore, fino a prova contraria.”
Angelo si lamentò, borbottando qualcosa nel dialetto locale, poi si diresse verso l'uscita. Il commissario lo fermò.
“Solo una cosa. Come hai detto che si chiama, il film?”
“La Magione degli Orrori.”
“L'hai già visto?”
“No, commissario.”
“Sai di cosa parla?”
“No, commissario.”
Nethanienko si esibì in un cenno istintivo con la mano sinistra. L'ispettore lo interpretò come un vada via prima che mi girino e lo prese alla lettera. Chiuse la porta e lo lasciò da solo. Nethanienko si grattò nuovamente la benda. Non era decorativa, aveva perso un occhio a seguito di un'esplosione, qualche mese prima. Aveva perso anche un agente, in quell'occasione.
Scirea... poveraccio.
Era saltato su una mina, un residuo della seconda guerra mondiale, probabilmente. Una scena orribile, viscere e sangue ovunque, come nei peggiori film sul Vietnam. Solo dopo si era reso conto di aver perso anche l'occhio destro. Sul momento non ci aveva fatto caso, era troppo intento ad essere terrorizzato. Dov'era accaduto, più? Nei pressi di un vecchio casolare di campagna? Sì, qualcosa del genere. Dopo l'incidente, col metal detector ne avevano trovate almeno un centinaio di mine. Un bel campo minato rimasto intatto da più di sessant'anni. Una coincidenza, certamente. Ad occhio e croce, quella zona era disabitata dal quaranta o giù di lì.
Era improbabile, ma plausibile.
Non era il caso di bonificarla, comunque: l'amministrazione pubblica avrebbe speso troppo denaro. Perché pagare sei squadre di artificieri quando puoi semplicemente recintare il podere con un bel nastro di plastica rosso a bande bianche intervallato da segnali di pericolo? Semplice ed economico. Magari lo fossero stati anche gli antistaminici che doveva prendere ogni santa primavera. Uno dei due motivi per cui non lasciava mai il centro città era l'allergia a pressoché qualunque tipo di polline esistente. L'altro era più stupido, un pensiero fisso a cui era incapace di sottrarsi. E se, passeggiando in campagna, avesse calpestato una mina? Sarebbe volato in cielo come Scirea? La probabilità di imbattersi in un altro campo minato nelle vicinanze era pressoché nulla, gli avevano detto.
Certo, andatelo a spiegare a Scirea. Anche per lui la probabilità di saltare su una mina a venti chilometri dal centro era praticamente zero.
Però è successo. Eh, già.
Crudele la vita, non trovi?
Scosse la testa.
Stava iniziando a sentire delle voci nella sua mente, voci che dialogavano con il suo io ponendogli decine di domande inutili. Ci era abituato, ma non era quello il momento giusto per occuparsene. Risistemò le foto sulla scrivania, prestando attenzione a non rovinarne le cornici. Ne prese una e la contemplò, ammirato. Risaliva al periodo in cui aveva lavorato in Russia. Gliel'avevano inviata i suoi genitori per il compleanno. Ritraeva sua sorella, travestita da cappellaio matto. Era simpatica, con quel buffo cilindro aperto sulla sommità, posato trionfalmente su una cascata di capelli rossi lunghi fino alle spalle. Le maniche del giaccone erano troppo lunghe e sbordavano, coprendo completamente le mani, ma lei continuava a sorridere. Già... un sorriso a trentadue denti, corredato da un occhiolino di intesa. Nethanienko accarezzò il volto della ragazza, poi ripose la fotografia e si diresse verso la porta del suo ufficio.
Da dove iniziamo?
Beh, tanto per cominciare è necessario ricostruire il profilo psicologico della vittima e del sospetto rapitore.
Cos'hanno in comune?
Hanno assistito allo stesso film.
Quindi?
Quel film doveva interessare entrambi.
Non è possibile che l'aggressore (o presunto tale) l'abbia solo seguita?
No, stando ai rapporti e alle registrazioni. La vittima è entrata mezz'ora prima, il sospetto non compare in alcuna registrazione delle telecamere nelle vicinanze.
Dunque?
Si va a vedere quel maledetto lungometraggio. È l'unico modo per raccogliere informazioni su entrambi.
Sono d'accordo.
Anch'io.
Nethanienko abbozzò un sorriso. In fondo, non era troppo fastidioso sentire quelle voci. Ci andava d'accordo, lo aiutavano a formulare ipotesi. Più di una volta gli avevano chiarito dei dubbi. In verità, era convinto che si trattasse solo un fenomeno di autosuggestione. Non credeva nel sovrannaturale, era ateo e razionalista... ma sulle voci chiudeva un occhio – quello che gli era rimasto. Le vedeva come una sorta di innocua emanazione della sua stessa psiche.
Avrebbe avuto tutto il tempo di ricredersi.
GRIDAREEEEE!
Cassie era seduta sulla riva del torrente, come al solito. A quell'ora, il sole rischiarava solamente una parte del letto asciutto e arido del fiumiciattolo, lasciando il resto nell'ombra, al buio, al freddo. Un posticino tranquillo, per passare il tempo. Qualche pozzanghera qua e là, un rivolo d'acqua fresca al centro di un deserto di sabbia, piante selvatiche un po' ovunque, anatre starnazzanti che svolazzavano in cerca di un punto abbastanza profondo da inumidire le piume... cosa si poteva volere di più? Un po' di compagnia, forse?
Forse sì.
Cassie rimase in silenzio ad ascoltare i rumori della città, quei rumori di cui non poteva fare a meno. Era stata dura resistere, immersa in quel silenzio irreale. C'era da perderci la ragione. Nessun brusio, nessun suono di sottofondo.
Solo ed esclusivamente silenzio.
Anche il vento si rifiutava di soffiare, il vento mai fermo, onnipresente. Un inferno. Ma era passato, tutto passato. Almeno per un po'. Si stiracchiò, poi si strinse tra le braccia.
Non è il modo corretto di trascorrere la mia giornata, sto sbagliando tutto. Dovrei essere in giro a scattare fotografie mentali del luogo, per non dimenticarlo, per renderlo parte di me... per sostituire ciò che ho perso.
Sì, aveva perso qualcosa, qualcosa di importante. Si sentiva vuota, completamente vuota. Un guscio? No, non esattamente. Era... difficile da spiegare. Avrebbe voluto piangere, ridere, tacere, urlare, gridare.
“YAHOOOO!”
Un urlo liberatorio, nel silenzio. Le anatre voltarono la testa verso di lei. Alcune volarono via, spaventate.
“Qui sto solo perdendo tempo. Perché non me ne vado?”
Perché questa è casa mia.
La risposta che non ti aspetti.
Un turbine improvviso la riportò alla realtà. Il maestrale le scompigliò i capelli e increspò la sua maglia a righe orizzontali. Stava giocando con lei, la stava spingendo a reagire. Quel vento, quello stesso vento che non era stata in grado di percepire per troppo, troppo tempo. Un vento di vita, di speranza, di gioia, di dolore, di disperazione, di morte. Un tutt'uno, duplice e mutevole, bellissimo.
Splendido!
E, nella sua mente, l'acqua riprese a scorrere, inondando il letto asciutto, sommergendo le piante, le anatre, lei stessa, lavando via l'ansia, i problemi, le preoccupazioni. L'acqua frizzava, traboccava, formava cavalloni, onde lunghe, corte, brevi, infinitesime, innaffiava ogni angolo della sua esistenza, le inzuppava i vestiti, i capelli, entrava in contatto col suo corpo, le scorreva addosso, solleticava i suoi sensi, risvegliando sensazioni dimenticate. Miriadi di profumi, di fragranze la avvolsero, generando una minuscola nicchia in cui rintanarsi, in cui ritrovare il calore, l'amore, un contatto con se stessa.
Riaprì gli occhi.
Il sogno si dissolse in un attimo, lasciando spazio all'arido presente. Sospirò, abbassò le braccia, delusa. Quell'estasi era durata meno di un attimo, un insignificante, interminabile secondo. Tornò sui suoi passi e si diresse verso il ponte. Il torrente era quasi sempre in secca, fino alle prossime piogge non le avrebbe dato fastidio.
Meglio così.
Entrò nella sua casa improvvisata: un'amaca stesa tra un chiodo sporgente dal plinto di cemento armato e un arbusto spontaneo, sufficientemente alto e distante da servire allo scopo; un piccolo comodino improvvisato, costruito con legnacci recuperati alla foce; due mensoline, fissate alla parete in modo precario, riempite con la roba più disparata; uno scaffale, rimediato da una farmacia che aveva appena rinnovato il mobilio. Erano stati ben felici di regalarle quell'ingombrante seccatura, tanto a loro non serviva più. L'unico problema era stato trasportarla fino al suo minuscolo scrigno di vita senza che la gente si facesse troppe domande.
Rise divertita. Era stata un faticaccia, ma c'era riuscita.
Roteò su se stessa tre volte, accarezzando tutto il suo mondo con lo sguardo. Era una bella casa, in fondo: comoda, accogliente, riparava anche dalla pioggia, in lontananza poteva ammirare il mare ed ascoltarne il dolce respiro. Certe volte era un po' umida, ma era difficile che il livello dell'acqua salisse di più di una decina di centimetri. Si raggomitolò sull'amaca, dopo aver preso un libro dalla mensola. Che libro? Uno a caso. Glieli regalavano dei simpatici anziani che gestivano una piccola libreria. Ogni tanto passava a dar loro una mano e, in cambio, riceveva un romanzo o un saggio, di quelli che vendevano poco, magari fermi da anni sui banconi, con il prezzo ancora in lire. Non era importante. Un libro era sempre un libro, e leggere era sempre un piacere, anche quando il romanzo non era altro che una serie interminabile di scene equivoche o un mattone assoluto di antropologia comparata. Osservò la copertina di quello che aveva liberato dalla polvere. Sembrava piuttosto vecchio e logoro, ma qual era il problema? Un libro si giudica dal contenuto.
“La verità nel sonno. Un saggio di Leòn Correo.”
Lo sfogliò velocemente, ci giocò per un attimo, poi lo ripose. Non era dell'umore adatto, al momento. Si mise a sedere sull'amaca ed infilò le scarpe sgualcite. La divertiva molto ricordare che la destra e la sinistra avevano numeri diversi, una era più lunga di circa un centimetro. Anche quelle erano un regalo, un regalo da poco, ma per lei significavano molto. Un articolo difettoso di cui i commercianti non vedono l'ora di liberarsi poteva diventare parte del suo mondo con una facilità impressionante. Era il suo hobby: collezionava oggetti imperfetti, abbandonati ai margini della strada o buttati in qualche bidone dell'immondizia. La sua raccolta contava una dozzina di esemplari, compresi gli abiti che indossava: una bambola senza il braccio destro, un paio di forbici prive di perno, un orologio che andava all'indietro, una penna stilografica con la punta rotta, una Bibbia stampata al contrario, un paio di scarpe con numeri diversi, calze spaiate, jeans strappati rattoppati malamente da una commessa che non conosceva il modello, una maglia a righe con una manica più lunga dell'altra, una maglietta bianca un po' troppo aderente che si restringeva con l'umidità, una cintura con un buco solo – ma alla distanza giusta –, un giubbotto di pelle che non si chiudeva.
Una strana collezione, strana davvero, ma la rappresentava. Forse avrebbe dovuto cercare ancora qualcosa... e, in effetti, stava ancora cercando qualcosa.
Solo, non sapeva dove e a chi rivolgersi.
Ci pensò per un attimo.
Arianna mi ha dato il suo numero di cellulare.
Peccato che lei un cellulare non l'avesse. Però aveva molte monetine: non passava giorno che non recuperasse almeno tre euro. La gente perdeva spesso i centesimi del resto, lei non faceva altro che raccoglierli e tenerli per sé, in una teiera appoggiata sullo scaffale. La afferrò e ne estrasse alcuni ventini. Si sistemò la giacca con cautela, allacciò la cintura e lasciò il suo dolce rifugio per ributtarsi in mezzo alla folla. Aveva bisogno di una cabina telefonica, possibilmente non occupata.
Dopo essersi premurata che nessuno facesse caso a lei, salì di soppiatto la scaletta laterale che permetteva agli operai comunali di scendere l'argine del torrente.
Questo, almeno in teoria: operai non se ne vedevano da mesi. Non c'erano abbastanza soldi per controllare il ponte sul torrente. Sarebbero intervenuti solo in caso di disastro.
Una vera fortuna.
Se si fossero fatti vedere più spesso, l'avrebbero sicuramente notata e costretta a sloggiare. Avrebbero pensato ad una sorta di accampamento di fortuna di un'accattona... e avrebbero spianato tutto.
Pazienza, avrei traslocato da un'altra parte. Problemi non ce ne sono, dopotutto.
Si mosse con disinvoltura lungo la strada che costeggiava l'argine. Allungando lo sguardo, poteva osservare la corsia parallela, dall'altro lato del fiumiciattolo. Là le macchine si muovevano in verso opposto a dove si trovava lei.
Due corsie, una per andare verso i monti, una per andare al mare.
Una buona idea, almeno in teoria. Peccato che la rotonda centrale sopra al ponte rendesse la circolazione un rebus difficile da gestire. E forse chiamarlo ponte era un eufemismo: era un'enorme spianata di asfalto che ricopriva – letteralmente – tutto l'ultimo tratto del torrente, nascondendolo alla vista dei passanti.
Un altro punto a favore per me.
Allineò i suoi pensieri e li indirizzò verso l'obiettivo, la prima cabina telefonica nell'arco di cento metri. Ce n'erano un paio nei pressi del palazzo del comune, una dalle parti dell'Ed Wood, un'altra vicino alla banca. Scelse quella del cinema, era la più vicina e quasi sicuramente libera.
Si tuffò nel dedalo di carruggi e viuzze, lo sguardo fisso in avanti, come a non voler cedere alla distrazione, nemmeno per un secondo. Un ampio spiazzo illuminato la accolse tra le sue braccia, tra i suoi palazzi d'epoca dall'intonaco cadente e malandato e le piastrelle sollevate dalle ingombranti radici degli alberi circostanti. Il cinema rifletteva perfettamente lo stato trasandato dell'intero rione, svettando tra i condomini e i negozietti circostanti.
Diede un'occhiata alla facciata dell'edificio.
Ed Wood. Chi era costui?
Le era stato spiegato, una volta... ma da chi? Non riusciva a ricordarlo, quindi non doveva essere molto importante.
I film in cartellone erano gli stessi della settimana prima. Un improbabile Nicolas Cage, completamente privo di espressione, la fissava con gli occhi seminascosti da un cappellaccio nero da cowboy, affiancato da una ragazzina troppo formosa per la sua età – e per il ruolo assegnatole – con una piuma di cigno tra i capelli. Sotto di loro, a caratteri cubitali, era riportato il nome del film: Neonlight. Il sottotitolo era illeggibile dalla sua posizione, ma non aveva bisogno di avvicinarsi per sapere quale fosse, lo conosceva già. Suonava un po' come odissea di un cercatore di verità o qualcosa del genere. Lo aveva visto, quel film. La maschera era stata così gentile da permetterle di entrare a proiezione iniziata, così si era potuta godere metà del primo tempo più tutto il secondo gratis. La trama era carina, in fondo, ma i personaggi erano stereotipati al limite dell'indecenza.
Base Terra chiama Cassie! Mi senti? Non devi andare al cinema, devi chiamare Arianna. Arianna, capito?
Sì, sì, ho capito! Ora vado!
Raggiunse malinconicamente la vecchia cabina e vi entrò. Il telefono sembrava aver vissuto anni migliori. I tasti erano sbiaditi, così come gli adesivi con sopra riportate le istruzioni d'uso. Le pareti interne erano ricoperte di frasi incise con un punteruolo, frasi che variavano dalla dichiarazione d'amore alle istigazioni all'odio razziale. Cassie non ci fece caso ed infilò le monete nell'apposita fessura, una dopo l'altra. Tirò fuori dalla tasca il biglietto con il numero di Arianna e lo compose lentamente, assicurandosi di non sbagliare. Controllò le cifre due volte, poi premette il tasto di conferma e portò la cornetta all'orecchio.
Uno squillo... due squilli... tre squilli... CLICK!
“Pronto, chi è?”
“Arianna?”
“Sì sono io. Chi... aspetta un secondo! Non sarai...”
“Certo che sono Cassie! Ti sto chiamando da una cabina telefonica, quella vicino al cinema Ed Wood.”
“Cosa vuoi?”
Il tono era freddo e distaccato, quasi come se non la conoscesse.
Forse ho sbagliato momento.
“Avrei bisogno di una mano. Sto cercando due capi di abbigliamento un po' particolari... e non so dove andare. Non è che puoi darmi due dritte?”
“Dipende. Di cosa hai bisogno?”
“Per telefono è un po' lunga da spiegare. Possiamo vederci da qualche parte?”
“Aspetta un secondo...”
Un brusio di sottofondo, parole, voci, risate, scuse, frasi di circostanza. Cosa accidenti stava succedendo dall'altra parte della cornetta? Cassie udì distintamente un BIP, poi la voce di Arianna si fece più nitida.
“Okay, ho tolto il vivavoce. Scusa, ma quando mi chiamano con un numero sconosciuto, lo attivo sempre, così chi è con me può aiutarmi, in caso fosse un maniaco o un depravato. Sai, molti stupidi si divertono a scrivere il mio numero di telefono corredato con frasi oscene.”
“Tipo faccio pompe o roba del genere? Qualcuno lo ha inciso anche dentro questa cabina. Non ci avevo fatto caso, prima... cavolo!, sono le stesse dieci cifre!”
“Spero che tu stia scherzando!”
“No, ma fa lo stesso. Dove ci vediamo? E quando? Va bene davanti all'Ed Wood prima che puoi? Hai qualcosa da fare, adesso?”
“Ero in giro per compere con dei miei amici, ma ora ho finito. Ti raggiungo lì appena posso. A dopo.”
Cassie ripose il ricevitore e ritirò il resto, poi scrutinò con attenzione le scritte impresse sulla plastica che avvolgeva l'apparecchio telefonico. Il numero di Arianna compariva una sola volta, accompagnato da una descrizione piuttosto eloquente dei servizi svolti in caso di chiamata. Per quale motivo i suoi coetanei si divertivano in modi così stupidi?
Decise di non curarsene, non ne valeva la pena.
Uscendo dalla cabina le parve di scorgere un tizio particolare, con una benda sull'occhio destro. Il losco figuro era entrato nel cinema prima che lei potesse cogliere qualunque altro dettaglio.
Strano, pensavo che i pirati si fossero estinti. Magari questo qui è un nostalgico...
Sorrise divertita e si appiattì a fianco alle locandine, in attesa di Arianna.
Chissà se sarà in grado di aiutarmi?
Sotto la lente
La cassiera sbadigliò vistosamente. Rispondere alle domande degli agenti di polizia era stato più faticoso del previsto.
Chissà perché sono alla ricerca di quel giovanotto così beneducato? Cosa può aver combinato?
Scosse la testa.
I vigili urbani e i poliziotti erano particolarmente stupidi. Quando servivano non si vedevano mai in giro, quando non ce n'era bisogno comparivano immediatamente. L'unica volta che aveva lasciato l'auto in divieto di sosta si era ritrovata una multa coi fiocchi.
Per cosa l'avevano scomodata, poi? Un rapimento?
Tutte idiozie. La verità è che devono trovare un modo per dimostrare di meritare lo stipendio. Inventarsi casi è forse il metodo migliore per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Ma sì, un amico denuncia la scomparsa di un parente – meglio se giovane oppure molto anziano –, si mobilita tutto l'organico nelle ricerche, si perquisiscono i posti più disparati, si interrogano decine e decine di testimoni, poi, dopo un mese, salta fuori che il ragazzo era scappato di casa per un brutto voto oppure che l'anziano si era perso in stazione e aveva preso il treno per Milano.
Non era la prima volta che succedeva una cosa del genere, non sarebbe stata l'ultima.
Aprì il rubinetto del boccione d'acqua e riempì il bicchiere. Tutto quel parlare le aveva causato un gran mal di testa, meglio prendere un analgesico. La giornata di lavoro era ancora lunga, dopotutto. Non che staccare biglietti all'Ed Wood fosse faticoso, entravano sì e no dieci spettatori al giorno (qualcuno in più durante i fine settimana). Era solo una questione di tranquillità: se avesse sbagliato a contare i soldi, il suo datore non l'avrebbe presa molto bene.
Certo, pensa un po' te: uno ha dieci clienti al giorno e riesce a sbagliare un resto? Mi licenzierei anch'io, per un errore del genere.
Portò la pastiglia alla bocca e la ingoiò, dopo aver chiuso gli occhi. Quando gli riaprì, si trovò davanti un uomo molto particolare, di quelli che non ti riesci a dimenticare neanche se lo desideri ardentemente. Aveva circa trent'anni – quello era più che sicuro – e sembrava piuttosto in forma... ma portava una benda sull'occhio destro. Tra le labbra, una specie di cilindretto di plastica e metallo. Una sigaretta elettronica aromatizzata al non-si-sa-cosa, evidentemente. Non notò nemmeno il colore degli occhi o dei capelli, bastavano quei due particolari ad etichettarlo come un poco di buono, non come il giovanotto di qualche giorno prima. Se avesse urlato, magari, qualcuno degli agenti là fuori sarebbe corso in suo aiuto. Rimase ferma, immobile, in attesa. Il cuore le batteva a velocità folle. Cosa doveva fare?
Aspettare in silenzio, sì. Attendere che faccia lui la prima mossa.
“Un biglietto per La Magione degli Orrori.”
“Come, scusi?”
“Ma sì, per quel film che è in programmazione in sala due, quello col maggiordomo sulla locandina.”
Era un tranquillo spettatore, solo un po' eccentrico. Certo, se l'unico particolare che ricordava del manifesto era il maggiordomo, doveva essere gay. Non spettava a lei giudicare, ma con quell'aspetto...
“Dico, mi ha sentito?”
La vecchia si produsse in un cenno di assenso e gli porse un biglietto.
“Quant'è?”
“Sei euro.”
Lo strano tizio prese il portafoglio ed estrasse un pezzo da cinquanta.
“Mi dispiace, ho solo questo.”
“Non si preoccupi.”
Maledetto imbecille! Vieni qui e ti porti solo una banconota arancione? Ma vai a...
Digrignò i pochi denti rimasti. L'uomo notò quel repentino mutamento di umore e corse immediatamente ai ripari.
“Scusi, non avevo intenzione di recarle disturbo. Se ha problemi per il resto, posso farmi cambiare i soldi dal giornalaio qui di fronte. Tra quanto inizia il film?”
“Venti minuti.”
L'uomo con la benda salutò cordialmente e si diresse vero l'uscita. Che l'avesse giudicato male?
L'abito non fa il monaco, ma quello lì ha una faccia da delinquente...
Ripose la scatola di pastiglie nel cassetto e rimase in attesa. Dopo neanche un minuto, il pirata era tornato alla carica, armato di banconote di piccolo taglio.
“Sei euro, giusto? Ecco a lei.”
“Ora parliamo la stessa lingua.”
No, neanche quello era vero. L'uomo si esprimeva in un ottimo italiano, ma aveva un forte accento dell'est – dev'essere immigrato dai paesi comunisti, quelli dove c'era Stalin...
“La maschera le indicherà la sua poltrona. Vuole anche gli occhialini per la visione 3D?”
L'uomo si esibì in un sorriso forzato, rispondendo alla frecciata con un'occhiataccia.
“Se questa è la sua migliore battuta, mi è chiaro perché non abbia sfondato come cabarettista. Strana la vita, eh? A settant'anni dover ancora versare contributi per far ingrassare una misera pensione con uno stipendio da fame. Arrivederci, signora, è stata molto gentile.”
Nethanienko udì distintamente un vaffa diretto alla sua persona, mentre si allontanava dalla cassa.
Pazienza, ci sono abituato.
Forse era stato un po' scortese, ma detestava che la gente ironizzasse sul suo deficit visivo.
La verità è che la benda dà troppo nell'occhio.
Quali sono le alternative? Attaccarsi un cerottone sull'orbita destra; portare un paio di occhiali scuri solo da una lente; indossare un monocolo opaco; fasciarsi parte della testa in modo da coprire il vuoto; farsi costruire una realistica protesi in vetro.
Solo l'ultima sembrava essere applicabile, in effetti. Perché non se l'era ancora fatta impiantare?
Questioni di soldi?
No, aveva un bel po' da parte...
Scosse la testa.
Forse la causa di tutto era il suo scarso desiderio di occuparsene. Continuava a rimandare la questione a tempo indeterminato, tanto la benda era comoda e serviva allo scopo. Certo, non era esteticamente attraente, ma non si può avere tutto dalla vita.
La maschera strappò il biglietto e lo accompagnò in sala. Era un uomo alto – troppo alto – e magro – troppo magro. Ricordava la versione smilza del maggiordomo della famiglia Addams.
Il commissario varcò la soglia del locale, scrutò con cura i volti dei presenti. C'erano solo altre due persone in sala, nessuna delle quali comparsa nel filmato di sorveglianza.
Peccato.
Sarebbe stato un colpo di fortuna insperato incontrare qualcuno dei potenziali sospetti. Si sfilò la giacca e la appoggiò sulla poltrona accanto alla sua, anche se forse poltrona non era il termine corretto: le imbottiture erano scadenti, alcuni braccioli erano sdruciti, le molle si divertivano a saltare fuori all'improvviso. Non erano certo la sua idea di comodità.
Non sono qui per turismo. Me la farò andare bene.
Le luci si abbassarono e le prime pubblicità di aziende locali fecero la loro trionfale comparsa. Se non altro, la qualità dell'immagine e del sonoro era buona. Salumerie, supermercati, negozi di scarpe, pub e quant'altro. Rimase in attesa, sperando che quel supplizio durasse ancora per poco. Terminata la réclame, gli immancabili trailer di film di quarta categoria.
Nethanienko sbadigliò. La carrellata di anticipazioni sembrava non avere fine. All'improvviso, le luci si spensero e il logo della SPECTRA Movies fece la sua trionfale comparsa sullo schermo. Titoli di testa, Questo film è basato su una storia vera, campo lungo su una villa di campagna, zoomata sul cancello di ingresso e sulla scritta Collain Manor. La telecamera indugia un paio di secondi, poi raggiunge l'ingresso principale. Qui, un solerte maggiordomo, pallido come un cencio e un po' troppo effeminato, apre il portone permettendo alla cinepresa di introdursi nella villa. La veduta si sposta sulle scale, raggiunge il piano superiore, vira bruscamente verso sinistra, penetrando all'interno di una camera da letto. L'inquadratura si ferma, fissa su una ragazza in biancheria intima che si accinge a svegliarsi.
Nethanienko sospirò contrariato.
Non ci voleva molto a capire dove si sarebbe andato a parare: la protagonista era troppo scosciata e maliziosa per essere una santerellina, di sicuro si sarebbe fatta almeno metà del personale prima della fine. Rimase in attesa e seguì la vicenda, pronto al peggio.
E il peggio arrivò quasi subito.
Scene equivoche per ottanta minuti, con un parallelo in cui si mostra l'arrivo di uno sciame di quadrupedi succhiasangue che devastano la città e si dirigono verso la campagna, poi il finale con i mostri che entrano da ogni finestra, da ogni fessura, squartano il personale – il maggiordomo no, era già morto in un incidente d'auto (contro una creatura) – poi raggiungono la camera della ragazza, si avventano su di lei, la spogliano completamente, la graffiano, lei si rannicchia in un angolo, terrorizzata, i mostri si apprestano a saltarle addosso... e la scena sfuma, con una dissolvenza, sulla scritta THE END?.
Orribile, forse anche peggio. Come può avere successo un'oscenità del genere?
Il commissario si avviò all'uscita, con più domande che risposte. Ignorò completamente la cassiera e il suo sguardo di sdegno, raggiunse la strada antistante, lasciandosi dietro l'odore di chiuso e il ronzio del condizionatore.
Che tipo di persona poteva avere interesse ad assistere a quel film? Doveva tentare di ricostruire un profilo psicologico accurato.
Iniziamo dalla vittima, la scomparsa. Perché avrebbe scelto di vedere questo lungometraggio?
Un filmaccio del genere, a cominciare dalla locandina, è stato chiaramente ideato per attirare spettatori di sesso maschile, eppure la vittima era in sala e sembrava aver gradito la pellicola, stando ai riscontri. Il ventaglio delle possibilità è sufficientemente ampio: la ragazza può avere un notevole gusto per il grottesco ed il sangue – ad esempio, potrebbe essere un'ammiratrice di Tarantino o Rodriguez – oppure essere interessata alle storie morbose – incesti, stupri, delitti passionali. Ma non sono le uniche opzioni: può anche darsi che la ragazza abbia un orientamento sessuale diverso o promiscuo. In tal caso, una locandina come quella avrebbe potuto essere un elemento di interesse da non sottovalutare.
L'ultima devi scartarla. Hai letto il rapporto di Angelo?
Sì, l'ho letto. Dai profili sui social network è emersa una figura abbastanza contrastata, dedita alla seduzione seriale e all'abbandono dei potenziali amanti, dopo meno di una settimana dall'adescamento.
Detto così la fai sembrare una puttana. In termini più semplici?
Le piace cambiare partner con continuità.
Così suona un po' meglio.
Dici?
Sì. Passiamo al presunto rapitore? Che idea ti sei fatto?
Poteva essere lì per caso. Come dicevo prima, per un uomo le possibile attrattive del film erano più di una, a cominciare dal design del manifesto pubblicitario.
Tutto qui? Mi deludi...
No, aspetta, c'è dell'altro. Il discorso fatto in precedenza vale anche in questo caso: gusto per la violenza in tutte le sue forme.
E il film è addirittura tratto da una storia vera.
Sgranò l'occhio.
Tratto da una storia vera.
Quale parte della trama era ispirata ad avvenimenti realmente accaduti? Non certo il finale, gli emofagi esistevano solo nella fantasia malata dello sceneggiatore.
L'incesto iniziale? In effetti, non era così improbabile... ma no, no, troppo scontato! Non puoi costruire un film su un dramma così inflazionato.
La sezione centrale del film? Si grattò la benda. Già, la sezione centrale... era forse l'unica parte che lo avesse stupito. Sembrava costruita con precisione, nulla era lasciato al caso, a differenza del resto. Era l'unico insieme di scene veramente ben curato in tutto il lungometraggio. Sembrava quasi che non fosse stata scritta dalla stessa mano che aveva elaborato il resto.
A pensarci bene, il collegamento è evidente.
Undici vittime nel film, undici scomparse nella realtà. Tutte ragazze tra i diciassette e i venticinque anni. Tutte scomparse senza lasciare traccia.
E se il presunto criminale fosse stato a conoscenza degli eventi presi in prestito dal film?
Proviamo ad immedesimarci. Io sono il criminale, ho avuto un ruolo in un caso di qualche anno fa. Ho rapito alcune ragazze e le ho uccise. Passo davanti ad un cinema, sicuro che la verità non sia tornata a galla e vedo questa locandina – perché doveva esserci qualcosa nella locandina, qualche elemento che lo portasse a sospettare – Nel manifesto trovo riferimenti a qualcosa che solo io dovrei sapere. Ho un dubbio, temo che mi abbiano scoperto. Cosa faccio? Ovvio, guardo il film e mi sincero che sia solo una coincidenza. Si aprono solo tre strade, a questo punto: uno, il film non c'entra niente con la vicenda ed è tutto inventato di sana pianta; due, il rapitore è lo stesso individuo in cui mi sono immedesimato; tre, si tratta di persone diverse. Nel primo e nel terzo caso mi sono imbattuto in un vicolo cieco; nel secondo, c'è la concreta possibilità che indagando sul film si riesca a ricavare qualche elemento in più.
Emise un sospiro amareggiato.
Sì, come no? Quante sono le probabilità che un tizio del genere esista? È più probabile che il rapitore non sia in alcun modo collegato al lungometraggio. Certe volte mi sento quasi come se fosse qualcun altro a suggerirmi queste idee bislacche.
Gli sarebbe costato qualcosa aprire una nuova linea di indagine?
Effettivamente, no. Angelo e i suoi colleghi potevano continuare ad occuparsi dei canali standard, mentre lui avrebbe avuto strada libera per tentare l'impossibile. Allettante, come alternativa, ma fino ad un certo punto. Quali erano i fatti? Una ragazza va a vedere un film, esce e scompare. A quell'ora la zona è piuttosto affollata, ma non salta fuori nessun testimone. Dei sette spettatori, uno è la vittima, cinque sono stati ripresi dalle telecamere, dell'ultimo non si conosce nemmeno l'aspetto: si sa solo che è un uomo di circa trent'anni. Si presenta col volto parzialmente coperto da una sciarpa e il cappello calato sugli occhi, non rivela nulla su se stesso, non racconta niente di compromettente. Un gentiluomo di altri tempi, così glielo avevano descritto.
Be'... quando non sai da dove partire, ogni pista è buona.
Avrebbe iniziato consultando gli archivi, cercando elementi in comune tra il suo problema attuale, La Magione degli Orrori e alcuni vecchi casi archiviati come risolti. Forse sarebbe stata una perdita di tempo, ma in assenza di altre piste...
Si risvegliò bruscamente dal suo ragionamento, senza apparente motivo. Con la coda dell'occhio aveva notato una ragazza molto particolare, vestita in modo alternativo, che sfoggiava una folta capigliatura rossastra. Perché diavolo avrebbe dovuto interessarsene? Stava pensando a cose ben più importanti.
La ragazza corse via assieme ad un'altra giovane, molto più conformista e tradizionale. Sembravano uscite da un quadro di qualche pittore surrealista, un'accoppiata del genere era tutto tranne che normale. Estrasse la sigaretta elettronica e la portò alle labbra.
Quanto mi manca la mia pipa...
Una coltre di fumo bianco e denso raggiunse lentamente il cielo, turbinando e mulinando. Perché i suoi pensieri si erano interrotti alla vista della rossa? Gli aveva forse ricordato qualcosa o qualcuno? Rimuginò per un paio di secondi.
Ah, sì.
La risposta non si era fatta attendere, e non era delle più piacevoli.
Pazienza, non è il momento. Ho altro da fare ora.
Ripose la sigaretta in tasca e si avviò a passo lento verso la centrale di polizia.
2tto 3mendo
Arianna non poteva fare a meno di guardarsi attorno, nella segreta speranza di non incontrare nessuno di sua conoscenza. Sarebbe stato imbarazzante dover giustificare le sue frequentazioni extra-universitarie. Cassie era tutto tranne che una ragazza perbene, ligia alle regole e con un determinato ruolo nella società. Si autodefiniva uno spirito libero, privo di un preciso scopo. Una piaga, un ingranaggio difettoso in un sistema perfetto, perfettamente inquadrato. Perché cambiare? Perché prendersi tutte quelle libertà? Si sistemò gli occhiali con nervosismo.
Calma, manteniamo la calma. Mostrarsi inquieta è indecoroso.
Doveva mantenere una certa dignità, quella impostale dal suo status sociale. Gli universitari e i perdigiorno non avrebbero mai dovuto incontrarsi, erano due mondi a parte, produttività contro parassitismo, giusto contro sbagliato. Allora... perché accettare l'invito di Cassie? Era stata una sua scelta, nessuno l'aveva obbligata. No, proprio non aveva senso lamentarsi: era troppo tardi per ritrattare.
“Sei nervosa?”
“Un po'. Mi sento un pesce fuor d'acqua.”
“Capisco.”
Cassie rimase in silenzio per un attimo.
“È perché sono sbagliata, giusto? Non sono come i tuoi amici. Ti vergogni a farti vedere con me... ma nonostante tutto non riesci a farne a meno. Certo che sei strana, lo sai?”
Arianna annuì con poca convinzione. La rossa aveva centrato il punto, purtroppo.
Decise di tagliare corto.
“Cosa vuoi da me? Come posso aiutarti?”
“Devo trovare un paio di capi di abbigliamento... un po' particolari.”
“Tipo?”
“Un intimo di pelle aderente e un frustino.”
Arianna rimase allibita. Il suo volto avvampò quasi all'istante, la voce tremò, producendo parole incomprensibili, brevi frasi spezzate, congiunzioni a caso.
“Ma... ma... cioè, davvero? Cosa... io...”
Cassie le fece l'occhiolino ed iniziò a ridere sguaiatamente.
“Ci sei cascata! Volevo vedere la tua reazione.”
Arianna alzò la mano destra aperta, come per colpirla, poi si fermò. Reagire in quel modo sarebbe stato estremamente sconveniente. Sospirò, poi si ricompose.
Cassie si avvicinò, le iridi verdi a scrutare quel viso ancora paonazzo, con estremo interesse. Analizzò con attenzione le lenti sottili, il filtro tra gli occhi di Arianna e il mondo reale.
“Toglimi una curiosità... gli occhiali che porti ti servono veramente?”
“Sono riposanti. Ne ho bisogno solo quando devo leggere.”
“Perfetto! Quindi ora non ha senso indossarli!”
Glieli sfilò prima che lei potesse reagire.
“Ridammeli.”
“Hai detto che non ne hai bisogno.”
“Non ora, ma sono abituata a tenerli anche di giorno.”
“Guarda che sei più carina senza – mi piaci molto di più così! E non siamo più ai primi del novecento! Ti comporti come se l'essere umano di sesso femminile non si fosse mai emancipato! Tutta questa rigidità nel duemilatredici? Che razza di istituto frequenti? Una prigione? Dai, un po' di cambiamento non può che farti bene.”
Alzò il suo trofeo, trionfante.
“Questi li tengo io. Te li restituirò prima di tornare a casa.”
Arianna sospirò. Protestare non sarebbe servito a nulla, tanto valeva assecondarla.
“Per tua informazione, frequento uno degli istituti più seri e produttivi di questo Paese. Entrano dei bambini, ne escono dei cittadini per bene.”
“Intanto però il bambino che è entrato è morto.”
“Può darsi, ma non è importante. Non c'è bisogno di bambini di vent'anni.”
“Ma neanche di anziani di vent'anni.”
“Ti va se cambiamo argomento? Non ho voglia di discuterne.”
Cassie alzò il pollice della mano destra, in segno di assenso.
“Okay, allora torniamo alla tua prima domanda. Devo trovare un cappello a cilindro e un giaccone pesante, multicolore, con le maniche lunghe. Non importa di che qualità, anche i peggiori in assoluto, basta che soddisfino i requisiti che ti ho elencato.”
“Quanto denaro hai a disposizione?”
“Poco. Non te lo quantificare, ma direi meno di trenta euro.”
Arianna scosse il capo.
“Sei senza speranza. Come pretendi di avere tutto senza spendere nulla?”
“Dovrei farti vedere la mia casa. Ti ricrederesti.”
“Ne dubito. Mi basta notare come sei vestita. In due mesi non ti ho mai vista cambiare abito, porti sempre la stessa giacca di pelle, gli stessi jeans rattoppati, una t-shirt bianca o a righe nere... devo continuare?”
“Sono forse macchiati, sporchi?”
Arianna la sottopose ad un esame visivo molto accurato, scandagliando ogni angolo di tessuto più di una volta. Un'espressione sorpresa si impadronì dei suoi lineamenti.
“No, non lo sono. Perlomeno, io macchie non ne ho viste. Hai solo quella roba lì?”
“Più o meno. Da parte ho solo un po' di intimo, una maglietta di ricambio e un paio di shorts, con cui ovviamente non posso andare in giro – te la immagini la scena?”
Arianna sgranò gli occhi. C'era qualcosa di contrastante tra l'ultima affermazione e l'analisi visivo-olfattiva.
“Non hanno un cattivo odore... e neppure tu. Hai un buon profumo. Come...”
“Una domanda per volta. La risposta alla prima è molto semplice: lavanderie a gettone. Una volta alla settimana metto i miei capi in una di quelle lavasciugatrici automatiche, così sono a posto. Mentre aspetto, indosso gli shorts e l'altra maglia. Ovviamente, qualche volta lavo anche loro, però è più semplice, dato che ho i jeans.”
Arianna non riuscì a non immaginarsi la scena. Cassie in maglietta bianca, pantaloncini cortissimi, a piedi nudi, seduta davanti ad una lavatrice ad osservare con interesse la centrifuga del cestello, seguendone la rotazione con la testa. Le sfuggì un sorriso divertito. Cassie sorrise a sua volta. Era strano poter notare un'espressione così genuina sul volto costruito di Arianna.
Inspirò profondamente, accingendosi a continuare.
“Per quanto riguarda l'igiene personale... beh potrà sembrarti strano, ma mi lavo tutti i giorni. Non troppo lontano da casa mia c'è la piscina comunale, e negli spogliatoi ci sono le docce. Non richiedono l'uso di una moneta, almeno, non quelle ad acqua fredda, così posso permettermele anch'io. Mi dà un fastidio tremendo sentirmi sporca. All'inizio avevo pensato al mare, poi mi sono ricordata che è particolarmente salato e inadatto a questo genere di cose.”
Arianna non riuscì a trattenere un secondo sorriso: Cassie, quatta quatta, si intrufola negli spogliatoi della piscina per fare una doccia, si sveste, entra nella cabina, apre l'acqua, poi le luci si accendono... e scopre di essere nello spogliatoio dei maschi!
Arianna scoppiò in una risata incontenibile.
Cassie la osservò perplessa, poi rise a sua volta, senza un particolare motivo per farlo. Anzi, a ben vedere, uno c'era: era riuscita, anche solo per un attimo, a frammentare il guscio di perfezione e conformismo che circondava il vero io di quella ragazza.
L'ilarità durò solo per pochi secondi. Arianna si accorse di aver perso il suo consueto contegno e ricostruì l'abituale maschera di serietà, pur con un po' di imbarazzo.
Cassie inclinò il capo verso destra, sfoderando un sorriso a trentadue denti.
“Perché tutta quest'allegria? Pensavo non fosse consona alla tua educazione.”
“Non sono riuscita a trattenermi, il film che mi sono costruita era troppo buffo.”
“Dai, ora mi hai incuriosito! Racconta un po'!”
“Ti è mai capitato di sbagliare spogliatoio, in piscina?”
Cassie portò gli occhi al cielo, fingendo di essere assorta nei suoi pensieri.
“Due, tre volte direi. Nel caso peggiore, mi sono trovata nuda davanti alla squadra di pallanuoto maschile al completo. Tutti ragazzi gentilissimi. Mi hanno invitato a prendere la mia roba e spostarmi nella stanza giusta. Un paio di loro mi hanno pure lasciato il numero di telefono.”
“Sul serio?”
“Chi può dirlo? Anche se ti dicessi di sì, ti fideresti?”
“No, ovviamente.”
“Allora siamo d'accordo, almeno su questo.”
Arianna sospirò. Sembrava sollevata, come se da tempo non avesse occasione di parlare liberamente di argomenti non prettamente scolastici.
“Posso chiederti a cosa ti servono un cilindro e un giaccone di quel tipo?”
“Mi dispiace, è un segreto. Non posso dirtelo ancora.”
Arianna tentò maldestramente di nascondere la delusione.
“O.. okay. Se ne avrai voglia, me lo racconterai. Vediamo un po'...”
Chiuse gli occhi, si tastò più volte la tempia sinistra con l'indice.
“Per quanto riguarda il cappello, l'unico negozio che tratta articoli del genere in zona potrebbe essere quella bottega cinese che ha aperto da poco. È di fronte alla biblioteca civica.”
“Allora andiamoci subito!”
Cassie le afferrò il braccio destro e la trascinò con sé prima che lei potesse anche solo riaprire le palpebre. Dieci minuti dopo, erano di fronte al Drago Variopinto – China Shop, uno scalcinato negozio di abbigliamento specializzato in capi particolari a prezzi decisamente bassi. Non era il tipico ambiente frequentato dalla buona società, ma molto probabilmente l'unico in grado di soddisfare le esigenze di Cassie.
Arianna aprì la porta, accompagnata dal suono squillante di alcuni fastidiosi campanelli.
Il titolare, un uomo di mezza età con i capelli brizzolati, gli occhi stretti e la pelle solcata da numerose rughe, alzò la mano in segno di saluto. Lasciò la cassa e si diresse lentamente verso di loro. Arianna lo squadrò per valutarne l'eventuale pericolosità. Il negoziante portava una lunga felpa rossa in cotone su un paio di pantaloni di tela di colore beige spento. Sorrideva in continuazione, come ad invogliare le due ragazze ad aprire i loro molto onorevoli portafogli.
“Dite. Posso aiutare?”
L'esito dell'analisi era chiaro. Fondamentalmente innocuo, nonostante parlasse un italiano stentato, con un fortissimo accento.
“Stiamo cercando un cappello a cilindro... o una tuba. Insomma, una cosa del genere.”
“Forse ho qualcosa. Guardo su scaffale a sinistra.”
L'uomo allungò la mano in direzione di una pesante scatola chiusa, la afferrò e la posò sul pavimento. Aprì il coperchio e ne mostrò il contenuto, trionfante.
“Parti di costumi di carnevale, in diversi colori. Spero che voi trova qualcosa di vostro gradimento.”
Cassie frugò tra i copricapi con calma, ispezionandone con cura ogni particolare. Dentro allo scatolone erano accatastate decine di cappelli di foggia e dimensioni differenti. Dopo una trentina di secondi, estrasse un cilindro nero rattoppato con pezze di colori e stoffe diverse, decorato con una bella fibbia centrale di ottone. Lo esaminò a lungo, tastandone la tesa, accarezzandone il tessuto, ad occhi chiusi, come per escludere la vista. Lo girò sottosopra tre volte, poi lo indossò.
“Come mi sta?”
Arianna la osservò da diversi angoli, avvicinandosi ed allontanandosi più volte.
“Non so... non è che hai intenzione di andare in giro conciata così?”
Cassie strizzò l'occhio.
“Anche se fosse? No, comunque no. Mi serve per fare un regalo.”
“Dovresti guardarti allo specchio, per vedere come ti sta.”
Il commerciante annuì.
“Tu desideri specchio? Io ho uno in retrobottega. Lo prendo?”
Cassie agitò la mano, scosse la testa con forza.
“Uno specchio? N... no! Non ne ho bisogno! Detesto gli specchi, mi fanno troppo grassa! No, va bene così, mi fido del tuo senso estetico!”
“Ne sei proprio sicura?”
“Sì, sì!”
“Secondo me le sta d'incanto. Glielo incarto?”
Il negoziante si fregò le mani.
“Tu lo compri, sì? Solo quattro euro. Prezzo simbolico, capo difettoso. Ho aggiunto io le toppe, era rotto, rovinato.”
Gli occhi di Cassie si illuminarono a quelle parole. Si esibì in un ampio sorriso, mise la mano in tasca e consegnò il dovuto all'uomo. Il commerciante raggiunse la cassa, premette un paio di tasti e stampò lo scontrino. Prese il cappello, lo imbustò in un sacchetto di plastica del supermercato e lo porse alla ragazza.
“Grazie mille! È stato gentilissimo!”
“Arrivederci e buona giornata.”
Cassie si produsse in un leggero inchino, poi afferrò Arianna e la trascinò fuori dal negozio. Si fermò davanti alla biblioteca, a pochi passi dal cancello di ingresso.
“Okay, la prima parte è fatta! Ora devo trovare il giaccone! Hai qualche consiglio?”
“Quanto ti è rimasto in cassa?”
“Ventiquattro euro e sessantadue centesimi.”
“Forse possiamo sperare in qualche scarto di magazzino... tanto a te va bene lo stesso, no?”
“Scherzi? Per me è quasi meglio!”
Arianna annuì pensierosa.
“Da queste parti c'è un outlet che vende capi direttamente dalla fabbrica. Qualche volta capitano dei pezzi difettosi che, generalmente, finiscono dimenticati nel retrobottega. Magari siamo fortunate.”
“Sono sicura che troverò quello che cerco. Me lo sento.”
“Vorrei averlo io il tuo ottimismo...”
Erin le Chat era un bel negozio di moda a basso prezzo, di quelli che si vedono nei film. Pulito, illuminato a giorno dalle lampade, con vetrine attraenti e ben bilanciate tra abiti da uomo e da donna. L'insegna raffigurava una ragazza con i capelli viola, le orecchie da gatto e i canini appuntiti, disegnata in puro stile manga. Arianna non c'era mai entrata prima, ma il posto godeva di buona fama. Lì, la roba costava veramente poco e non era certamente adatta a ciò che le veniva richiesto dal suo status sociale.
Se i miei compagni mi vedessero qui, con lei, chissà cosa penserebbero...
Le tremarono le gambe, per un attimo. Frequentare Cassie non era il modo migliore per evitare danni all'immagine, ne era pienamente cosciente, ma forse era l'unico modo per...
“Cosa stiamo aspettando? Rimanendo fuori non combineremo assolutamente nulla!”
Arianna si riprese in un attimo, un attimo di troppo: Cassie stava già varcando con decisione l'ingresso del negozio, tenendo stretto il cilindro fasciato nel sacchetto della Coop. Prima che potesse fare qualunque cosa, la rossa era già dentro.
La commessa la fissò ad occhi stretti. Sembrava la classica disadattata che entrava nel negozio sbagliato.
Meglio chiarire subito le cose.
“Qui maglie coi teschi non ne vendiamo, e neppure borchie. Mi sa che ci hai confuso con qualcun altro.”
“Sto cercando un giaccone a maniche lunghe, colorato – qualunque colore va bene –, possibilmente difettoso – sai, uno scarto di magazzino! Mi piacerebbe se avesse una manica più lunga dell'altra, come la t-shirt che indosso ora.”
La commessa sgranò gli occhi.
“Come, scusa? Uno scarto di magazzino? Ma sei completamente fuori?”
Il volto di Arianna divenne più rosso della luce di un semaforo. Cercò di farfugliare qualche parola per uscire dall'imbarazzo, ma Cassie la precedette.
“No, no! Assolutamente no! Il fatto è che ho poco denaro e so che spesso ai negozi arriva merce guasta che non si riesce a piazzare nemmeno a metà prezzo. Se hai qualcosa del genere, te lo compro, sul serio!”
La commessa sbuffò, rimuginando tra sé e sé.
Cos'è, un nuovo movimento di riciclatori pazzi? Va be', assecondarla non mi costa nulla.
“Un attimo, che chiedo.”
La donna si allontanò dal bancone, si diresse verso il retrobottega.
Arianna montò su tutte le furie.
“Cosa ti è saltato in mente?! Non potevi pensare un po' prima di parlare?!”
“Ho solo chiesto...”
“Non ti rendi conto che...”
La voce roca della commessa bloccò la discussione sul nascere.
“Ehi, rossa, sei fortunata. Sembra proprio che abbiamo quello che cerchi. Non ha maniche di lunghezze diverse ma non si chiude, e la cerniera non può essere sostituita. Dacci un occhio.”
Emerse dal retro del negozio con un pesante giaccone verde felpato, lo posò sul bancone con noncuranza. Cassie non se lo fece ripetere due volte, si tolse la giacca di pelle ed indossò il suo probabile acquisto. Sembrava troppo largo per lei, almeno due taglie più grande, sia come lunghezza, sia come larghezza. Le falde arrivavano sotto al ginocchio, le maniche superavano di gran lunga i polsi e coprivano quasi del tutto le mani. Cassie si rimboccò una manica, sbustò il cappello comprato in precedenza e se lo mise in testa. L'effetto era quantomeno divertente. Una ragazza minuta, esile, quasi inghiottita da un cappotto verde, completato da un cilindraccio multicolore rattoppato in più punti. Sembrava completamente sproporzionata, ma dava un'idea di tenerezza. Cassie ne sembrava entusiasta.
“Vuoi uno specchio, rossa?”
Cassie aveva le lacrime agli occhi. Sembrava quasi che stesse piangendo dalla gioia.
“No, no... va... va bene così. Lo compro, lo compro! Quant'è? Quanto volete? Te lo pago!”
“Ti posso fare quindici, di meno no. Se non lo compravi tu, rimaneva a marcire tra gli scarti ancora per qualche anno, prima di finire al macero.”
Cassie si sfilò il giaccone e indossò nuovamente i suoi indumenti abituali. Frugò nella tasca destra dei jeans ed estrasse due banconote da cinque e alcune monete.
“Ecco a te! Grazie, grazie mille di cuore!”
Pagò il capo, prese lo scontrino e, prima di andare via, baciò la commessa sulla guancia. La donna la fissò in modo strano, poi tornò alle sue mansioni, senza curarsi più di tanto di quella rossa eccentrica. Persone così se ne incontravano raramente, per fortuna.
Arianna tentò di giustificare il gesto d'affetto improvvisato a parole, ma Cassie non gliene diede tempo e uscì dal negozio agitando follemente il braccio sinistro in segno di saluto. Arianna la raggiunse fuori.
“Possibile che tu debba sempre farmi fare queste figure del cavolo? Ho un'immagine da difendere!”
“Un'immagine?”
Si fermò un momento a pensare.
“Non ti capisco. So benissimo qual è il genere di controllo a cui ti sottoponi per essere consona a quanto ti è richiesto, ma un'immagine è solo un'immagine, punto. Puoi avere paura di perderla, di rovinarla, solo se sotto l'immagine non c'è nient'altro... o c'è qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che è meglio non conoscere. Il secondo caso è il tuo, lo sento... e, quando dico che lo sento, intendo dire che è parte di me. Prima di parlarti io sapevo già molte cose su di te. Sai? Sono in intima connessione col campo della natura. La proiezione olografica della matrice di realtà mi parla, mi invia frammenti di informazione che posso leggere ed interpretare. In pratica, è come se avessi una specie di sesto senso nel riconoscere le persone, tutto qui.”
“Cosa significa? Che senso ha tutto questo discorso adesso?”
“Nessuno, ma mi faceva piacere parlartene.”
Un'immagine? Quindi sono solo una rappresentazione di me stessa? Ma no, cosa sta dicendo! L'unica, vera Arianna è... quella che sono. Non esiste, è completamente fuori!Io non mi impongo repressioni di alcun tipo. Mi piace vivere in questo modo, è la mia essenza, non una patetica imitazione di vita. Si sbaglia, si sbaglia di brutto! Io non sto fingendo, io non sto proiettando un'altra me. Io sono io, e lei non lo capisce... oppure sì?
Cassie si allontanò leggermente, allungando il passo.
“Grazie per l'aiuto, Ary. Senza di te, non ce l'avrei fatta a trovare questa roba. Ci vediamo!”
No! Non andare! Non ora! Non posso gridartelo, va contro... cioè, non posso essere così legata a te! Non ha senso! Non non posso dirlo, non posso! Dai, è il momento! Cercavi il momento giusto? Ora, forza! Devi sapere, devi sapere come fa, com'è possibile che lei... ma devo proprio? Sì. Se aspetti troppo, rischi che lei se ne vada, forse per sempre. Prendi un bel respiro e...
“Aspetta!”
Cassie si fermò, un attimo prima che pronunciasse quelle parole.
“Aspetta un momento, ti prego! C'è una cosa che volevo chiederti!”
Cassie sorrise.
“Davvero? È importante?”
“Sì, lo è!”
“Molto bene.”
Sorrise divertita.
“Ha l'aria di essere una cosa seria. Meglio spostarci in un luogo un po' più appartato. Ti va di vedere casa mia?”
PAURA: Panico, Apprensione, Urla, Remore ed Ansie
“Si sieda pure. Mi hanno detto che è da due giorni che cerca di contattarmi.”
“Precisamente.”
“Come ha detto di chiamarsi?”
“Francesco. Lei è il signor Lorenzo Furieri, giusto?”
L'uomo annuì, massaggiandosi il mento con calma e tranquillità. Francesco scrutò con attenzione lo studio, inquadrando rapidamente ogni angolo e anfratto. L'arredamento lasciava un po' a desiderare: una scrivania di truciolare al centro di una stanza di venti metri quadrati, tappezzata di locandine di film e manifesti, tutti marcati SPECTRA Movies. Furieri aveva circa sessant'anni, capelli grigi senza segnali di una incombente calvizie, baffetti ben ordinati dominati da un naso adunco, nessuna traccia di barba. Nel complesso il suo volto sembrava abbastanza curato, nonostante non facesse assolutamente nulla per nascondere le sue rughe.
Francesco diede un'occhiata ai poster: accanto a La Magione degli Orrori figuravano Qualcosa nel sottosuolo, un b-movie con dinosauri, ambientato nelle fogne di New York, La maledizione del Rubino, una sorta di pseudo Indiana Jones con attori di seconda categoria, Painscream!, il classico horror splatter con un demone che massacrava gli ignari affittuari di una casa isolata, Il Paradiso Negato, tratto da un poemetto semi-lesbo... avrebbe potuto continuare per ore, c'era abbastanza materiale da allestire un cineforum sull'argomento.
“Mi pare di capire, signor Francesco, che lei sia interessato in modo particolare a La Magione degli Orrori. Mi corregga se sbaglio.”
“No, ha assolutamente ragione.”
“Per quale motivo, se posso?”
“Prego?”
Furieri si alzò dalla sedia.
“Vede... io ho fondato questa casa di produzione quasi per gioco, per dare la possibilità a registi e sceneggiatori emergenti di realizzare la loro opera prima a basso budget. Nessuno dei lungometraggi che abbiamo prodotto è mai resistito per più di due settimane in una sala cinematografica.”
“Immagino che La Magione non faccia eccezione.”
“Precisamente. Ma, vede, quello è l'unico film di cui non abbiamo... voluto rispettare la sceneggiatura originale.”
“Prego?”
L'uomo sorrise.
“Se è così accorto come sembra, non può non averlo notato. La sezione centrale del film è molto diversa dal resto.”
“Cosa intende dire?”
Furieri raggiunse una specie di dispenser con un rubinetto e vi pose un bicchiere di vetro sotto. Svitò la rondella, permettendo al liquido trasparente di riempire il contenitore, la richiuse, prese il bicchiere e lo portò alle labbra.
“Vuole un po' d'acqua? Le assicuro che non è nociva.”
“Preferirei la risposta alla mia domanda.”
“Non si scaldi, c'è tempo. Dov'ero rimasto?”
“Alla parte centrale, quella che inizia dopo la morte di lord Collain.”
“Precisamente. La sceneggiatura è curata da un'altra mano, in quel punto.”
“Vuol dire che il nome che si legge nei titoli di coda...”
“È quello della persona che ha scritto l'inizio, il finale e ha riadattato la sezione di cui stiamo parlando per inserire le scene con le creature. Sa, se non avessimo effettuato alcuni accorgimenti, la trama sarebbe stata troppo pesante, quasi da pellicola d'autore. Non è lo stile della SPECTRA Movies, il nostro obiettivo è creare film che possano interessare un'ampia fascia del...”
Francesco strinse il bracciolo con forza.
“Chi è il vero autore?”
Furieri rimase per un attimo a bocca aperta. Non era neppure riuscito a terminare la frase. Si fermò per un secondo, il tempo necessario a ricomporsi e riprendere il filo della conversazione.
“Non ne ho idea.”
“Prego?”
“Mi lasci raccontare. Circa un anno fa, mi è arrivata una busta bianca, priva di mittente. La busta conteneva la fotocopia di un cospicuo assegno intestato alla SPECTRA Movies e un plico di un centinaio di pagine, scritte al computer. La prima era una lettera di presentazione, con allegato un contratto.”
“Un contratto?”
“L'assegno era vincolato alla produzione di un film che sviluppasse al proprio interno quell'esatta sceneggiatura, senza tagli o censure, se non nelle parti in cui era propriamente specificato. Al produttore era data libertà di alterare tutti i particolari dell'inizio e del finale, ma non di quanto scritto nei fogli successivi. Se avessi accettato, avrei dovuto inviare il contratto firmato ad un indirizzo riportato all'interno della busta.”
“L'indirizzo corrispondeva ad uno stabile?”
“Cosa? No, no. Era solo un recapito temporaneo, un autogrill sulla statale. Chiunque abbia inviato il materiale, ha sicuramente vissuto lì per un po', ma...”
“E lei ha accettato, a scatola chiusa?”
“L'assegno sarebbe bastato a coprire le spese; inoltre, il contratto non vincolava solo me a produrre il film, ma anche il misterioso committente a pagarmi. Dopo aver letto il materiale, ho deciso di provare. Devo ammettere che ho avuto i miei dubbi, molte scene erano particolarmente spinte e... cupe. La vicenda in sé è – come posso dire? – straziante.”
“La frase... tratto da una storia vera... perché l'avete inserita?”
“Ci stavo arrivando. Tre giorni dopo aver inviato il contratto tramite raccomandata – ovviamente ne avevo fatto una fotocopia – si presenta da me una giovane di circa vent'anni.”
Francesco sobbalzò sulla sedia.
“Può descrivermela?”
“Non sono molto fisionomista, ricordo solo che aveva i capelli lunghi e portava un abito bianco. Non rammento nemmeno il colore dei capelli.”
“Continui.”
“Mi salutò cordialmente, ma non mi raccontò nulla di sé. Si limitò a sorridere – un sorriso amaro, se posso permettermi – e a consegnarmi l'assegno – quello vero, questa volta – chiedendomi esplicitamente se le condizioni imposte erano accettabili. È strano, sa? Di solito gli sceneggiatori che incontro non riescono a fare a meno di prodursi in tonnellate di dettagli su come hanno avuto quell'idea, perché quella scena è stata pensata in quel modo, qual è il significato nascosto della loro opera...”
“Scusi, può divagare un po' meno? Rischio di perdere il filo.”
“Come? Ah, sì, mi scusi. Per farla breve, risposi che avrei pensato a tutto io e che per quella cifra poteva aspettarsi almeno una post-produzione decente, con effetti degni di comparire su uno schermo cinematografico, che avremmo riadattato la trama in modo da inserire alcune sequenze macabre con creature – sa che genere di film trattiamo, no? – e che forse avremmo aggiunto alcune scene esplicite di sesso. Lei annuì, mi strinse la mano, poi se ne andò. Non l'ho più rivista, sa? Non so nemmeno il suo nome, non me lo ha mai detto; se ha intenzione di chiedermelo, non è stato possibile risalire a lei nemmeno tramite il conto corrente utilizzato per pagare l'assegno. La banca non rende pubbliche queste informazioni.”
“Capisco.”
Francesco si alzò dalla poltroncina e gli strinse la mano in segno di saluto, poi si esibì in un profondo inchino.
“Grazie mille della disponibilità, signor Furieri.”
“Prego, prego... e scusi se sono stato un po' prolisso. Sa, non sono molte le persone che vengono sin qui a chiedere informazioni sui nostri film. Ogni volta che qualcuno come lei fa la sua comparsa, per me è una gioia, significa che il mio impegno serve effettivamente a qualcosa. L'ho annoiata coi miei discorsi? No, ma che domande sono! Anche se l'avessi annoiata, lei non me lo verrebbe certo a dire, è troppo a modo. Arrivederci, signor... giusto, scusi, Francesco...”
“Francesco e basta, se permette. Il mio cognome è insignificante, preferisco che la gente mi ricordi per le mie azioni, non per questioni anagrafiche. Arrivederci e buona giornata.”
Salutò educatamente e si diresse verso l'uscita dell'ufficio. Raggiunto il pianerottolo, chiamò l'ascensore.
Cosa significa tutto questo? La vera autrice del soggetto è rimasta nell'ombra, senza lasciare un nome o un recapito. L'età corrisponde a quella della signorina, ma posso essere sicuro che sia veramente lei? Il vestito bianco può essere un indizio, ma non una prova. Chiunque abbia spedito il plico, può essersi servito di una prestanome o una comparsa, istruita a dovere. In pratica, sono al punto di partenza. Forse dovrei dare un'occhiata ai quotidiani stampati nell'ultimo anno, può essere che qualche giornalista abbia scritto qualcosa a proposito di quella vicenda. Oppure consultare Internet. Già, magari trovo qualche blog a proposito di quanto è accaduto. I fan del film potrebbero aver scavato a fondo per capire quale fosse la storia vera a cui è ispirato.
Un campanello annunciò l'arrivo della cabina. Francesco prese posto al suo interno e premette il tasto del piano terra.
Dove posso trovare i quotidiani che mi servono? In biblioteca? Forse. Un tentativo vale la pena farlo. E se non ricavassi nulla?
Rimase in silenzio a pensare, tentando di inquadrare un dettaglio che sembrava continuare a sfuggirgli, come il nome della signorina.
Dove abitavamo? Dov'era la villa? Perché non riesco a ricordarlo? È tutto un gioco malato di chi mi ha dato questa possibilità? Non posso ottenere ciò che bramo? È questa la mia dannazione?
L'ascensore raggiunse la sua meta. Francesco varcò la soglia, uscì dal portone principale del palazzo.
Se non so come si chiama e non so dove abita, come faccio a trovarla? Ci vorrebbe un indizio... ma quale? La mia memoria sembra essersi bloccata. Ricordo tutta la vicenda ma non riesco a mettere a fuoco i dettagli.
“Un momento!”
Si fermò improvvisamente.
“Ho detto fuoco?”
Rise in modo incontrollato, alzando le mani al cielo. Chiuse gli occhi, come per pregustare il momento.
“Sì, esatto. Il fuoco, il fuoco che ardeva sfavillante durante la notte, mentre seppellivo i cadaveri sotto mucchi di spazzatura. Una discarica! La strada portava alla discarica... e ce n'è una sola in zona. Seguendo la strada a ritroso potrei ricordare qualcosa di più. Chissà, magari è stata sottoposta a sequestro. Chi potrebbe dirmelo? Lo sbirro? No, proprio no! Lo sbirro è esploso in un rombo di tuono! KAPUM! Andato. Allora chi, chi?! Le mine? Sì! Sì! Le mie mine potrebbero parlarmi! Dopotutto, loro hanno parlato con lo sbirro, prima che saltasse in aria! Sì, sì!”
Spalancò le palpebre. La follia aveva preso il controllo del suo corpo per un attimo, sdoppiando la sua personalità fredda e calcolatrice. Era sempre più frequente, negli ultimi tempi.
Urlò a squarciagola per allontanare gli spettri della pazzia, svuotò completamente i polmoni, gridò con tutte le sue forze, fino quasi a sentirsi male. Riprese fiato, ansimando. Un'altra macchia sul suo impeccabile curriculum.
Non che all'altro mondo serva a qualcosa.
Doveva calmarsi, calmarsi e ricominciare da capo. Per prima cosa, avrebbe dovuto raggiungere la discarica... anzi, no, forse non era necessario. Doveva trovare un Internet Point con una connessione decente. Si guardò attorno, esaminando con attenzione le insegne, prima di scorgere quella di un bar con connessione a consumazione. Raggiunse il locale, entrò, ordinò un caffè, chiese informazioni.
“Come funziona qui? Per usare il computer, intendo?”
“Se consumi, puoi navigarci per una decina di minuti. Hai ordinato un caffè, giusto?”
“Macchiato con poco zucchero, qualora fosse possibile.”
“Perfetto. Ti abilito la connessione. Per i prossimi dieci minuti è ai tuoi comandi. I siti porno, ovviamente, sono bloccati.”
“Grazie mille.”
Francesco si sedette di fronte allo schermo ed incominciò a digitare sulla tastiera. Per fortuna, la velocità di risposta della rete era più che decente. Richiamò un servizio di mappe online, con tanto di foto delle strade e dei dintorni ed inserì le parole chiave Discarica e il nome della città dove tutto si era svolto, la stessa del cinema in cui aveva assistito al film rivelatore. Un istante dopo, comparve l'ubicazione geografica del suo obiettivo. Passò alla visuale da satellite, cercando di non perdere di vista il punto di partenza. Per quanto doveva guidare, ogni volta? Cinque minuti?
Perfetto.
La sua ricerca si sarebbe dovuta restringere ad un raggio di circa quattro chilometri dalla discarica. Non dovevano esistere molte ville nei paraggi. Inserì qualche altra parola chiave ed ottenne un responso chiaro e preciso: l'ubicazione della casa, della sua casa.
“Può portarmi un block notes? Devo scrivere un paio di numeri.”
“Certo. Ecco a te.”
Francesco prese nota dell'indirizzo e della posizione della villa, poi bevve il caffè tutto in un sorso. Riportò la tazza al barista e pagò il conto.
“Grazie mille, è stato gentilissimo.”
“Prego, di nulla.”
Accennò un inchino, poi si diresse verso l'esterno. Finalmente aveva un indicazione concreta per la sua ricerca, una ricerca che sembrava senza speranza. Eppure era strano, molto strano. Aveva già a disposizione tutti gli elementi per risalire all'ubicazione della magione, ben prima di assistere al film. Per quale motivo non era riuscito ad elaborare un piano d'azione simile? Sembrava quasi che i suoi neuroni non fossero in grado di connettere tra loro gli indizi. Il film, quello stupido lungometraggio, doveva averlo sbloccato.
Strano, molto strano. Sembra quasi che qualcuno stia giocando con me, che io sia solo una pedina.
Non è così, Francesco. Sei pienamente consapevole delle tue azioni. Nessuno ti sta guidando.
Neppure tu?
Tu, io. Qual è la differenza? Non ha senso descriverci in modo diverso. Siamo la stessa cosa.
Tu sei la mia follia, non è così?
No, io sono la mia follia. Io e te siamo me. Non ha senso differenziare.
Una volta non era così. Non parlavo con me stesso.
Ma tu ora sei incompleto, Francesco, sei incompleto. Sei ritornato, capisci? E chi ritorna è difettoso, Francesco.
Io sono difettoso?
Precisamente.
Capisco. E tu chi sei?
La parte di te che non è riuscita a tornare, perciò è come se fossi te.
Se è così, perché non mi aiuti? Perché non mi dici dov'è?
Perché io non potrò esserci, di persona. Mi seccherebbe se ad approfittarne fosse qualcun altro.
Ma io sono te!
Certo, ma io non sono io. Non del tutto almeno.
Non importa. Farò a meno di consultarti.
Questo non significa che io non possa parlarti.
Fai come vuoi.
Incompleto, eh? Quindi... era in grado di comunicare col campo solo perché una parte di lui era rimasta intrinseca ad esso, non era riuscita a separarsene? Era quello il motivo della sua conoscenza così estesa della struttura sottile del mondo? Se fosse stato così, avrebbe dovuto scendere a patti con se stesso, per raggiungere ciò di cui aveva bisogno, ciò che bramava nel naos della sua anima. E se non ne fosse stato in grado? Se quel suo desiderio non fosse stato sufficiente a fargli ottenere ciò che desiderava?
Il suo corpo tremò come una foglia.
Cos'era quel sentimento di sconforto, così potente da fermarlo?
Qualcosa di inaspettato, di imprevisto? Cosa? Cosa poteva bloccarlo?
Francesco si asciugò la fronte, imperlata da microscopiche gocce fredde. Non voleva crederci, ma non esistevano altre spiegazioni possibili.
Lui, che aveva visto la morte in faccia, che era tornato alla vita... aveva paura.
Paura di fallire.
Es/interiorità
“Tu abiti qui? Sotto il ponte?”
“Cosa c'è di strano?”
Arianna si guardò attorno, confusa. Le sue dita scivolarono lungo il bordo dell'amaca, fino al chiodo che la fissava al muro di cemento. Sembrava che esistessero solo oggetti inutilizzabili e libri, in quel luogo fuori dal mondo. Bambole prive di un braccio, orologi che andavano all'indietro...
Sembravano gli scaffali di un robivecchi specializzato in rottami. Invece erano le mensole di una casa. Beh, non propriamente una casa, dato che di muri ne aveva solo due, ai lati, mentre per il resto era aperta sia verso i monti sia verso il mare. Nessuna persona sana di mente avrebbe potuto vivere in un luogo del genere... quindi era perfetto per Cassie.
“Non avrei mai pensato che qualcuno potesse stabilirsi qua sotto.”
Le sue mani analizzarono anche la pesante scaffalatura da farmacia che sembrava contenere la maggior parte dei volumi.
“Questa come hai fatto a portarla? Non sembra per niente leggera.”
“Mi hanno dato una mano.”
Arianna sorrise.
“Quindi c'è qualcun altro che sa dove abiti?”
“C'era.”
“Come scusa?”
Cassie si sedette sull'amaca e si sfilò le scarpe. Alzò gli occhi verso il soffitto, come se volesse idealmente ammirare il cielo. Una lacrima solcò il suo viso, senza che lei se ne accorgesse.
“Alessandro Scirea, un poliziotto che abitava qui attorno, quarant'anni circa. Era a conoscenza della mia presenza qui sotto, ma non mi ha mai denunciata. Qualche volta veniva a trovarmi, a parlare con me. Mi ha aiutata a ritrovare coscienza di me stessa. Penso che mi vedesse come... come una figlia, una sorella minore, o qualcosa del genere. Ho avuto poco tempo per conoscerlo.”
Accarezzò lo scaffale con delicatezza.
“Questo lo ha portato qui lui, dopo averlo smontato pezzo per pezzo. Lo abbiamo ricostruito insieme, poi lo abbiamo fissato al muro. Mi ero appena stabilita qui, avevo metà della roba che possiedo ora, il mio vestiario era ridotto ad una t-shirt ed un paio di jeans. Niente scarpe o giacche di pelle. Alessandro mi ha spinto, mi ha spinto a reagire, ad essere me stessa... e poco per volta credo di avercela fatta. Gli devo molto.”
“Dov'è andato?”
“In cielo, credo. È morto due mesi fa. Saltato in aria per colpa di una mina.”
“Una mina?”
“Un residuato bellico, a quanto pare. Sembra che ci sia un vecchio campo minato a meno di venti chilometri dal centro. Alessandro e un suo collega stavano ispezionando i dintorni – in cerca di una ragazza scomparsa... e si è consumato il dramma. Tutto qui.”
Abbassò la testa, ad occhi chiusi.
“Sai, puoi prendermi in giro quanto vuoi... ma io ho sentito che gli era successo qualcosa. Una perturbazione nel campo intrinseco, di debole intensità, così debole da risultare impercettibile... ma ti giuro che me ne sono accorta.”
“Che tipo di... percezione hai avuto?”
“Ho udito distintamente una risata, tremenda, divertita! Sì, qualcuno sì è divertito a vedere Alessandro esplodere, ha provato piacere a vederlo morto! Un essere orribile, immorale!”
Il letto del fiume fu inumidito da una pioggia di dolore, lenta ed inesorabile.
“Sai, se lo sentissi ridere di nuovo, lo riconoscerei. Una creatura così vile...”
Il pianto si tramutò in un sorriso scintillante.
“Comunque, cosa ne pensi? Mi sono sistemata bene, non trovi?”
Arianna arretrò di un passo.
“Ehi! Non ti sembra innaturale cambiare umore così, di punto in bianco?”
Cassie scrollò le spalle.
“Che vuoi farci? Non posso mica decidere a mio piacimento! Non sono in grado di controllare le mie emozioni, sono un articolo danneggiato, sai? Proprio come quelli che i negozi rimandano indietro alla fabbrica! Solo che non puoi rimandare indietro una persona al creatore, non sarebbe cortese.”
“Non sei credibile come medium, Cassie. Io non ci credo, non credo alle percezioni, alle energie interiori. Mi sembrano una marea di idiozie.”
“Sapevo che lo avresti detto, ma è meglio così. Se ci avessi creduto, avrei dovuto spiegarti ancora un paio di cose a cui non penso avresti dato alcun credito. Parliamo di altro, ti va? Cosa volevi chiedermi prima?”
Arianna rivolse lo sguardo altrove, evitò di incrociare i suoi occhi.
“Non è semplice.”
“Nulla è semplice.”
Inspirò profondamente.
Sento che me ne pentirò.
“Dai, ce la puoi fare!”
“Come...”
Si fermò, come per mettere ordine alle parole.
“Come faccio... come posso fare... sì, insomma...”
Urlò a squarciagola, come per liberarsi di un peso.
“Come faccio a diventare come te?!”
Cassie sembrò non capire. Si grattò i capelli, poi si sdraiò prona sull'amaca, pur continuando ad osservare Arianna.
“In che senso? In cosa vorresti essermi simile?”
L'ho detto! L'ho detto! Ce l'ho fatta! Ora devo solo... capire, spiegarmi meglio.
“Come fai a... a fregartene di tutto? Vivi alla giornata, non studi, non lavori, ti vesti come vuoi e non come vogliono gli altri, sei spontanea, non hai paranoie, non ti chiedi mai se quello che stai facendo è giusto o sbagliato, se commetti un errore ci ridi sopra e inizi subito a pensare a qualcos'altro! Abbracci e baci sconosciuti, sulla guancia o sulla bocca, vivi sotto un ponte, lontana e vicina a tutti allo stesso tempo! Sai tutto quello che succede ma nessuno sa niente di te, non hai obblighi verso nessuno, neppure verso te stessa! Non hai amici, parenti, gente che ti opprima, che voglia che tu ti comporti in modo perfetto, senza sgarrare, senza uscire mai dai binari! Io non riesco a capire, aiutami ti prego! Come posso fare a diventare un po' più come te?”
“Non credere che sia semplice. Bisogna avere molto coraggio e un pizzico di incoscienza, anche perché poi non si torna indietro. Una volta che hai passato la soglia, non hai alcuna garanzia di rivedere la luce. Io ho avuto fortuna.”
“Cosa stai dicendo?”
Cassie si rannicchiò in posizione fetale, le membra tremanti, come in preda alla febbre.
“Ary... io sono mentalmente instabile. Non sono capace di gestire i miei sentimenti, di gestire i miei pensieri. Faccio quello che mi viene in mente non appena mi viene in mente, sono come un animale. Non ho più alcun controllo su di me, non l'ho mai avuto. Se, ad esempio, mi venisse voglia di tagliarmi una mano, io non potrei trattenermi e lo farei subito. Questo è il contrappasso: io sono pazza, Ary, sono completamente pazza. Non è facile rendersene conto, non lo è, ma temo che sia vero. C'è voluto un po' per capirlo, ma nonostante tutte le congetture, nonostante tutti i miei sforzi, non riesco a trovare un'altra risposta.”
Arianna soffocò una risata sul nascere, riducendola ad un soffio contratto. Cassie la osservò incuriosita.
“Cosa ti è venuto in mente, stavolta?”
“Mi stai prendendo in giro, come al solito. Me ne sono accorta, sai? Quando scherzi, la tua voce assume un tono diverso, inconfondibile. Non sei seria.”
Un lungo respiro.
“Dici? Non ne sono sicura neanche io.”
“Diamo per scontato che fosse un gioco, ti va?”
“Va bene, ricominciamo.”
Arianna chiuse gli occhi e si tastò la tempia con l'indice sinistro, picchiettandovi ritmicamente.
“Senti... poi, a proposito dell'altra volta... quando hai detto che avrei vomitato se avessi conosciuto i dettagli della tua serata... puoi raccontarmi qualcosina in più?”
“Non credo che tu lo voglia veramente sapere.”
“Se voglio cambiare, devo essere in grado di sopportare tutto senza star male, non trovi?”
Cassie si alzò dall'amaca.
“Non è un ragionamento sbagliato, ma se fossi in te...”
“Dai!”
Prese fiato, serrò le palpebre, espirò rumorosamente.
“Ho fatto l'amore con una ragazza.”
Il volto di Arianna raggiunse una tonalità di rosso mai vista prima.
“Ha circa vent'anni, bei capelli neri lisci, più luminosi dei tuoi, un viso molto delicato, occhi azzurri come l'oceano, pieni di vita ma, allo stesso tempo, segnati dal dolore, una pelle morbida e un buon profumo. Indossava un vestito bianco corto, con dei bei ricami. Penso che qualunque ragazzo avrebbe fatto carte false per portarsela a letto.”
“A... appunto! Qualunque ragazzo! Tu sei... tu sei una lei! Come hai potuto...”
Cassie si esibì in un occhiolino malizioso.
“Cosa c'è di male? Avresti dovuto vederci! Ho goduto così tanto che non ho alcun rimpianto!”
“N... non sapevo fossi g... gay? Cioè, non c'è niente di male, ma, ecco, io...”
“Ed ecco il nuovo modello di Arianna-devo-pensarla-come-tutti-i-miei-amici-idioti! Disponibile in due versioni. Quella deluxe costa di più, ma è persino più bigotta e retrograda! Adesso in offerta da Giochi Preziosi!”
Arianna si irrigidì ancora di più, se possibile, portò la mano alla bocca. Il suo corpo fu scosso da un conato.
“Ugh...”
Cassie rispose con una linguaccia, prima di ricomporsi, assumendo un tono più serio.
“Però devo essere sincera, Ary. Sarebbe facile dirti che sono omosessuale, ma no, non è la verità. Non sono lesbica, non lo sono mai stata: ho avuto diversi ragazzi e ne ho conosciuti anche alcuni, ma il modo con cui quella ragazza mi si è avvicinata, il modo con cui mi ha parlato, il modo in cui mi ha baciato... la mia mente è impazzita, Ary, impazzita totalmente! Non mi ha lasciato scelta, non ha accettato le mie rimostranze. Il mio corpo si è mosso da solo, senza aspettare una mia risposta. Mi sono sentita male dopo... ma anche bene. Ho provato gioia, dolore, paura, sicurezza, amore, odio! Tutto assieme! Ary, io non sono in grado di capire, non sono in grado di controllarmi! Se fossi stata capace di farlo, sarei fuggita! O forse no, non lo so. Davvero. Ieri, quando ci siamo incontrate, mi sentivo ancora in paradiso. Quelle labbra... quella sua pelle candida...”
Cassie si sdraiò nuovamente sull'amaca.
“La verità è che io non ho alcun controllo sul mio corpo, su me stessa. Ciò che decide il mio cervello è spesso ignorato o rimescolato dalle circostanze esterne. Non sono capace di reggere i miei fili, non ne sono assolutamente capace. Se mi girasse, potrei tagliarmi le vene davanti a te... o saltarti addosso ed iniziare a spogliarti in questo esatto momento, senza che io possa fare nulla per impedirlo. Tu vuoi veramente essere come me? Questo è il prezzo da pagare. In contanti.”
Arianna fece un passo indietro, impaurita.
“Tu... sei strana. Mi fai paura, molta paura... ma non riesco ad allontanarmi. Cosa significa?”
Un ampio sorriso si fece largo sul volto di Cassie.
“Che forse ho trovato un'amica.”
Poco per volta, il viso di Arianna tornò ad una tonalità accettabile. Si inginocchiò sulla sabbia umida, ansimando profondamente, con ritmo costante. Rimase ferma, in silenzio per alcuni minuti, senza proferire parola, con gli occhi chiusi, le mani sulle ginocchia. Sembrava quasi una statua, una statua indecisa sul da farsi. La sua voce divenne un sussurro, un lento susseguirsi di suoni a basso volume.
“Vi... visto che non ho vomitato? Che non sono svenuta... dalla vergogna?”
Cassie le diede un buffetto sulla guancia.
“Hai ragione, ti avevo sottovalutato!”
“Come... come si chiama la stronza?”
“La stro... vuoi dire la ragazza con cui ho...”
“Sì!”
“Non lo so, il suo nome mica me l'ha detto. Forse mi ha dato un numero di telefono, ma devo controllare.”
“Lascia stare, per favore.”
Arianna scoppiò in una risata nervosa.
“Ma ti rendi conto della situazione in cui mi trovo? Ho stretto amicizia con una ragazza dai capelli rossi che vive sotto un ponte, si fa la doccia nello spogliatoio di una piscina, compra e indossa solo roba difettosa e non disdegna di avere rapporti sessuali con altre donne! Se si sapesse in giro sarei rovinata...”
Aprì gli occhi.
“... ma forse è proprio questo quello che voglio. Spazzare via la mia finta esistenza, distruggere tutto, polverizzare questa mia vita di cartapesta e gridare al mondo che anch'io esisto e se una ragazza si comporta in modo così scandaloso, questo non vuol dire che sia una poco di buono! È la verità? Be', cosa ne so?”
La sua ilarità sembrava non volersi arrestare.
“E se adesso mi alzassi e facessi l'amore con te? Non sarebbe il massimo? Ovviamente no, perché non me la sento! O forse sì? E se fossi gelosa dalla ragazza che ti ha avuto? No, non ha senso! Non so perché mi sia venuta in mente, però l'ho detto, non avevo voglia di tenermelo dentro! Che idee idiote! Certo che sto proprio male, eh? Non è che tra le due la vera pazza sono io? Io che ti do ascolto? No? Eh, eh! Chi può dirlo? Mi ci vedi a strapparmi i vestiti in pubblico e saltellare come una ranocchia cantando una vecchia canzoncina da bambini? No? Ovvio che no! Io sono Arianna, e Arianna non farebbe mai una cosa del genere! Eh, eh! Allora perché non farlo? Tanto Arianna è molto altro, non è solo questo guscio, Arianna è molto altro! Allora perché non farlo? Anzi, sai che ti dico? Prima di andare a casa lo faccio, mi strappo tutto ed inizio ad imitare una rana, così, senza motivo! O il motivo c'è? Non lo so, sai? Proprio non lo so...”
Si sdraiò a terra, sollevando una nuvola di polvere.
“Non so cosa potrei combinare, se mi liberassi del mio finto io, non ne ho idea. Forse inizierei a passare da un ragazzo all'altro, senza farmi problemi, cambiando anche più volte al giorno, mi vestirei e mi truccherei in modo osceno, solo per essere me stessa, nessun'altra. Tutto qui. Tutto qui. Eh, eh! Eh, eh!”
Cassie si sdraiò accanto a lei.
“Poi sarei io quella strana.”
“Almeno io non sono andata a letto con una ragazza.”
“Per ora.”
Rimasero in quella posizione per una decina di minuti, senza dire nulla, ascoltando il brusio delle voci, lo stridio dei gabbiani, il rumore dei motori a scoppio, il fruscio del vento. Anche quello significava crescere, far parte del mondo. Le anatre si bagnavano nelle rare pozzanghere che facevano capolino nel letto arido del torrente, senza curarsi di loro. Cassie allungò la mano destra, Arianna la afferrò con decisione.
Un lampo di malizia si fece strada nella sua mente, ruppe la magia del momento.
“Cosa hai provato? Voglio dire... quando ti sei accorta di quello che stava succedendo?”
“Ero confusa. Ho avuto paura di me stessa.”
“Capisco.”
“No, non puoi capire.”
Arianna si mise a sedere, senza lasciare la presa. Sorrise con dolcezza, ammirando la figura minuta della ragazza sdraiata accanto a lei.
“Potrei... provarci?”
Cassie ridacchiò divertita.
“Non lo vuoi davvero.”
Arianna rilassò la presa, portò le mani dietro la testa.
“Chissà.”
“Nessuno potrebbe vederci qui sotto.”
Arianna chiuse gli occhi.
“Ma scherzi? Voglio dire... ti ho appena finito di rimproverare per quello che hai fatto! Che coerenza avrei se poi...”
Arianna sentì uno strano senso di oppressione al petto, come se qualcosa di pesante le fosse salito sopra la pancia. Confusa, aprì le palpebre di scatto.
La prima cosa che vide, fu una massa informe di capelli rossi che rilucevano ai raggi focosi del sole, tornato a ruggire dopo una breve parentesi. Poi, gli occhi. iridi smeraldine, splendenti, attraversate da un guizzo di follia e compiacimento.
“... se poi...”
Iridi sempre più vicine. Troppo vicine. Così come le labbra. Le labbra quasi a contatto con le sue.
“... s... se poi...”
Troppo vicine, perfettamente a contatto. E, come la prima volta, la lingua. Solo, questa volta era diverso. Non era un gesto di amore fraterno, no, proprio no. Cassie inarcò leggermente il busto, le afferrò le spalle, premette il petto contro il suo, senza interrompere il contatto. Alcuni, interminabili, secondi dopo, l'abbraccio delle lingue si sciolse, lasciando solo un filo di saliva come testimone di quanto avvenuto. Cassie la guardò negli occhi, un'intensità, una serietà che non sembrava appartenerle, le guance leggermente arrossite.
“Se poi?”
Arianna chiuse gli occhi, li riaprì, li chiuse nuovamente. Una sensazione di calore pervase tutto il suo corpo, diffondendosi da un punto anatomico che non avrebbe mai nominato di fronte ai suoi amici. Amici... o solo fantasmi con cui aveva imparato a fingere di vivere?
“... basta... così...?!”
Cassie si rialzò, rompendo la magia del momento.
“Anteprima terminata. Se vuoi il resto, dovrai aspettare che io sia dell'umore giusto. Il che potrebbe voler dire mai.”
Camminò fino al punto in cui era sdraiata prima, poi si lasciò cadere al suolo.
“Magari dimenticatelo questo. Sai, non è consono ad una ragazza di classe. Mi chiedo come la prenderanno i tuoi amici.”
Arianna espirò profondamente, tornò padrona di se stessa.
“N... non cambi mai, vero? Proprio come la prima volta che ci siamo incontrate.”
Mentì a se stessa. Non era assolutamente vero, quel bacio era stato diverso, non era stato uno scherzo. In un certo senso, sperava che Cassie la baciasse. Lo desiderava, ma non aveva il coraggio di ammetterlo, neppure a se stessa. Ricacciò i suoi sentimenti sopiti in un cantuccio del proprio animo, poi tornò a concentrarsi sulle nuvole, come per smaltire la sbronza emotiva.
“P... parliamo d'altro, ti va? Cosa... cosa vuoi fare coi vestiti che hai comprato oggi?”
Il tono di voce era ancora altalenante, ma più controllato di alcuni attimi prima. La Arianna-base era tornata saldamente al timone, pur con qualche acciacco e ferita all'amor proprio.
“Una foto.”
Cassie espirò lentamente.
“Mi servono per una foto.”
A.A.A. Analisti, Archivisti, Analgesici
Il lavoro oscuro e prezioso dell'archivista era considerato da tutti come una noia mortale, di scarso interesse e per nulla appagante. Cerca documenti, trova documenti, ordina documenti, cataloga documenti. Tutto lì.
Se ne combini una ti mando a lavorare in archivio per una settimana!
Un modo efficace per farsi obbedire dai propri sottoposti, senza dubbio, ma finiva per svilire la dignità di chi si impegnava dietro le quinte per fornire i giusti incartamenti alle persone giuste. La rivoluzione digitale era stata una manna dal cielo, ma fino ad un certo punto. Informatizzare tutto il precedente archivio sarebbe stato uno sbattimento colossale e avrebbe richiesto il pagamento di parecchie ore di straordinari. In pratica, nessuno ne aveva avuto la minima intenzione e tutti i giornali, le vecchie schede segnaletiche, gli identikit, le denunce, i fogli bollati e controfirmati, erano ancora lì, a formare una massa informe, seppur organizzata, di informazioni. Negli anni, si era parlato di assumere uno stagista a basso costo o di sfruttare biecamente qualche studentello delle superiori in alternanza scuola-lavoro.
Invano.
Nethanienko appese la giacca all'attaccapanni e si rimboccò le maniche. Trovare ciò di cui aveva bisogno in mezzo a tutte quelle cartacce non sarebbe stato una passeggiata. Avrebbe potuto delegare a qualcuno dei suoi agenti, certo, ma il suo era un commissariato poco importante, con personale ridotto all'osso... e lui era l'unico ad avere qualche esperienza come archivista.
Come se non bastasse, il caso aveva priorità assoluta. Il governatore della regione aveva telefonato in ufficio più volte per ribadire che le indagini dovevano essere continuate con solerzia, decisione e precisione. Il colpevole dei rapimenti doveva essere assicurato alla giustizia. Gli elettori lo richiedevano.
Per cui, non c'era altra scelta: inizia a rovistare tra le scartoffie finché non trovi qualcosa.
Ma figurati se devi tornare in archivio! Usa Internet, no? Di sicuro quello che cerchi è lì! Una notizia su un giornale si trova senza problemi!
Infatti, come volevasi dimostrare, in rete non c'era nulla a proposito del suo problema – niente di niente. Aveva spulciato inutilmente decine di emeroteche online, letto migliaia di post nei blog incentrati su La Magione degli Orrori, esaminato centinaia di pagine web, sperando di trovare qualche minuscola traccia su cui lavorare.
Per quanto si fosse impegnato, non era stato in grado di raccogliere informazioni sufficienti.
Gli utenti della rete avevano speculato su quale fosse la storia vera a cui era ispirato il lungometraggio, ma il film era relativamente giovane – era uscito da un mese nelle sale – e le versioni erano contrastanti. C'erano sostanzialmente quattro posizioni: uno, la storia vera è l'incesto del padre con la figlia, avvenuto realmente in qualche villa da qualche parte nel mondo; due, la sezione centrale del film è effettivamente ispirata a fatti di cronaca, ma non se ne trova notizia sui giornali; tre, il film è ispirato ad un brutale assassinio ad opera di ignoti, simboleggiati dalle creature; quattro, non c'è nulla di vero e la frase è stata inserita solamente per fare un po' di notizia.
Delle alternative proposte, Nethanienko era riuscito a scartare solo la numero uno – un fatto orribile ma abbastanza inflazionato, con rilevanza marginale all'interno della trama. L'ipotesi più plausibile era la numero due. La tre era interessante ma non troppo – omicidi irrisolti ce n'erano già fin troppi. In effetti, anche la quattro poteva avere un fondo di verità, ma preferì non pensarci troppo o il suo lavoro avrebbe perso ogni significato. Perché era così convinto che quella vicenda fosse realmente accaduta?
C'è qualcosa che mi sfugge. La trama di quel film non mi è del tutto nuova. Qualcuno mi ha raccontato qualcosa di simile, non più tardi dell'anno scorso... ma non ricordo né chi, né quando. Rifletti... rifletti...
Sospirò. Non c'era molto da fare, sembrava che la sua memoria fosse in sciopero. I neuroni dovevano aver incrociato le braccia per il troppo utilizzo – pazienza, qualcuno quel lavoro doveva pur farlo.
Iniziò a spulciare i vecchi verbali, i casi segretati e quelli rimasti irrisolti. I media non si erano occupati del fatto in modo diretto, quindi era stato nascosto alle telecamere o, perlomeno, risolto senza troppo clamore.
Peccato, per una volta che i telegiornali avrebbero potuto essermi utili...
Scrollò il capo con vigore. Lamentandosi non sarebbe arrivato da nessuna parte, men che meno alla soluzione del caso.
Da dove posso iniziare? Dalle denunce di scomparsa?
Non era una cattiva idea, se si fosse limitato a scavare negli ultimi cinque anni, avrebbe avuto accesso rapido al materiale tramite computer. Richiamò l'archivio elettronico ed impostò una ricerca con le parole chiave scomparsa, donna e selezionò la casella includi casi risolti. Dopo un secondo di caricamento, la schermata cambiò bruscamente, mostrando una lista completa dei casi che corrispondevano ai filtri selezionati.
Troppi.
Bisognava effettuare una seconda scrematura. Dato che erano tutti casi di allontanamento, scomparsa o rapimento, era presente un'opzione per inserire un filtro sulle età. Nethanienko ne approfittò immediatamente e selezionò l'intervallo tra diciassette e venticinque anni; inoltre, deselezionò il caso a cui stava lavorando, in modo da non ricevere informazioni di cui era già in possesso. Una volta eseguite le operazioni necessarie, diede il via alla ricerca. Un CLICK e il numero di casi compatibili con i vincoli diminuì sensibilmente. Erano stati esclusi dall'elenco tutti gli anziani e i bambini, che da soli monopolizzavano gran parte della sezione scomparsi. Il numero di persone rapite o semplicemente sparite dalla circolazione negli ultimi cinque anni era imbarazzante.
Se tutto va bene, rimarrò qui fino a domani.
Si tastò la tasca destra dei pantaloni con calma, per accertarsi che la scatola di farmaci contro il mal di testa fosse al suo posto, poi si gettò a capofitto nell'indagine.
**
Quindici e trentasette. Due ore trascorse a scartabellare schede e documenti.
In quelle due ore, Nethanienko era riuscito ad escludere la presenza di casi affini al suo nel periodo compreso tra cinque e due anni prima. Se esisteva una connessione, doveva per forza essere più recente... o non essere schedata.
Se non trovo nulla, non posso concludere nulla, purtroppo. Può darsi che il fattaccio sia avvenuto più di cinque anni fa. In quel caso, dovrei analizzare scartoffie per settimane.
Sbuffò seccato, poi si rimise al lavoro. Non era il caso di perdere altro tempo.
Restrinse il campo agli ultimi ventiquattro mesi, impostando filtri ancora più selettivi, escludendo i casi in cui il rapitore aveva inviato una richiesta di riscatto e quelli risolti di allontanamento volontario.
Strabuzzò l'occhio.
Improvvisamente, tutto ebbe senso.
Una risata divertita illuminò il suo viso stanco, una risata di sollievo.
“Forse ho trovato qualcosa.”
Stampò le pagine relative alla sua scoperta e attese con calma i fogli. Poteva essere solo una coincidenza, uno stupido scherzo del destino... ma non era importante. L'adrenalina aveva iniziato a pompare nelle sue vene, riducendo la fatica ad un insignificante brusio di sottofondo.
Devo andare fino in fondo, non ha senso fermarsi ora.
La stampante ronzò e cigolò in maniera preoccupante, mettendo in moto le testine. In meno di un minuto, il plico di venticinque fogli fu pronto per essere letto ed esaminato senza l'intermediazione di strumenti elettronici.
Nethanienko lasciò l'archivio e tornò alla sua scrivania, senza distogliere lo sguardo dal dossier. Si sedette sulla poltrona, poi sparse i fogli sul bancone, dividendoli in base alla presunta vittima.
Interessante. Stando ai codici riportati, queste sette persone fanno capo allo stesso caso. Sette ragazze bionde, con gli occhi azzurri o verdi, di età compresa tra i diciassette e i diciannove anni. Da queste carte, risulta anche che il rapitore non è stato catturato, in quanto deceduto. La vicenda non ha mai raggiunto gli onori della cronaca per... pressioni esercitate da una delle parti in causa? Cosa diavolo significa? Perché non sono riportati né nomi né cognomi, relativamente all'ultima informazione?
Sette vittime, meno delle undici nel film. L'unico particolare discordante, il resto coincideva alla perfezione, cause della morte comprese.
Può darsi che quattro delle ragazze non avessero famiglia o amici che potessero denunciarne la scomparsa. Non è così improbabile, dopotutto. Non ci sono dubbi, questa è la connessione che stavo cercando. Ora che ci penso, qualcuno me ne aveva parlato... ma chi?
Urtò inavvertitamente uno dei plichi con la mano, facendolo cadere a terra. Chinandosi per raccoglierlo, non poté fare a meno di leggere il nome della vittima.
Vittoria Scirea, diciassette anni.
Non è possibile...
Chiuse l'occhio, chiuse le porte della mente. Doveva pensare. Com'è che non sapeva nulla di tutto ciò? In fondo, era accaduto solo due anni prima. Dov'era lui, all'epoca? Si trovava già lì? No, era dall'altra parte dell'Italia, in uno squallido commissariato di provincia, doveva ancora compilare la domanda di trasferimento. Logico che non ne sapesse nulla.
Quindi... è stato Scirea a parlarmene. Ma Scirea è morto due mesi fa e, purtroppo, i morti non possono essere d'aiuto. Questa ragazza, questa Vittoria qui, era sua figlia, maledizione! Sua figlia! Gliel'hanno ammazzata, poi hanno mandato anche lui all'altro mondo. Se solo sapessi chi è il cane che... un momento, mi sembra di aver letto il nome, da qualche parte.
Si chiamava Francesco, come il santo – bel paragone, se guardi il calendario quasi ogni nome è stato santificato.
Il cognome è più importante, di Francesco ce ne sono fin troppi.
Se lo annotò sul suo smartphone, poi continuò a leggere, imperterrito. Il macellaio in questione era morto, a seguito di un banale incidente stradale. Il cadavere era stato ritrovato in fondo al mare, assieme alla sua auto.
Cosa faceva nella vita, prima di incontrare la sua fine? Dev'esserci scritto anche questo.
“Ah, ecco.”
Maggiordomo per dieci anni e quattro mesi presso la famiglia...
Sgranò l'occhio.
Elementare, Watson; il colpevole è il maggiordomo.
Sì, ma non il maggiordomo di una delle famiglie più importanti della regione!
Famiglia?
No, non esattamente.
A quanto pareva, solo un membro del nucleo era ancora in vita: la giovane rampolla del casato. Sì, perché erano morti entrambi in un incidente d'auto, cinque anni prima, lasciandola sola con il maggiordomo. Curioso come il servetto avesse intrapreso una carriera parallela da rapitore. Forse il suo stipendio non era sufficiente a permettergli di pagarsi due donnine che estinguessero i suoi desideri? No, era un controsenso, doveva esserci qualcos'altro, dietro.
Ricapitoliamo... cinque anni fa, il maggiordomo diventa praticamente padrone di casa, per due anni serve la signorina senza che si verifichi nulla di particolare, poi inizia a rapire giovani ragazze con età paragonabile a quella della sua protetta. Se devo far fede al film, il motivo delle abduzioni è chiaro, ma questa non è una prova. Nei verbali non c'è scritto nulla a proposito del movente, non una riga, una singola riga sulla signorina. Più leggo questi incartamenti, più mi convinco che sia stata lei a fare pressioni perché la vicenda non diventasse di dominio pubblico. Però, c'è qualcosa, un particolare che non collima con il resto. Perché produrre quel film? Se questa è la verità, l'unica persona in grado di stanziare un finanziamento sufficiente a coprire le spese di produzione di un lungometraggio era lei. Dalle indagini sulla SPECTRA Movies è emerso che La Magione degli Orrori è stata interamente finanziata con soldi privati. Neanche messe assieme, le famiglie delle vittime avrebbero potuto fare una cosa del genere. Ora, la domanda è... perché? Se vuoi nasconderti, se vuoi che la vicenda rimanga al sicuro, non ci fai girare un film sopra. Non ha proprio senso!
Una feroce emicrania si fece largo tra i suoi neuroni, divorando ogni barlume di ragionamento. Senza pensarci due volte, aprì la scatola di medicinali, aprì una busta di analgesico e ne ingoiò il contenuto. Non avrebbe fatto effetto subito, ma sarebbe stato meglio di niente. Sbuffò amaramente: in quelle condizioni non poteva lavorare. Si alzò dalla scrivania, prese la giacca e si diresse verso la porta a passo spedito. Un agente lo bloccò prima che potesse guadagnare l'uscita.
“Dove va, commissario?”
“Devo prendere una boccata d'aria, non sto molto bene.”
“Prima posso aggiornarla sulla denuncia anonima di stamattina?”
“Devi proprio farlo adesso?”
“Tra dieci minuti finisce il mio turno. Se non riferisco ora, le toccherà aspettare domani.”
Nethanienko si grattò nervosamente la benda.
“Dimmi, razza di piaga! Cosa c'è stavolta?”
“Si ricorda il campo minato? Quello in cui è morto Scirea.”
Il commissario si indicò l'orbita destra, parecchio seccato.
“Come potrei averlo dimenticato? Ho occhio per queste cose.”
L'agente ignorò il chiaro tono di sdegno con cui gli era stata rivolta l'ultima affermazione.
“Qualcuno ha notato dei movimenti sospetti attorno al vecchio casolare abbandonato. Stando al contenuto della chiamata, sembra che un tizio vestito in modo pesante sia stato visto entrare ed uscire più volte.”
“E cosa dovrebbe significare, questo? Sarà un barbone in cerca di un riparo per la notte.”
“Un barbone potrebbe superare il campo minato senza saltare in aria?”
Il campo?! Come...
“Aspetta un momento. Mi stai dicendo che questo fantomatico, misterioso figuro passa accanto alle mine senza problemi?”
“Così parrebbe.”
“Ma a quanto ne so, in quel casolare non c'è niente di niente! Angelo e gli altri lo hanno perquisito dopo l'incidente...”
“Ha ragione, non c'era niente allora. Comunque, sono andato a dare un'occhiata, senza rischiare troppo, e ho piazzato una videocamera a lunga durata. La batteria dovrebbe reggere per un paio di giorni. Domani darò un'occhiata alle immagini e le farò sapere.”
“Grazie. Ora posso andare? C'è altro che devo sapere?”
“No, commissario.”
“Bene. Allora lasciami uscire, se non prendo un po' d'aria ora, muoio. Ci vediamo domani.”
“Arrivederci, signore.”
Nethanienko decise di lasciarsi il commissariato alle spalle per almeno mezz'ora. Aveva bisogno di staccare, prima di fondere completamente il cervello. L'emicrania incominciò ad affievolirsi, permettendogli di formulare pensieri coerenti, pensieri che non potevano non essere rivolti alle ultime notizie ricevute. Scirea c'era morto, in quel campo.
Lui aveva perso solo un occhio.
“Alessandro... sei stato sfortunato, molto sfortunato. Prima il divorzio, poi hai perso tua figlia, alla fine hai perso la vita. Mi dispiace davvero, non sapevo di questo peso. Mi avevi detto che tua moglie ti aveva lasciato, ma non che tua figlia era morta. E io che mi lamentavo per aver dovuto comprare una sigaretta elettronica! Che stupido che sono stato...”
Perché ti stai sminuendo in questo modo? Anche tu hai avuto i tuoi traumi, e lo sai bene. Non cercare di far finta di niente.
Ancora le voci nella sua testa? Possibile che fossero la causa della sua emicrania?
Scirea è stato sfortunato, è vero, al posto suo potevi esserci tu... ed è anche vero che una ragazzina di diciassette anni è stata barbaramente uccisa da un pervertito. Ma dimmi, cosa pensi di ottenere abbattendoti così? Pensi di lavarti via la responsabilità? Credi che dando la colpa al fato, alla malasorte tutto vada meglio? Ma sì, dai! Commiseriamoci! Lasciamo perdere tutto! Tanto non puoi farci nulla, no?
Sgranò l'occhio.
“Chiunque tu sia, esci dalla mia mente, maledizione!”
Stava diventando pazzo? No, no. Ci doveva essere una spiegazione plausibile. Sdoppiamento della personalità?
Allora, come pensi di reagire? Lasciando correre? Pensi che lei ne sarebbe contenta?
Lei?
Sai a chi mi riferisco.
Scosse la testa.
“Il passato è passato. Devo concentrarmi sul presente. E risolvere questo caso.”
Nethanienko si fermò in mezzo alla strada. Stava veramente parlando con se stesso? O era solo un effetto dei farmaci? Qualunque cosa fosse stato, doveva solo che essergli grato: lo aveva scosso dal profondo. Sfilò la sigaretta elettronica dalla custodia, la portò alle labbra e aspirò avidamente.
Qualcuno si era mosso, vicino al casolare. E lo aveva fatto più volte. Forse era connesso con l'incidente di due mesi prima, forse no. Ma l'incidente era collegato a Scirea, Scirea era collegato con il rapitore, il rapitore era collegato con La Magione degli Orrori. Tutto era connesso.
“Un buon punto di partenza, no?”
Rimase in silenzio, come ad attendere una risposta.
Niente.
Solo silenzio, solamente un ostinato silenzio.
Dov'era finita la voce? Si era rintanata da qualche parte in attesa di colpirlo alla sprovvista, poco ma sicuro.
Non l'aveva sconfitta, non lo avrebbe mai fatto. Da un po' di tempo a quella parte era diventata una presenza costante nella sua vita, forse era da schizofrenici ma non poteva più farne a meno; sicuramente, lo avrebbe accompagnato fino alla tomba.
Sarebbe stata con lui fino alla fine, nel bene e nel male, quella voce debole e soffusa, ma allo stesso tempo pungente e provocante.
Sorrise.
Una delle poche certezze che gli erano rimaste.
Un attimo eterno
“Una foto?”
“Sì. Cosa c'è di strano?”
Arianna inclinò il capo.
“Mi ha sorpreso, tutto qui. Ho notato che nei negozi non ti sei mai voluta specchiare... come se avessi paura di vederti dall'esterno. Una foto non sarebbe... peggio?”
Un lungo sospiro come risposta.
“No, per niente. Non con la mia macchina, almeno.”
“Hai una anche macchina fotografica?”
“Un'usa e getta a rullino. È ancora buona, me l'ha regalata un fotografo per cui ho svolto una commissione. Lui non se ne faceva più nulla.”
“E vorresti posare tu?”
“Ovvio, altrimenti per cosa li avrei comprati gli abiti?”
Arianna arricciò alcune ciocche di capelli attorno all'indice, arrotolandoli e liberandoli a più riprese. Un abbozzo di rossore sulle gote.
“Se vuoi... posso scattarla io.”
“Mi faresti un favore enorme! Grazie mille!”
Cassie si levò in piedi con un gesto rapido ed elegante allo stesso tempo, lasciando la mano di Arianna. Tirò fuori il cilindro e il giaccone dai sacchetti di plastica, stese il cappotto sull'amaca, si sfilò la giacchetta di pelle. Indossò nuovamente le scarpe, infilò il braccio destro nella manica, poi il sinistro. Il pesante indumento si raggomitolò attorno a lei, sbordando oltre le mani e toccando quasi terra dietro la schiena. Cassie rimboccò la manica sinistra, afferrò il cilindro e lo portò sopra la testa.
“Puoi controllare quella scatola di cartone sul secondo scaffale? Dovrebbe esserci una carta da gioco, dentro.”
Arianna si alzò a malincuore da terra e si diresse verso i mobiletti. Aprì la scatola e ne estrasse un inusuale asso di quadri, un rombo rosso con contorno bianco su sfondo nero. Sul bordo interno, una serie di ghirigori dorati a forma di serpente, con una mela disegnata sull'angolo in alto a destra. I serpenti addentavano il frutto sia dal basso, sia da sinistra.
“È davvero bella! Cosa devo farne?”
“Sistemala sopra il cappello, vicino alla fibbia... oppure, usa la fibbia per tenerla fermo, basta che ci stia e sia stabile.”
Con un po' di fatica, la ragazza riuscì a fissare la carta al copricapo, in modo che non si muovesse.
“Okay, sono pronta!”
Arianna prese la macchina fotografica e si allontanò di qualche metro.
“Non sono più abituata alle macchine analogiche, senza schermino è difficile...”
“Cerca di posizionarti in modo che la luce arrivi da sinistra, illuminando per bene l'asso di quadri. Non deve riflettere, solo venirne illuminato. Preferirei un'inquadratura di tre quarti, anche se forse quella frontale risulterebbe più efficace.”
Arianna sembrava smarrita.
“Non ci sto capendo niente, scusami.”
“No, scusa me. Sai, sono un'appassionata di cinema. Ho anche lavorato ad un film.”
“Come comparsa?”
“Come semplice attrezzista. Però per errore mi hanno ripresa, almeno in una scena... e alla fine hanno deciso di lasciarla nel montaggio, tanto non mi si nota.”
“Davvero? Di che film stai parlando?”
“Neonlight, sai, quello con Nicolas Cage. Compaio nella scena dell'incidente d'auto alla Encorp... ma ora non ha senso parlarne, è roba vecchia di quattro anni! Dai, scatta! Tutto il rullino, tutte le foto che puoi! Voglio essere sicura che ne venga bene almeno una!”
Arianna sorrise e portò il mirino all'occhio destro.
“Okay. Mettiti in posa...”
“Cheeeeeeese!”
CLICK!
Arianna scattò un totale di ventiquattro foto, in rapida successione, tutte con lo stesso soggetto. Il motore della macchina riavvolse il rullino e lo mise al sicuro da eventuali raggi di luce imprevisti. Cassie indossò nuovamente la giacchetta borchiata e ripose gli abiti nei sacchetti. Arianna le restituì l'usa e getta, abbozzò un sorriso impacciato.
“Come farai a svilupparle? Hai bisogno che ti presti qualcosa?”
Cassie rispose con un sorriso smagliante.
“No, proprio no! Il fotografo che mi ha regalato la macchina lavora fino a tardi e mi deve ancora un piccolo favore! Se ci vado verso le otto di stasera, saranno pronte per domani mattina, così potrò vedere il risultato!”
“Me ne mostrerai almeno una?”
Una linguaccia.
“Solo se saranno venute bene.”
Arianna accennò un sorriso, annuì con un cenno del capo. Tirò fuori il telefono dalla borsetta, controllò l'ora. Un lungo sospiro.
“Purtroppo devo andare, Cassie. È stato un bellissimo pomeriggio, parlare con te mi ha aiutato molto, mi ha fatto sentire... viva. Non so spiegarmi meglio di così, non so cos'altro dirti. Forse... forse solo grazie.”
“No, sono io che devo ringraziare te. Mi hai fatto sentire meno... difettosa.”
“Non dire così! Mica sei un robot! Sono gli oggetti ad essere difettosi!”
Scosse la testa.
“Non è vero, Ary.”
“Ne discuteremo la prossima volta, se ti va. Ora devo proprio andare.”
“Ehi, aspetta solo un attimo...”
Cassie estrasse un libro dalla credenza e lo porse alla ragazza.
“Ecco, questo è per te.”
Arianna strinse il volumetto tra le mani e lo esaminò con attenzione. Sulla copertina erano disegnati diversi personaggi: al centro una ragazza con gli occhi sgranati; a destra, un ragazzo dai capelli biondo cenere, vestito di un improbabile cappotto grigio, che brandiva una spada di foggia bizzarra; a sinistra un secondo ragazzo, con i capelli a caschetto bianchi, gli occhi azzurri, un ghigno tremendo stampato sul viso. Sullo sfondo, un'illustrazione che ritraeva un satellite in orbita attorno alla Terra, con un quarto personaggio sovrapposto – forse uno scienziato – quasi trasparente. Lesse il titolo ad alta voce.
“In Black'n'White?”
“Magari non è il tuo genere, ma vorrei che lo leggessi. È un bel manga autoconclusivo di circa quattrocento pagine, ambientato in un presente alternativo in cui l'U.R.S.S. non è mai crollata. Sai cos'è un manga?”
“I miei amici trovano stupido interessarsi ai fumetti a ventitré anni.”
“Poi magari sono loro i primi a leggere Topolino mentre sono al gabinetto.”
“Già.”
“Okay, se non ne hai mai aperto uno, ricorda che devi partire dal fondo e leggere da destra verso sinistra. I giapponesi scrivono così.”
Arianna strinse il fumetto al petto, poi lo ripose nella borsetta.
“Lo terrò a mente. Ora però...”
Cassie le fece l'occhiolino.
“Uh, già, già. Sei proprio sicura di volertene già andare? Peggio del bianconiglio...”
“Tra un'ora devo essere a casa. I miei genitori sono molto severi e...”
Cassie camminò distrattamente, fino a porsi tra Arianna e l'uscita del ponte, all'ombra pesante del cemento.
“I tuoi genitori, eh? Scusa la franchezza, era da un po' che volevo chiedertelo: tu sei ben più che maggiorenne, no? Credevo fossi più indipendente, che – che ne so, magari vivessi con delle amiche.”
“Ho sempre vissuto con i miei. Non ho mai disobbedito, sono sempre stata una brava ragazza, una figlia modello per una società produttiva...”
“... da pubblicità del Mulino Bianco?”
“Esatto.”
“E scommetto che non sie mai uscita con un ragazzo, né mai dato un bacio serio prima di oggi.”
Arianna sospirò.
“... sì. E tutto per tenere viva... una stupida immagine.”
“Beh, siamo ancora in tempo per rimediare.”
“Uh?”
Cassie premette i palmi sul muro alle spalle di Arianna, ai lati opposti del suo corpo, senza distogliere lo sguardo. Il verde smeraldo aveva iniziato a brillare nella semioscurità di quell'antro isolato dal mondo.
“Cassie...?”
Le labbra di Cassie si avvicinarono alle sue, senza darle il tempo di reagire.
“Cassie? Cosa...”
“Buon non-compleanno, Ary.”
Le lingue si intrecciarono in un abbraccio, ora inequivocabile. Nessun gesto di amore fraterno, nessuno scherzo. Cassie stava facendo sul serio. Arianna strabuzzò gli occhi, senti il volto arrossarsi, una vampata di calore attraverso ogni singola fibra del suo corpo. Portò le mani al petto di Cassie, come per spingerla via. Ma, invece di spingere, la tirarono a sé, più vicina.
Le loro bocche rimasero congiunte ancora per qualche secondo, prima che Cassie interrompesse il contatto. Arianna, respirò profondamente, questa volta conscia di quanto stesse accadendo al suo corpo.
“Cassie...? Non mi avevi detto che non eri dell'umore adatto per...?”
Cassie le infilo le mani sotto la blusa, sfiorandole i fianchi.
“Ora sì.”
“C... Cassie?”
Le mani scivolarono sulla pelle, raggiunsero il petto, scalarono il reggiseno, muovendosi ritmicamente sotto il vestito. Cassie chiuse gli occhi, socchiuse le labbra, le posò sul suo collo, iniziando a mordicchiarlo, a leccarlo a più riprese.
“N... no...”
“Shhhh.”
Arianna rimase immobile, la schiena appoggiata alla parete, il viso sempre più rosso, il respiro accelerato. Cassie le accarezzò i seni, tracciando il contorno dei capezzoli, poi scese lungo la schiena, afferrò i bordi della gonna, la iniziò a sfilare con leggerezza, portando alla luce un paio di mutandine bianche, poi sempre più centimetri delle gambe, fino ad accasciarsi miseramente sul letto polveroso del fiume in secca. Cassie portò la bocca all'altezza del seno di Arianna, iniziò a baciarlo avidamente al di sopra della blusa.
Arianna si lasciò sfuggire un gemito, mentre le mani ispezionavano i suoi glutei, tracciando linee immaginarie sulla pelle tesa. Le dita attraversarono il sottile confine del tessuto, sfiorarono la soffice peluria scura, già fradicia. La mano di Arianna raggiunse quella di Cassie, come per aiutarla ad entrare più in profondità. Ma Cassie rifiutò l'offerta, si ritrasse, spostando la sua attenzione alla blusa. Poco per volta, la sollevò, mettendo a nudo il ventre piatto, l'ombelico, il reggiseno, per poi sfilarla dalle braccia e lanciarla a terra senza troppe cerimonie. La baciò di nuovo, portandole le dita tra i capelli, sfilandole il cerchietto e liberando la zazzera castana, rimestando e mescolando, fino ad eliminare ogni traccia di regolarità, mentre le labbra rifiutavano di separarsi.
“Oh, Cassie...”
Cassie le morse il reggiseno, le dita tra il tessuto e la pelle, in moto continuo, scostandolo fino a mettere a nudo ciò che doveva nascondere, per poi ricoprirlo subito dopo. Le mani si mossero alla volta dell'ombelico, tracciandone il contorno, seguendo il rilievo dei muscoli, scendendo fino al basso ventre, scivolando sul tessuto bianco, per poi continuare lungo le cosce ed incontrare le calze, abbassandole un millimetro alla volta, liberando prima i polpacci, poi le caviglie, sempre più giù fino alla punta delle dita.
Cassie le accarezzò una ad una, baciò il collo di entrambi i piedi, poi di risalì, lenta, ma costante. Mordicchiò le cosce, posò le labbra sull'ombelico, leccandolo con decisione, mentre delineava il contorno dei glutei. Le sue dita scivolarono all'interno degli slip, dove la mano di Arianna languiva immobile.
“C... Cassie? Non...”
“Fidati di me.”
Cassie pizzicò l'elastico delle mutandine, allargandolo e stringendolo a più riprese, prima di iniziare a sfilarle. Ciuffetti scuri fecero man mano capolino, fino a rimanere completamente allo scoperto, protetti solo dalle dita affusolate di Arianna.
Cassie le tolse la mano con delicatezza, sfiorò la peluria, senza mai entrare, poi, senza alcun preavviso, aprì il gancio del reggiseno e glielo strappò di dosso, lanciandolo sul terriccio arido, vicino alla gonna.
Arianna, adesso, era completamente nuda, i capezzoli turgidi, il viso arrossato, gocce trasparenti a scorrere tra le gambe.
Cassie premette il proprio corpo contro il suo, la baciò sulla fronte, sulle labbra, sul collo, sullo sterno, sul seno, gli addominali, l'ombelico. Poi, tornò alle labbra, ma le altre, quelle più in basso.
“No, no, no...”
Era un no finto quello di Arianna, un no che gridava fallo in ogni frequenza della sua intonazione. E Cassie non si fece pregare.
“No... no... no!”
Arianna iniziò a gemere, prima piano, poi sempre più forte, sempre più forte, in un crescendo continuo di intensità. Prima del climax, Cassie si fermò, le lasciò un attimo per respirare, per riprendersi.
“Ah, Cassie...”
Ma era solo una finta. Un attimo dopo, la lingua tornò al suo posto, con ancora maggiore foga, guizzando come un anguilla. Fiumi limpidi scorrevano lungo le gambe, raccogliendosi in gocce condensate sulle cosce, copiosi, continui. I muscoli sempre più contratti, i gridolini sempre più intensi. I gemiti si intensificavano, sempre di più, sempre di più.
Poi, l'urlo, il grido liberatorio, il suo nome gridato al cielo.
I muscoli di Arianna si rilassarono all'improvviso, lasciandola scivolare fino a terra. Le natiche spoglie impattarono con la polvere, senza che Arianna potesse smettere di ansimare. Un velo di imbarazzo, resasi conto di quanto successo, del volume della sua voce.
“Cassie... io... io...”
“Shhhht.”
Cassie premette l'indice sul suo naso affusolato, gli occhi splendevano per la felicità. I suoi pantaloni erano leggermente inumiditi in mezzo alle gambe.
“Dovrò fare una lavatrice in più, forse.”
Senza dire altro, si slacciò la cintura, aprì il bottone, la cerniera, si sfilò i jeans, lasciandoli cadere a fianco alla pila di abiti di Arianna. Poi, fece la stessa cosa con gli slip, togliendoseli con lentezza e delicatezza. Una peluria rossiccia fece capolino dalle mutande, anch'essa umida. Poi, le scarpe, le calze, la giacca. Cassie rimase in t-shirt, inarcò il busto, si portò di nuovo su Arianna, le labbra a cercare i capezzoli.
“C... Cassie...?”
“Perché non finisci di spogliarmi?”
Le mani di Arianna tornarono a muoversi, tremanti. Non sapeva cosa fare, non si era mai trovata in una situazione del genere. Eppure, eppure...
“No... io...”
Cassie si strusciò su di lei, i loro sessi a contatto, un lento movimento ritmico.
“Guarda che non fa niente se sbagli, piccola.”
Arianna prese forza, tremante. Sfilo la maglietta, quella con le maniche di due lunghezze diverse, la lanciò goffamente per terra. Poi, provò a sganciare il reggiseno. Una, due volte, senza successo.
“Io... scusa, io...”
“Vai avanti.”
Un sospiro, un bacio sulle labbra, le lingue avvinghiate. La terza volta fu quella buona, il reggiseno cadde al suolo. Cassie le fece l'occhiolino.
“Ora dacci dentro, baby.”
**
Rimasero abbracciate a lungo, immobili, gli occhi negli occhi. Sguardi incrociati, senza alcun timore, senza paura di apparire, nessuna paura di essere. Le pile di indumenti sparse a destra e a manca, i corpi ricoperti di polvere e sudore, le dita di una nell’intimità dell'altra e viceversa. Gemiti sommessi, la chiusura soft di qualcosa che nessuna delle due era conscia di volere, fino a pochi minuti prima.
Ancora un bacio appassionato, le labbra si separarono. Poi, le dita interruppero l'esplorazione, prima da una parte, poi dall'altra, quasi in sincronia. Arianna posò la testa sulla spalla di Cassie, le palpebre socchiuse.
“Dimmi... è stato così bello per te, ieri notte?”
Cassie le accarezzò i capelli, tenendola stretta nel suo abbraccio. Un bacio sulla fronte.
“Non sei stata male, ma lei era molto, molto più esperta di te. Abbiamo fatto delle cose che avevo visto solo nei film! Mi dispiace, ma non sei ancora neppure lontanamente a quel livello... però prometti bene.”
“Questo è un colpo basso...”
“Non mi piace raccontare bugie.”
Arianna le strinse il capezzolo tra le dita, leccandolo delicatamente con la punta della lingua.
“Possiamo stare così per sempre, Cassie?”
“Nude, abbracciate e sedute sulla terra sotto un ponte su un torrente in secca?”
“Insieme.”
Cassie si esibì in uno dei suoi soliti sorrisi, il colorito del volto lentamente tornato alla normalità.
“Non sarebbe una cattiva idea...”
Le mordicchiò l'orecchio, sussurrando.
“... ma tu devi tornare a casa per cena, no?”
“... cena?!”
Arianna saltò in piedi, si precipitò a cercare la sua borsa, frugò nervosamente tra i vestiti, estraendo infine il suo cellulare, fissando impotente l'ora visualizzata sul display.
Le sette meno dieci.
“No, no, no! NO! Se non mi sbrigo, arriverò in ritardo!”
Iniziò freneticamente a rivestirsi, sbagliando più volte il verso della blusa e della gonna. Cassie rimase a guardare divertita, un sorrisetto malizioso stampato sul viso.
“Oh, a quanto pare il tuo per sempre è durato ben poco.”
Arianna allacciò le scarpe, iniziò maldestramente a correre verso la scaletta. Cassie allungò il braccio in direzione di Arianna, come per fermarla.
“Ary, aspetta! Stai dimenticando i tuoi occhiali!!”
Arianna si immobilizzò per un istante. Ponderò per un secondo, prima di rispondere con un sorriso radioso.
“Tienili pure. Non ne ho mai avuto veramente bisogno. Li usavo per darmi un'aria da intellettuale e scoraggiare i ragazzi imbecilli a corteggiarmi. Fino ad oggi, hanno funzionato molto bene... ma ora non mi servono più.”
Detto questo, corse verso l'argine del fiume, con la segreta promessa di tornare il giorno dopo.
E provare di nuovo le stesse sensazioni.
Ascendere
Un tiro non gli avrebbe fatto male. Non troppo, perlomeno.
È tutta salute, queste sono buone, dotto'.
Certo come no? Ringiovaniscono pure e ti fanno guarire dal cancro. Ridanno la vista ai ciechi e guariscono persino i paralitici. Le sigarette elettroniche sono il nuovo Salvatore, sceso dal cielo per affrancare l'umanità dai suoi mali, grazie ad una serie di miracoli di successo.
Ci vuole coraggio per credere ad una cosa del genere. Molto coraggio.
Spense la sigaretta e la ripose nella custodia. Doveva fare attenzione, ogni volta aveva la tentazione, il riflesso condizionato, di buttarla a terra e premere per bene col piede, in modo da spegnere il mozzicone. Il rischio di distruggere un aggeggino dal modico costo di una banconota verde era l'unico vero ostacolo all'esecuzione di quel gesto, così familiare. Si grattò nervosamente la benda, là dove una volta albergava un occhio verde abbastanza vispo. No, il suo Gesù portatile non gli avrebbe restituito la vista; forse gli avrebbe addirittura bucato i polmoni. Chi poteva saperlo? Non erano stati ancora pubblicati studi accurati sulla pericolosità o meno di quei surrogati all'estratto di nicotina.
Peggio che andare di notte.
E, in effetti, ormai era quasi notte. Le otto e trentacinque di una generica sera di marzo. Avrebbe potuto essere comodamente sdraiato sul divano di casa sua, a pensare ai fatti suoi, sfogliando vecchi album di fotografie. E invece era lì, vestito del suo pesante giaccone invernale, di fronte ad un casolare abbandonato, circondato da mine di ottima fattura. Ne aveva testato la bontà di persona.
“Lo abbiamo controllato quel casolare, Alex?”
“No, direi di no. Dev'essere un vecchio rifugio per pastori, o qualcosa del genere.”
“Non è che la ragazza che stiamo cercando potrebbe essersi rintanata lì dentro?”
“Dici?”
“Dico, dico. Provare non ci costa nulla, no?”
“Non ci scommetto niente.”
Una boccata di fumo dalla pipa.
“Io sì. Se non troviamo nulla là dentro, mi compro una stramaledetta sigaretta elettronica e tento di smettere di fumare.”
“Ho la tua parola, Andrea?”
“Ovvio. Ti sembro il tipo di persona che scherza sulla sua pipa?”
Scirea si muove, un passo alla volta.
“Ehi, Andre... te ne devo raccontare una... anzi due. Ti ho già detto perché voglio risolvere questo caso?”
“Forse sì. Mi avevi accennato qualcosina su... tua figlia?”
Un alone di rassegnazione.
“Sì, lei. È scomparsa due anni fa, modalità analoghe a quelle di questa catena di rapimenti. Per fortuna, Studio Aperto non ha mai potuto occuparsi del caso, altrimenti finivo io in carcere per omicidio volontario. Immagina: il giornalista si avvicina – scusi, ma lei è preoccupato per sua figlia? – lei perdonerebbe il rapitore di sua figlia? – lei voleva bene a sua figlia? – BLAM! BLAM! BLAM! Tutti morti!”
“Se fossi un giudice ti assolverei, Alex. Con formula piena. Comunque... cos'altro volevi dirmi?”
“Ho conosciuto una ragazza. Ha circa vent'anni.”
“Sbaglio o sei trent'anni più grande?”
“Cos'hai capito, imbecille? Volevo dirtelo perché è parecchio strana. L'ho trovata in stato confusionale in mezzo ad una strada. Nuda. Non spiccicava nemmeno una parola, così l'ho aiutata, le ho dato due vestiti rattoppati che avevo in casa e ho cercato di cavarle qualche informazione.”
“Non mi sembra che tu ne abbia denunciato il ritrovamento. Avresti dovuto...”
“Ho già controllato le denunce di scomparsa ma nelle liste non ho trovato nessuna persona che le possa assomigliare. Preferisco aspettare ancora un po'.”
“Cosa sai di lei?”
“Solo il suo nome.”
Scirea fa un altro passo.
“Ah... e come si chiama?”
“Ev...”
Un'esplosione. Scirea salta in aria. Sassi, ghiaia, schegge di legno in volo. Una raggiunge l'occhio destro. Blackout.
Già, come si chiamava quella ragazza? Ev... qualcosa. Evelina? Evanora? Eva? Non ce n'erano molti nomi che iniziavano in quel modo. Certo, se si fosse chiamata proprio Eva, sarebbe stata una bella coincidenza.
Eva.
Ne aveva conosciuta una, di ragazza con quel nome. Una bella ragazza dai capelli rossi, piena di vita, un po' bizzarra, ma a modo. Appassionata di cinema, forse un po' troppo. Blackout. Niente, meglio lasciar perdere.
“Perché sono venuto qui?”
Non chiederlo a me, mica te l'ho detto io.
Sei tornata, quindi?
Pensavi che potessi andarmene? No, una voce che si rispetti può solo stare zitta per un po', mai spegnersi del tutto.
Già, hai ragione. Ho sentito la tua mancanza. Ora, però, muta. Ho da fare.
Si avvicinò alla staccionata, senza fretta. Il nastro plastificato rosso a righe bianche era leggermente sbiadito, ma sembrava essere ancora in buone condizioni. Lo ignorò, per il momento: il suo obiettivo era un altro. Esaminò accuratamente il cespuglio più vicino al nastro di protezione e ne estrasse una piccola telecamera, di quelle col grandangolo. Collegò il suo palmare all'apparecchio e scaricò i dati nella memoria interna. Le ultime dieci ore di riprese erano a sua completa disposizione. Cancellò tutti i dati contenuti nel disco rigido del dispositivo, poi lo risistemò con cura, in modo che fosse invisibile dall'esterno. Si allontanò con tranquillità e si diresse verso la sua automobile – una Fiat Panda 4x4 con evidenti traumi alla carrozzeria, risalenti al periodo in cui...
No, lasciamo stare.
Aprì la portiera e si sedette al posto del guidatore. Inserì la sicura, in modo da evitare che qualche balordo potesse aprire le portiere dall'esterno, poi si sdraiò – letteralmente – sul sedile. Dieci ore di registrazione. Troppe. Anche volendo, non avrebbe potuto esaminarle da solo in un tempo ragionevole. Erano quasi le nove, troppo tardi per mobilitare i suoi agenti. Scrollò le spalle con noncuranza.
“Pazienza, ci darò un'occhiata domani.”
Certo. Così lasci al colpevole la possibilità di farla franca.
Non ti avevo detto di stare zitta?
Non ho saputo resistere.
Cosa dovrei fare, secondo te?
Lo sai già. Non c'è bisogno che te lo dica una vocina nella tua testa.
Sospirò. Dieci ore di straordinario non pagato. Una bella seccatura.
“Dovrò tornare a casa, se voglio provarci. Il mio tablet non ha autonomia sufficiente.”
Riportò il sedile all'inclinazione corretta, girò la chiave, accese le luci, innestò la prima. Il rombo familiare del motore permeò l'aria, sovrastando per un attimo il vento, una dolce tramontana che scompigliava le fronde degli alberi. Afferrò il volante con entrambe le mani, premette sull'acceleratore, partì alla volta del centro cittadino.
Prima arrivo a casa, meglio è.
**
Finestre chiuse, porte chiuse, sacchetti di patatine sparsi sul tavolo, un panino alla mortadella, thermos a portata di mano, televisore acceso. Premette il tasto play sul telecomando e si preparò ad una lunga attesa – come in uno di quei film d'autore in cui per mezz'ora non succede nulla.
Immagine in bianco e nero, leggermente disturbata da un trascurabile effetto neve. Qualità sufficiente ad apprezzare i dettagli. Svitò il tappo del contenitore stagno, riempì una tazzina di caffè e ne bevve il contenuto con poca convinzione. Se avesse avuto anche solo un briciolo di fortuna, avrebbe potuto ricavare informazioni molto utili da quella sequenza di inquadrature fisse monocromatiche.
Nelle due ore successive catalogò un cinghiale, quattro specie di fringuello, due scoiattoli e poco altro. Animali del bosco, intenti a farsi i comodi loro nei pressi del capanno abbandonato. Se fossero stati essere umani, non avrebbero varcato il recinto di plastica. Dopo aver letto quei cartelli dal tono leggermente allarmante – qualcosa del tipo campo minato: attenzione, pericolo di morte – chi l'avrebbe fatto, se non un ubriaco od un incosciente?
Sì, certo! Figuriamoci se questo è veramente un campo minato! È tutta una bufala, ci stanno prendendo in giro! Ne sono così sicuro che ci ballo sopra. Guardate!
Prima pagina dei giornali: esplode mina, ragazzo di venticinque anni perde l'uso delle gambe. E gli era andata ancora bene. I genitori avevano intentato una causa nei confronti del comune, della provincia, della regione... ma si sa come vanno a finire certe cose.
Il pericolo non era segnalato!
No, avete ragione. Quei cartelli sparsi in giro nell'arco di venti chilometri sono lì solo per ragioni estetiche, così come il filo spinato e il nastro di protezione.
Signora, se suo figlio è un deficiente, noi cosa ci possiamo fare?
Una bella risposta, chiara, trasparente, limpida come l'acqua: l'unica che le istituzioni non avrebbero potuto produrre. Per la cronaca, il giudice per le indagini preliminari aveva considerato il ricorso inammissibile. Era già qualcosa, ma non troppo. Sicuramente sarebbero tornati alla carica.
Sospirò.
Avrebbe dovuto concentrarsi sul video, non divagare in quel modo ma, dopo centoventi minuti di fermo immagine, se non trovi qualcosa da fare ti salta in aria il cervello.
Un'altra ora trascorsa.
Nulla di fatto. Animaletti del bosco, foglie trasportate dal vento, il cinghiale di prima. Nessun movimento. Osservò il lento movimento delle lancette dell'orologio: l'una di notte. Ancora nessuna novità. La telecamera era stata piazzata alle dieci del mattino circa, per cui nel filmato dovevano essere le tredici passate.
Chissà se all'ora di pranzo...
Sgranò l'occhio.
Un movimento. La maniglia si abbassa, la porta del capanno si apre, trascorrono un paio di interminabili secondi, la porta si richiude, la maniglia torna in posizione. Premette il tasto di riavvolgimento per analizzare nuovamente la sequenza. La maniglia, la porta... si erano mosse senza alcun intervento esterno. Svitò il tappo del thermos, riempì una tazzina e bevette un caffè, tutto d'uno fiato.
O sono completamente scemo, oppure qui c'è qualcosa che non quadra.
La maniglia si abbassa, la porta si apre, resta aperta per due, tre secondi, si richiude, la maniglia torna in posizione. Non poteva essere uno scherzo del vento, i movimenti erano troppo precisi e regolari. Qualcuno – o qualcosa – aveva aperto quella porta, probabilmente dall'interno.
Dall'interno? Non ne sono così sicuro, ho avuto la sensazione che fosse proprio il contrario.
Già, ma non c'è nessuno fuori, nessuno che abbia potuto farlo.
Non posso darti torto.
Allora, là dentro c'è qualcuno. Aspettiamo, magari ora esce.
Magari.
Trascorse un'altra ora di fronte ad una serie di immagini fisse, prive di sonoro. Una maratona del genere avrebbe sfiancato chiunque, ma quando finalmente hai trovato un indizio, l'adrenalina entra in circolo e ti dimentichi persino di dormire. Poteva forse sprecare un'occasione simile?
Certo che no.
Ed ecco che accade di nuovo: la maniglia si piega, la porta si apre – evidentemente dall'interno – e...
Basta, si chiude. Non ne esce nessuno.
Nethanienko non trattenne una mezza bestemmia. Chi è che poteva divertirsi ad aprire e chiudere porte senza motivo particolare? Un disturbato mentale con problemi psichici?! C'era davvero qualcuno, in quel maledetto casolare?
Stai calmo, Andrea. Non c'è bisogno di scomporsi. Hai già scoperto qualcosa, no? Il capanno non è così abbandonato come sembra. Chiunque si muova al suo interno, conosce precisamente l'ubicazione delle mine, non c'è altra spiegazione. Quindi ci sono solo due possibilità: o ha trovato un percorso sicuro utilizzando un metal detector – ma sarebbe comunque rischioso, senza lasciare qualche piccolo segno per terra – oppure ce le ha messe lui. Sai cosa significa? Che la morte di Scirea sarebbe imputabile non più al caso ma a questo fantomatico individuo, asserragliato in una casupola di quaranta metri quadrati, un individuo con qualcosa da nascondere, qualcosa che probabilmente si è premurato di far sparire quando Alessandro ci ha lasciato le penne. Suona credibile?
È precisamente la conclusione a cui sono arrivato.
Cosa faresti, se fossi in lui?
Probabilmente romperei la telecamera, facendolo passare per un incidente. Nel frattempo, cambierei covo, o mi preparerei a farlo.
Okay. Dici che è il caso di visionare il resto del materiale?
Purtroppo sì.
Nethanienko riuscì a vincere la sua strenua lotta contro il sonno, continuando imperterrito a visionare immagini per le cinque ore successive. Un thermos di caffè da quattrocento centilitri, rigorosamente vuoto, osservava sconsolato le borse che si erano formate sotto i suoi occhi. I sacchetti di patatine giacevano accatastati qua e là, privi sia di forma che di consistenza. Certamente, quella notte non sarebbe rientrata nella top-ten delle sue serate migliori.
Però hai degli indizi.
Già, degli indizi. Indizi pesanti. Afferrò malamente un foglio di carta su cui si era segnato due o tre osservazioni con tanto di tempistica precisa e lo rilesse, cercando di decifrare la sua stessa scrittura.
Dunque, vediamo...
ore 10:04 – inizio registrazione
ore 13:08 – la porta si apre per la prima volta. Nessun dettaglio interessante;
ore 14:31 – la porta si apre per la seconda volta. Nessun dettaglio interessante;
ore 16:18 – la porta si apre per la terza volta. Si intravede un luccichio, il riflesso del Sole su un pannello lucido (uno specchio?);
ore 18:12 – la porta si apre per la quarta volta. Per un secondo si intravede una figura femminile comparire dal busto in su (verificarne l'identità!);
ore 19:40 – la porta si apre per la quinta e ultima volta. Nessun dettaglio utile;
ore 20:32 – fine della registrazione.
Cinque eventi significativi nell'arco di dieci ore.
Un buon numero, in fondo.
Il più interessante era il quarto: sullo sfondo, durante l'apertura della porta, compariva una ragazza. Era impossibile sbagliarsi su quel punto, il fermo immagine era nitido e il filmato possedeva una qualità sufficiente a distinguere alcuni dettagli anatomici. Poteva essere una delle giovani scomparse? Era un'ipotesi come un'altra, dopotutto, ma particolarmente promettente.
Sorrise nervosamente.
In meno di dodici ore era passato dal non avere indizi di sorta a possedere una traccia concreta, una traccia utile a risolvere non solo il caso di rapimento, ma assicurare anche l'assassino di Scirea alla giustizia. Una progressione incredibile, degna del miglior detective di un romanzo giallo. Certo, aveva avuto anche una discreta dose di fortuna, la felice intuizione di un suo agente, la telecamera piazzata nel punto giusto al momento giusto... ma anche una notevole intraprendenza. Non era da tutti perdere un'intera notte di sonno solo per visionare un filmato di sorveglianza. O forse era meglio chiamarla stupidità? Avrebbe potuto controllare con calma il nastro il giorno dopo, assieme ai suoi uomini, dividendo il lavoro. Per esaminare tutte le dieci ore di registrazione ne sarebbero bastate circa tre... ma forse, sapendo in anticipo quali erano i punti di interesse, avrebbero potuto concentrarsi solo su quelli. Un bel risparmio di tempo.
Fissò pigramente l'orologio. Erano le sei e mezza di mattina. Poteva permettersi ben due ore di sonno.
Senza rimorsi, si adagiò sul divano, ad occhio chiuso. La sveglia era puntata, nessun problema.
Mentre la sua mente scivolava nel mondo dei sogni, il suo cervello riuscì ad elaborare un ultimo pensiero. Se tutto fosse andato come previsto, la sua sarebbe stata un'ascensione bella e buona nell'olimpo degli Sherlock Holmes.
Certo, come no? Però Sherlock Holmes mica ce l'aveva una vocina che gli parlava nella testa...
Già, già. Lui aveva il dottor Watson.
Ma è solo una questione di gusti, in fondo.
<In Black'n'White>
“Spero lo stufato sia di tuo gradimento, Arianna.”
“Sì, papà. Grazie mille.”
“Dopo l'incidente di oggi pomeriggio, ti meriti un po' di tranquillità.”
Già, l'incidente. Una scusa semi-decente per giustificare il misero stato dei suoi abiti: un camion scoperto che trasportava sabbia per il rifacimento del litorale era transitato ad alta velocità mentre lei si trovava a bordo strada, inondandola di polvere dalla testa ai piedi. Una eventualità non troppo implausibile, dopotutto, anche se estremamente distante dalla realtà. Suo padre aveva rimuginato qualcosa sul chiamare la società per fare una tremenda lavata di capo al responsabile – e magari fargli perdere il posto, ma Arianna lo aveva convinto a desistere. Sua madre si era limitata a lamentarsi ad alta voce di come qualcuno avrebbe potuto vederla conciata in quel modo, minando l'immagine perfetta della sua famiglia.
Tipi severi, i suoi genitori. Troppo appiccicosi. Non le avevano mai permesso di frequentare qualcuno al di fuori di un cerchio ristretto di amicizie approvate, con tanto di pedigree. Non le avevano permesso di uscire con alcun ragazzo, rimarcando come sarebbero venuti a sapere se si fosse appartata con qualcuno. Una prigione dorata, la sua, una prigione dalla quale non aveva mai tentato di uscire seriamente. Vivere nella bambagia non le dispiaceva, in fondo. Almeno, prima di conoscere Cassie.
Suo padre mandò giù un boccone, poi fissò la figlia negli occhi.
“Oggi pomeriggio, mi ha telefonato Martina, la tua compagna di corso. Mi ha detto che dovevate vedervi, ma all'improvviso hai fatto saltare tutto. Mi ha chiamato per chiedermi se – parole sue – ti ho proibito, per qualche motivo, di frequentarla. Cosa che io non ho assolutamente fatto. Posso sapere perché hai cambiato programma?”
Erano solo loro due, seduti al tavolo. La madre era uscita per la lezione serale di aerobica e non avrebbe fatto ritorno prima delle dieci di sera. Arianna ringraziò sottovoce di dover affrontare lo sguardo inquisitore di uno solo dei suoi genitori e si preparò alla controffensiva.
“Mi ero dimenticata di un impegno più urgente, tutto qui.”
“Ha a che fare con quella perdigiorno che ti importuna da un paio di mesi?”
Il cuore di Arianna saltò un battito. Il padre se ne accorse, incrociò le mani sotto il mento.
“Una squilibrata, pazza da legare, che non studia e non lavora. Una piaga della società che, per qualche motivo, ha iniziato a ronzarti attorno come un'ape al fiore. Stiamo parlando di lei, non è vero?”
“Sì, stiamo parlando di lei. Le avevo promesso di aiutarla a comprarsi un vestito.”
“Quella zecca ti ha chiesto dei soldi?!”
“No, assolutamente no! Anzi, ha pagato tutto lei! Voleva solo un consiglio femminile sui colori... e mi ha chiesto di scattarle una foto. Credo volesse inviarla ad un suo parente, o almeno così ho capito.”
Una somma di bugie e realtà, mescolate assieme senza quasi pensare. L'unico modo per nascondersi. Suo padre la fissò severo.
“Non ti avevo formalmente proibito di frequentarla?”
“Sì, lo avevi fatto.”
“Perché hai disobbedito ai miei ordini?”
Arianna si alzò dalla sedia, sbatté entrambe le mani sul tavolo.
“Perché era la cosa giusta da fare! Io... io dovevo, volevo rivederla!”
L'uomo rimase in silenzio, scrutando l'espressione decisa della figlia.
“Papà, tu non hai mai deciso di fare qualcosa contro il volere dei tuoi genitori? Non hai mai pensato con la tua testa? Ordinami quello che vuoi e io lo farò, comportandomi da brava bimba obbediente. Ma non proibirmi di frequentare Cassie, perché farò comunque di testa mia!”
“Farai di testa tua...”
Una pacca sulla zazzera castana della figlia. Un gesto di amore paterno.
“Era da tempo che volevo sentirti dire queste parole.”
Arianna notò qualcosa che aveva visto raramente sul volto arcigno del genitore: un sorriso genuino. Non tirato, o di circostanza. Un sorriso vero.
Senza dire altro, terminò di ingollare lo stufato, per poi dirigersi verso le scale per il primo piano.
“Devo... devo studiare per un esame. Torno a salutarti prima di andare a dormire.”
“Solo un secondo, Arianna.”
La ragazza si fermò all'istante.
“Prima mi hai chiesto se non ho mai fatto qualcosa contro il volere dei miei genitori...”
“E?”
“Beh, ho sposato tua madre.”
Detto questo, il padre si mise a sedere sulla poltrona, iniziando a leggere il quotidiano. Era impossibile scorgere la sua espressione, da dietro le pagine accartocciate, ma Arianna avrebbe scommesso di aver udito una risatina soffocata.
Impossibile, pensò.
Poi, si infilò in camera sua e chiuse la porta.
**
Arianna si mise comoda, sdraiata sul letto, in slip e maglietta. Non riusciva ancora ad afferrare del tutto quanto accaduto durante il pomeriggio. Le sue dita avevano provato a risvegliare qualcosa, ma l'autoerotismo appena accennato a cui si era sottoposta non era riuscito a soddisfarla. Non dopo quello che aveva provato sulla propria pelle, almeno. Si ripulì con un fazzoletto, poi estrasse un volumetto sciupato dalla borsetta.
Ufficialmente, doveva terminare un saggio di economia del turismo sullo sviluppo del ponente ligure nel secondo dopoguerra; in pratica, sarebbe stata solo una copertura. Arianna accarezzò con lo sguardo la copertina del fumetto prestatole da Cassie, un tratto di disegno morbido, espressivo... qualcosa con cui non era mai entrata in contatto. Non aveva mai letto un manga, non ne aveva mai avuto occasione. Considerava il fumetto un passatempo per bambini, un modo per non crescere.
Era stata condizionata a pensarla in questo modo, da quello stesso, enigmatico genitore che stava leggendo il giornale al piano di sotto e non si era accorto dei gemiti sommessi provenienti dalla sua camera. L'insonorizzazione era ottima, per fortuna: era stata una richiesta di sua madre, per permetterle di studiare anche durante una serie interminabile di lavori in corso che avevano dissestato il quartiere per alcuni mesi. I lavori erano terminati da un pezzo, ma l'insonorizzazione era rimasta.
Arianna analizzò nei dettagli la copertina, quel mondo così alieno che aveva solo ammirato da lontano. I capelli biondo cenere del personaggio sulla sinistra, ancora privo di un nome, gli occhi gelidi del ragazzo sulla destra... un mondo diverso, con cui fare conoscenza. Avrebbe potuto interessarla veramente? Forse no. Dopotutto, Cassie aveva gusti completamente diversi dai suoi, ma valeva la pena provare.
Aprì il volumetto dall'ultima pagina, sfogliandolo da destra verso sinistra.
Come previsto, le pagine erano in bianco e nero, animate da intense sfumature di grigio. Si sdraiò sul letto ed incominciò ad assaporare la vicenda, vignetta dopo vignetta. In pratica era la storia di una diciottenne di nome Ellie, incapace di vedere a colori. Tutto il suo mondo era in bianco è nero, persone, cose, animali. Poco per volta, faceva la sua comparsa un altro personaggio, Karel Reiter, detto Mizar, il biondo della copertina. Mizar pedinava Ellie per ordine di uno scienziato, il dottor Loocke, che sembrava essere interessato a lei per motivi ignoti. Pagina dopo pagina, l'intreccio si complicava, con l'introduzione di Sasha Cherenkov, il tizio dai capelli bianchi e gli occhi gelidi che brandiva due granate inesplose come mazze, ed Ewan McLeod, un agente di polizia un po' particolare, con i capelli appuntiti e gli occhi neri. Sasha iniziava a rapire persone, McLeod doveva indagare sulla loro scomparsa. A metà della storia, Ellie veniva catturata da Sasha e portata al dottor Loocke. Lo scienziato la sottoponeva ad una serie interminabile di esperimenti, senza mai farsi vedere in volto. Mizar ed Ellie entravano in contatto ed imparavano a fidarsi l'uno dell'altra. Scena culmine con Mizar che spiega alla ragazza di essere destinato a morire, visto che i suoi polmoni artificiali hanno una carica limitata.
Dissolvenza.
Il dottore prepara un'arca orbitale con cui salvare due animali per ognuna delle specie terrestri più importanti, eccetto l'uomo. Ellie è una sua creatura, progettata in modo da incubare un tremendo virus tubercolotico, in grado di sterminare il genere umano per il bene del mondo. Ewan raggiunge il covo di Loocke, lotta con Sasha – baionetta contro mazze – e lo ferisce a morte. Sasha vuota il sacco, gli permette di raggiungere il mandante dei rapimenti. Nel frattempo, Mizar porta via Ellie con sé, le grida gli altri come te sono già stati uccisi. La prossima sei tu!
Distrugge i robot di guardia con la spada elettrizzata, si fa largo all'interno della prigione. La porta via, scappano! Scappano! Ma Mizar si accascia a terra.
Mizar! Mizar! Rispondimi, ti prego! – Non può farlo. Gli ho spento i polmoni.
Loocke compare dal nulla, tenta di riprendere Ellie. Mizar, con uno scatto disperato lo blocca, prima di esalare l'ultimo respiro.
Dissolvenza!
Non ora! Non proprio ora!
Sasha, morente, ride, ride! Un ghigno malefico si stampa sul suo volto. Flashback sulla sua vita. L'infanzia, il missile che colpisce casa sua, l'ossessione per gli esplosivi, per le granate, per la dinamite. Sasha è in agonia, ma continua a ridere, panoramica sui suoi occhi, zoom in silenzio: sulla sua pupilla, la stazione spaziale di Loocke, l'Arca.
Cosa vuol dire?
Cambio di scena. Ellie fugge terrorizzata, fugge vestita solo della camicia di forza con cui l'hanno imprigionata. Corre sotto la pioggia, pensando a Mizar, inciampa! Cade, cade! Passi? Un uomo si avvicina.
Adesso la riprendono!
No, è McLeod! La aiuta, la porta via con sé, al sicuro. Loocke si libera del cadavere di Mizar, è comunque soddisfatto, il virus è pronto, deve solo liberarlo. Osserva la sua stazione spaziale dagli schermi.
Un momento... cosa sta...
L'Arca esplode, con tutti i suoi occupanti, nel silenzio del cosmo. Loocke grida disperato. Sasha? Questo botto sarà bello grande, eh! Sarà il mio miglior fuoco d'artificio!
Aveva messo una bomba sulla stazione?! Ma certo! È ossessionato dalle esplosioni!
Monologo di Loocke, tutto è perduto, senza l'Arca, il progetto Pandora fallisce. Ingoia il contenuto della fialetta che ha in mano, attiva l'autodistruzione delle cisterne, poi si spara. I morti non possono diffondere un contagio inutile. Chiusura sugli occhi di Mizar, aperti. Sembra felice.
Cambio di scena, due anni dopo.
Ellie ai giardini comunali con in braccio un bambino biondo.
Non mi dirai che...
I tratti del viso del piccolo assomigliano a quelli di Mizar. Ellie sorride, sorride perché può capire i colori, li vede come emozioni e li associa ai toni di grigio. Sorride anche al suo bimbo, poi alza lo sguardo al cielo.
Sai, Mizar? Un colore ho imparato a riconoscerlo anch'io. Quello della speranza.
Dissolvenza sul tramonto, primo piano sugli occhi chiusi del bambino. Gli occhi si aprono, pagina completamente bianca.
Fine.
Arianna chiuse il fumetto in estasi. L'aveva divorato, tutto d'un fiato, senza fermarsi un attimo, non era riuscita a scollare gli occhi da quei disegni.
Perché vergognarsi di leggere manga, se erano così belli?
Incominciò a sfogliarlo, dalla prima pagina, dalla prima scena. Sicuramente aveva mancato dei dettagli, sarebbe stato bello rileggerlo tutto, con calma e tranquillità.
Dall'inizio, di nuovo!
La stessa sensazione di meraviglia, di stupore...
Bello, bello davvero! E io che ho sempre rifiutato di comprare fumetti...
Un segno sull'angolo bianco di una pagina? Non ci aveva fatto caso, ad una prima lettura, era troppo impegnata a seguire la storia. Una scritta, a caratteri microscopici, in corsivo, tracciata con inchiostro nero. Sembravano i tratti di una stilografica, sicuramente non facevano parte del volume.
Un messaggio?
La grafia era pessima, ma qualcosa si poteva capire.
“Cosa dice qui? C'è una data...”
Venticinque dicembre. Sono qui. Di nuovo. È strano. Difficile. Parlo a fatica. Alessandro mi ha regalato questo fumetto. Ci aggiungerò qualche nota qua e là.
“Cassie?”
Sfogliò con attenzione il volumetto in cerca di altre annotazioni.
“Ecco qui.”
Due gennaio. Ho una giacca e delle scarpe, ora. Sono belle, difettose come me. Mi sento molto come Ellie. Non ricordo il sapore del cibo, voglio provare.
“Cosa significa... non ricordo il sapore del cibo? Dal venticinque dicembre al due gennaio non ha mangiato? Ma che cavolo... ?! Dev'essere uno dei suoi soliti scherzi.”
Proseguì senza indugio.
Sette gennaio. Ho mangiato un panino al prosciutto. Ho conosciuto Arianna. L'ho baciata. Strano. L'idea mi fa schifo. È strana anche lei, però mi piace.
“Okay, questo torna con quanto ricordavo...”
Avanti!
Nove gennaio. È morto Alessandro. Ucciso da una mina. Sono triste.
Avanti!
Sedici gennaio. Ho visto Neonlight, finalmente. Sono arrivata tardi, mi sono fatta raccontare le prime sequenze. C'è anche la mia scena e una dedica all'inizio. Non pensavo mi ricordassero.
Una dedica all'inizio? Ma in generale...
Diciassette gennaio. Gli specchi non mi riflettono, non posso vedermi. Pensavo di essermi sbagliata, ma oggi ne ho la conferma. Allora è vero.
Vero?!
“Cosa stai cercando di dirmi, Cassie?”
Sette febbraio. Arianna mi è venuta a cercare. Non mi ero sbagliata sul suo conto. Troppo repressa, devo fare qualcosa.
Avanti!
Undici febbraio. Mi ricordo una foto. Mi ritrae vestita in modo strano, per chi era? Magari se la rifaccio mi viene in mente.
Gli abiti del giorno prima...
Venti febbraio. Le macchine digitali non mi vedono. È come se fossi un fantasma, è triste. Sono veramente viva?
“Ancora con questa storia?! Certo che sei viva! I morti non scrivono!”
Ventisei febbraio. Mi oriento sulle vecchie pellicole. Magari un'usa e getta può funzionare. Vedo regolarmente Arianna. È brava e bella, prima o poi potrei combinarci qualcosa.
“Qualcosa? Cosa intendi con qualcosa? Pensavi già a... a quello che è successo oggi? Cassie...”
Sette marzo. Sono due mesi che conosco Arianna. È il mio unico contatto con la realtà. Ora ricordo per chi è la foto, ma non mi viene in mente com'è fatto.
Avanti, avanti!
Nove marzo. Per dieci minuti, il mio mignolo destro è scomparso. Temo di essere instabile. Devo fare in fretta.
Instabile? Cosa significa... instabile? Non ha senso!
Dieci marzo. Sono andata in discoteca, lì una ragazza mi ha avvicinato. Era bella, con quei capelli neri, quegli occhi azzurri, quell'abito bianchissimo. Ci siamo baciate e abbiamo fatto l'amore, per tutta la notte. Se lo dicessi ad Arianna vomiterebbe. Non mi ha detto il suo nome. Però ho il suo numero. A lei ho detto molte cose.
Arianna prese un pezzo di carta e si segnò velocemente il numero riportato. Magari era stupido, ma si sentiva gelosa, gelosa di quella sconosciuta. Le parole di Cassie le ronzarono nuovamente nella testa.
“Era molto, molto più esperta di te. Abbiamo fatto delle cose che avevo visto solo nei film! Mi dispiace, ma non sei ancora neppure lontanamente a quel livello...”
“Questa stronza... io...”
Niente. Non avrebbe fatto niente. Non c'era motivo per prendersela con lei, dopotutto. Sospirò e sfogliò il fumetto. Mancavano meno di quaranta pagine alla fine.
Tredici marzo. Chiamerò Arianna, ho bisogno di lei per la foto. Spero di poterle raccontare tutto, prima o poi. Oddio, Arianna è così bella, ma è troppo, troppo repressa! Chissà se prima o poi scatterà qualcosa tra me e lei? Riuscirò a cambiarla almeno un po'?
Tredici marzo.
“Oggi. L'ha scritto prima di chiamarmi. Cosa avrebbe dovuto raccontarmi?”
Arianna strinse il volumetto tra le braccia, ancora una volta. Ormai era chiaro, Cassie glielo aveva dato per due motivi: farle conoscere un nuovo mondo... e permetterle di leggere il suo personalissimo diario.
Si fida di me. Si è sempre fidata di me.
Ci pensò su un attimo. Doveva riorganizzare le idee, e il modo più efficace per farlo era...
Si alzò dal letto, riprese il volume e lo riaprì alla prima pagina.
Venticinque dicembre. Sono qui. Di nuovo. È strano. Difficile. Parlo a fatica. Alessandro mi ha regalato questo fumetto.
Strappò un foglio da un quaderno ed iniziò a ricopiare le annotazioni, una dopo l'altra. Due gennaio.. Sette gennaio... Nove gennaio... Sedici gennaio... Diciassette gennaio... Sette febbraio... Undici febbraio... Venti febbraio... Ventisei febbraio... Sette marzo... Nove marzo... Dieci marzo... Tredici marzo...
“Fatto!”
Rilesse gli appunti di Cassie tre volte, sempre più lentamente, pesando ogni parola. C'era qualche indizio, qualche dettaglio da approfondire?
Sedici gennaio. Ho visto Neonlight, finalmente. Sono arrivata tardi, mi sono fatta raccontare le prime sequenze. C'è anche la mia scena e una dedica all'inizio. Non pensavo mi ricordassero.
Neonlight...
Cassie aveva partecipato alla lavorazione del film, come attrezzista. Qual'era la dedica a cui si riferiva? Difficile ricordarlo, dato che quel film lei non l'aveva mai visto. Un thriller fantascientifico ambientato in un futuro vicino. Non sembrava molto interessante, ma era l'unico punto di partenza che aveva a disposizione. Difficile credere a frasi come gli specchi non mi riflettono o le macchine digitali non mi vedono, ma se così fosse stato...
“Cassie, cosa significa? Cosa vuoi dirmi?”
Doveva vedere quel film, assolutamente... ma dove poteva trovarlo? All'Ed Wood? Quello scalcinato cinema di quartiere?
Ma sì, certo! Era sui suoi cartelloni, qualche giorno fa! Ma è ancora aperto, a quest'ora?
Tentare non sarebbe costato nulla, dopotutto.
Guardò l'orologio: erano le otto e mezza circa. I suoi le avrebbero permesso di uscire a quell'ora?
No, non è questa la domanda giusta. Ho ventitré anni, maledizione! Non sono il cagnolino dei miei genitori! Non vogliono che io esca? Ed io esco lo stesso! È troppo importante, devo riprendere le redini della mia vita, voglio riprenderle... e Cassie è l'unica che può aiutarmi a farlo. Per questo, devo sapere!
Chiuse il volumetto, lo ripose nella libreria e scese in soggiorno. Suo padre stava ancora leggendo il giornale della mattina, in cerca di notizie che potevano essergli sfuggite ad una prima occhiata. Un passo. Due passi. Tre. Sempre più vicini. L'uomo alzò la testa dal quotidiano.
“Cosa c'è, Arianna? Tutto a posto? Hai già finito di studiare il libro di economia?”
Non l'ho neanche iniziato.
“Certo. Ora, però, devo uscire. Ho una commissione importantissima da sbrigare.”
“Alle otto e mezza di sera? Senti un po', signorina...”
Lasciò il giornale sul tavolo e si voltò verso di lei.
“Non è che sei uscita con qualche ragazzo senza che io lo sapessi? Sai bene che...”
“Dev'essere di buona famiglia, non avere precedenti penali e sottoscrivere un impegno firmato che mi garantisca di arrivare vergine al matrimonio. Sì, sì, me lo ripeti ogni volta. Non c'entrano niente le questioni di cuore.”
O forse sì, ma non posso dirtelo apertamente.
L'uomo si grattò i folti capelli neri, piagati qua e là da ciuffi bianchi che sembravano moltiplicarsi, anno dopo anno. Una maledizione.
“Non mi sembra di aver mai preteso una firma...”
“Andiamo, pa'. Se ti dicessi che ho scopato con un ragazzo, tu mi manderesti in ginocchio davanti al confessore, col rosario in mano a snocciolare avemarie! E questo solo perché devo mantenere il decoro della famiglia! Prova a dirmi che non è vero!”
L'uomo si massaggiò il mento, con gli occhi chiusi.
“Non è troppo lontano dalla realtà, ma adesso c'entra qualcosa?”
“Ho solo risposto alla tua domanda. Ora devo andare.”
“Dove?”
Meglio dire la verità – almeno in parte.
“Al vecchio Ed Wood. C'è un film che devo assolutamente vedere, lo danno solo lì perché è un po' datato.”
“Come mai tutta 'sta voglia di andare al cinema? Non mi sembra che tu ti sia mai...”
“Scusa, ma è troppo importante. Una mia amica potrebbe essere nei guai.”
“E te cosa c'entri? Che chiami la polizia, tanto quelli si grattano il belino dalla mattina alla sera!”
“C'entro proprio perché sono sua amica! Lasciami andare, ti prego! Tornerò prima di mezzanotte.”
È – letteralmente – una questione di vita o di morte.
Il padre rimase in silenzio, indeciso sul da farsi.
“Vuoi fidarti di me, per una volta? Sono maggiorenne e vaccinata, ho più di vent'anni! Sono quasi una donna, ormai – anzi, togli pure il quasi. Tu puoi fissare le mie linee guida, ma la vita – questa vita – è la mia. Devo essere in grado di gestirmela, non trovi?”
L'uomo non proferì sillaba, si limitò ad annuire col capo. Arianna sorrise, poi si diresse a passo deciso verso l'uscita.
“Tieni il cellulare acceso e torna prima di mezzanotte. Spiego tutto io a tua madre.”
L'uomo si fermò per un attimo, come per pesare le parole.
“Non mi deludere.”
Arianna rimase immobile per un paio di secondi, respirando ad occhi chiusi, quasi in religioso silenzio.
Non c'è tempo da perdere.
Si fece coraggio ed attraversò la porta.
Go c c e d i d o l o r e
La pioggia scrosciava con forza, ticchettando in modo continuo, ritmico sulle lucide lastre di pietrisco che rivestivano il terreno. Un pianto insistente, incessante, interminabile. Sembrava quasi che il cielo fosse stato colto da un tremendo male di vivere ed avesse deciso di riversare tutto il proprio dolore, tutta la propria tristezza, l'angoscia, i timori, le paure, in quelle lacrime.
Poetico, certamente. Troppo. Amo le cose concrete.
Un rovescio inatteso, l'ultimo strascico d'inverno. L'analisi logica della situazione non lasciava adito a dubbi. L'ombrellino da passeggio partecipava a quella danza umida e priva di coerenza, il suono di cento ballerini di tip tap fuori tempo, ognuno per conto suo. Era scomodo da tenere, ma non poteva fare altrimenti: l'alternativa era inzupparsi da capo a piedi. Abbassò lo sguardo.
Perché ho indossato un abito bianco? Questa maledetta pioggia potrebbe rovinarmelo. E i miei sandali? Forse avrei fatto meglio a mettere un paio di scarpe impermeabili, così magari i miei piedi rimanevano all'asciutto.
Non era l'abbigliamento adatto per visitare un cimitero, forse,. I passanti la pensavano quasi tutti allo stesso modo, ce l'avevano scritto negli occhi. Occhi malevoli, capaci solo di dispensare giudizi.
Scrollò le spalle.
Che acidità. Solo perché non sono vestita a lutto... Francesco non mi avrebbe voluto vedere vestita di nero. A lui piaceva il bianco, mi consigliava sempre di vestirmi di bianco. Perché avrei dovuto scegliere un altro colore? Anche a me piace il bianco. Ho i capelli neri, forse è per questo. Bianco e nero creano un bell'accostamento, l'unico degno di nota, a mio parere; o meglio, a parere di Francesco. Quanto mi mancano i tuoi consigli...
Un passo dopo l'altro, verso la tomba di famiglia.
Ho sempre fatto quello che mi hai detto, Francesco... e tu hai sempre esaudito i miei desideri, hai sempre trovato di che soddisfarmi. Sapevi organizzarti, sapevi servirmi bene. Non mi hai mai toccato, nonostante la rapacità dei tuoi occhi, Francesco. Di questo, non posso che esserti grata. Sei il solo che mi abbia mai capita.
Un mausoleo bianco ornato da una cupola liscia fece la sua comparsa aldilà dell'angolo. Marmo candido solcato da nervature di ardesia, nere come la pece. Il luogo dell'eterno riposo.
Bianco e nero... nero e bianco. Bene e male, senza sfumature. Esistono le sfumature, Francesco? O forse esistono solo quelle? Possibile che viviamo tutti un'esistenza grigia, sospesi tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Ma cos'è sbagliato, dopotutto? Esprimere liberamente se stessi? Forse sì. Dipende tutto dalla società, da cosa pensano gli altri. Me lo hai detto più volte di stare zitta, di comportarmi in modo decoroso, di non aggravare la mia posizione... ma vedi, Francesco... io sono io.
Chi altri dovrei essere?
Entrò nell'imponente costruzione, ignorando lo stemma e il motto di famiglia. Roba noiosa di cui non era il caso di occuparsi. Chiuse l'ombrellino bianco e lo scrollò con vigore, liberandolo dalle numerose gocce d'acqua che avevano trovato casa tra le sue stecche, lo lasciò vicino alla porta, alzò gli occhi. I suoi genitori la salutarono dalle foto, appese tutte attorno a lei. Si avvicinò alla lapide e accarezzò con dolcezza il volto stampato di suo padre.
“Non ci siamo mai chiariti, papà. Sei morto prima che io potessi scusarmi...”
Voltò la testa di scatto.
“... ma forse è meglio così. Sai, non ho mai capito di cosa io dovessi vergognarmi. Dopotutto, non è stato del tutto un male. Grazie alla tua dipartita, mi sono potuta liberare delle tue imposizioni e, almeno per due anni, mostrare al mondo, al mio mondo, chi sono veramente.”
Ignorò completamente la madre e si avvicinò ad una lapide più piccola, posta accanto alla tomba principale. L'immagine ritraeva un uomo sulla trentina, con i capelli neri, lisci, lunghi fin sotto le orecchie, un uomo dal viso affilato e dagli occhi scuri, lucidi, le sopracciglia inarcate in segno di sfida. La data di nascita.
La data di morte.
“Ciao, Francesco. Ti sono mancata? Com'è dall'altra parte? È tutto così luminoso come mi hanno raccontato? Prima o poi ti raggiungerò. Sai? Hanno fatto un film su di te, ho scritto io la sceneggiatura. Non so come sia venuto, non l'ho visto alla fine. L'attore che hanno scelto per interpretarti sembra gay... e tu non lo eri. Non so, magari nessuno capirà mai cosa vuol dire, nessuno tranne me... però è abbastanza. Ogni volta che lo proiettano, tu esegui ancora le mie volontà, mi porti ciò che ti chiedo. Tutto come una volta, prima che tu morissi. Però non capisco, Francesco, non capisco proprio! Che bisogno c'era di... di...”
Una goccia raggiunse il pavimento, ornato da sfarzose piastrelle a motivi geometrici, alternatamente bianche e nere. Subito dopo, un'altra, un'altra ancora. Decine di gocce innocenti, un pianto sincero.
“Sei un idiota, Francesco. L'hai fatto per proteggermi, non è vero? Per evitare che la verità venisse a galla? Ma a me non sarebbe importato nulla!”
Rimase a lungo in ginocchio, di fronte al suo volto, il volto severo della persona che l'aveva cresciuta nei momenti più difficili della sua vita, dopo la morte dei suoi genitori.
Perché sceneggiare una storia? Perché fare in modo che tutti sapessero? Forse... forse perché mi sentivo in colpa? Eppure, sono innocente. Non è colpa mia, è stata tutta opera tua, Francesco. A volte, penso di aver ideato tutto questo... solo per rivederti in azione. Tutto qui. Avrei dovuto capire che c'era qualcosa di sbagliato, avrei dovuto... accorgermene dall'inizio. Come ho fatto ad essere così stupida? Forse chiudevo un occhio, cercavo di non guardare in faccia alla realtà? Può darsi, ma ormai il danno è fatto.
Serrò le palpebre, riportando alla mente tutto ciò che Francesco aveva fatto per lei. A differenza dei suoi genitori, lui l'aveva capita, assecondata, aiutata a far emergere la sua vera natura. In quei due anni di assenza, molte cose erano cambiate, aveva imparato molto.
Sono perfettamente in grado di cavarmela da sola.
Per esempio, a mentire a se stessa, per darsi forza.
Sfiorò il nome scritto in caratteri dorati, seguendone la forma.
Ho bisogno ancora di un consiglio, Francesco. Pochi minuti fa ho ricevuto una telefonata, la telefonata di una sconosciuta. Chiedeva di una sua amica, una a cui ho dato il mio numero di telefono e... ah, già!
“Ora sono indipendente, lo sai? Non ho più bisogno dei tuoi servigi, mi rivelo per quello che sono, faccio quello che voglio, con chi voglio. L'altra sera ho conosciuto una ragazza bellissima, Francesco. Aveva i capelli rossi come il fuoco... e i suoi occhi! Avresti dovuto vederli, Francesco! Occhi verde smeraldo, immensi, inarrivabili! Erano pieni di vita, pieni di gioia... ma confusi. Bella e fragile, come una farfalla. Non potevo lasciarmela sfuggire, l'ho avvicinata e...”
Si trattenne. Non era il caso di raccontare i dettagli di una notte brava in un cimitero. Forse avrebbe potuto farlo anche solo per dare un dispiacere a suo padre.
No, non è il luogo né il momento adatto.
Si rialzò lentamente.
“Ci vediamo il mese prossimo. Non scappare mi raccomando.”
“Come desidera, signorina.”
Si voltò di scatto. Un uomo, alto, vestito di nero. Una sciarpa a fasciare il volto, un basco di pregevole fattura a coprirne il capo. Emergevano solo gli occhi.
Ma erano abbastanza.
“Mi duole averla fatta attendere così tanto, ma sa com'è, ho trovato traffico. La strada sulla scogliera è molto frequentata ultimamente.”
La ragazza scosse il capo.
“Chi diavolo sei? Questa è una tomba di famiglia, non sei autorizzato a...”
“Lo sono eccome, signorina.”
Lo sconosciuto si liberò del berretto e della sciarpa, rivelando il suo volto. Un volto affilato, giovane – forse troppo per la sua età – contornato da capelli lisci neri, lunghi fin sotto alle orecchie. Occhi scuri, scuri come la notte, sopracciglia inarcate in segno di sfida. Si produsse nel suo migliore inchino, tenendo lo sguardo fisso su di lei.
“Per servirla.”
Avrebbe urlato, urlato a squarciagola. Quell'espressione... quello sguardo... quel sorriso... era identico, spiccicato. Si coprì la bocca con la mano per non farsi sentire. Iridi scure, in continuo movimento, in attesa. Sembravano domandarle cosa si prova a trovarsi di fronte un fantasma, signorina?
Cadde a terra, terrorizzata.
“F... Fr... tu... ancesc... tu... non...”
“Mi permetta di aiutarla a rialzarsi, signorina. Il compito di ogni buon maggiordomo è sostenere il suo padrone, aiutarlo nei momenti di difficoltà... e questo lo è, non le pare?”
Liberò tutta l'aria che aveva trattenuto nei polmoni.
“Ma tu sei morto! Sei morto!”
L'uomo si accarezzò i capelli con noncuranza.
“Solo una trascurabile complicazione. Nulla di irresolubile.”
Stese la mano.
“Permette?”
La signorina allungò timorosamente l'indice destro. Poco per volta, raggiunse il dorso della mano e lo tastò, con prudenza, ritirando il dito ad ogni tocco. Era calda, non sembrava l'arto di un morto. Non poteva essere uno zombie, né tantomeno un vampiro. Deglutì a fatica, si fece coraggio e la afferrò. L'uomo tirò con vigore, riportandola in posizione eretta. Subito dopo, lasciò la presa.
“Mi duole averla disturbata in questo momento di contemplazione, ma rivedervi ha colmato il mio cuore di gioia. Non ho saputo domare il mio istinto di presentarmi a lei in vece di suo precettore, signorina. D'altronde, a cosa serve una seconda possibilità se non la si sfrutta?”
“Sei davvero tu?”
Le baciò la mano.
“Il suo umile maggiordomo è qui per servirla, come un tempo... e per ascoltarla. Prima parlava di una sua nuova fiamma, signorina? Un rapporto occasionale o qualcosa di più concreto?”
La ragazza arretrò di un passo.
“Non sono convinta che... che tu sia tu, Francesco.”
“Se vuole, posso rispondere ad ogni sua domanda, ogni questione, anche la più intima e riservata, domande a cui il solo Francesco sarebbe in grado di rispondere. Avanti, mi dica.”
“...”
“Allora? Devo concludere che lei non ha alcuna fede nei misteri della resurrezione, signorina? A cosa sono serviti anni di educazione nel pieno rispetto della dottrina cattolica ortodossa? In fondo...”
“Come mi chiamo?”
Francesco serrò le palpebre.
“Scusi?”
“Qual è il mio nome? Non lo hai ancora pronunciato! Dimmi una sola volta, anche una sola, il mio nome ed io ti crederò!”
“Il suo nome...”
Francesco rimase in silenzio per un attimo.
“Buffo. È l'unico particolare che non ricordo. Saprei recitarle l'elenco completo delle sue a...”
“Il mio nome.”
Francesco agitò le braccia, mulinando nell'aria immobile.
“Un nome è solo un nome, signorina! Non può non credermi per questo... dettaglio! Un nome è solo un nome, nulla di più! Sono lettere, lettere! Il significante! Capisce cosa intendo? È il significato ciò che è veramente importante! Il mondo è una matrice di zeri e di uni, ma noi non lo vediamo come tale! Chiamiamo pietra questo oggetto, questa lastra bicromatica che orna il pavimento, ma siamo veramente sicuri che risponda a questo nome? Signorina, mi creda: un nome non è nulla!”
La ragazza distolse lo sguardo.
“Allora non sei tu. E pensare che ci avevo quasi creduto.”
Gli passò a fianco, senza voltarsi.
“I nostri corpi non sono nulla, signorina! Io sono in quella tomba, dietro quella lapide di pietra... ma sono anche qui! Sono qui di fronte a lei, pronto a riprendere servizio! E lo sa perché? Perché io, come il me stesso che giace là dietro, sono solo una proiezione. La matrice di realtà sta proiettando questo mio corpo sulla sua retina, sono qui... ma non sono qui. Questo non significa che io non sia io. Nel processo ho perso qualcosa, è vero, qualcosa di importante. Parte dei miei ricordi. Il ritorno non è garantito, signorina, non è gratuito. C'è un prezzo da pagare, l'essere incompleto, difettoso. Signorina, senza di lei non posso... raggiungere la mia affermazione, non posso tornare me stesso! Mi chieda qualunque altra cosa, qualunque! Io sarò in grado di risponderle perfettamente, non la deluderò. Mi metta alla prova. In fondo... io sono sempre stato il suo umile servitore.”
Ignorò quasi completamente le sue parole.
“La prossima volta che organizza uno scherzo di così pessimo gusto, non curi solo i dettagli. Se avesse studiato un po' meglio ciò che tutti dovrebbero sapere, piuttosto che informarsi su ciò che solo io avrei potuto conoscere, forse la sua ridicola sceneggiata sarebbe andata in porto. Con permesso.”
Allungò il passo e si diresse verso l'uscita.
Francesco roteò gli occhi.
Avrebbe dovuto utilizzare ancora una volta il contenuto della sua tasca destra.
24 fotogrammi al 2o
Neonlight era il classico film che nessuno sarebbe mai andato a vedere, se non fosse stato per Nicolas Cage. La sua sola presenza aveva convinto molti scettici ad affollare le sale cinematografiche per assistere ad un lungometraggio tratto dall'opera incompiuta di uno scrittore fallito. L'autore non aveva mai scritto il finale della vicenda, e il romanzo era stato pubblicato nel suo misero stato incompleto in un'antologia di bassa qualità, solamente per spillare qualche euro in più ai lettori.
Improvvisamente, era comparso dal nulla un produttore interessato a quel moncherino di storia, aveva ingaggiato uno sceneggiatore e gli aveva assegnato l'arduo compito di terminare la tessitura della trama. Per inciso, l'autore dell'opera originale si era sentito punto sul vivo e aveva incominciato a lavorare nuovamente al romanzo, cercando di concluderlo in modo decente.
In pratica, ci si trovava di fronte ad un paradosso bello e buono: fino a circa metà, il film e il libro coincidevano, per poi divergere dopo la morte di Virkill Thomson – uno dei personaggi secondari. Nella versione originale, Ezequiel prendeva con sé Beatrice – la protagonista femminile, una bambola artificiale con la mente di una ragazza umana – e si dirigeva verso il deserto attorno a St. Patrick, per incontrare un misterioso Funzionario del Fronte Neutrale (la fazione non in guerra con U.S.A. e U.R.S.S.) e farsi consegnare i suoi soldi.
Dato che la bozza pubblicata nelle antologie terminava esattamente in quel punto, il nuovo sceneggiatore, Lyon Vida, aveva deciso di tagliare l'ultima scena e far addentrare Ezequiel all'interno della megacorporazione corrotta Encorp, avere un conflitto a fuoco con metà delle guardie, liberare le cavie dell'azienda, uccidere in modo acrobatico un personaggio di colore e infine piantare una pallottola nel cervello del malvagio di turno. Nella scena finale, Ezequiel spegne la protagonista – prima che muoia per cause naturali – e se la porta via. Una lacrima riga il suo volto. Sfumatura e dissolvenza su The End finale.
Arianna aveva letto qualcosa del genere sulle riviste specializzate. I critici invitavano gli spettatori a tenersi alla larga da quello che era stato definito come la parodia di un brutto film di Steven Seagal; eppure, doveva essere piaciuto. Gli incassi non erano stati così magri, avevano superato di gran lunga le spese di produzione... proprio perché era un filmaccio di quart'ordine che puntava tutto su effetti speciali e scene d'azione al cardiopalma.
“Mi dica, di cosa ha bisogno?”
La voce della cassiera la strappò fuori dal suo mondo immaginario.
“Allora?”
Arianna scosse la testa, come per riprendere padronanza di se stessa.
“Quando proiettano Neonlight? Devo assolutamente vederlo.”
“Sei davvero fortunata, ragazza mia. È l'ultima sera di programmazione. Domani arriva una nuova pellicola, credo si chiami Epiphania o qualcosa del genere. Hai presente? Un thriller con elementi religiosi. Dicono che sia da non perdere.”
“Grazie ma non mi interessa. Sono qui per Neonlight.”
“Sono sei euro. Lo spettacolo inizia alle nove e dieci. Accomodati pure in sala uno. Se tutto va bene, sarai l'unica ad assistere a quel film, stasera.”
Arianna estrasse dal portafoglio una banconota da cinque più un uomo vitruviano e li consegnò alla cassiera. Sorriso di circostanza, di chi ha solo voglia di andarsene a dormire, mano tesa per raccogliere il dovuto, biglietto staccato, altro sorriso forzato. Arianna ringraziò, prese il tagliando e si diresse verso la sala etichettata dal numero uno. La maschera la salutò in modo impacciato e la condusse all'interno del locale. Lo spettacolo stava per iniziare.
Come previsto, nessun altro spettatore aveva fatto la sua comparsa. Era completamente sola, all'interno di un ambiente che poteva contenere sì e no cento persone. Sentiva l'eco della sua stessa voce, ogni singolo respiro. Un vago senso di inquietudine attraversò ogni cellula del suo corpo.
Speriamo che inizi presto.
Speranza vana.
Dovette attendere i consueti venti minuti di pubblicità locali, e i soliti cinque o sei trailer prima che le luci si abbassassero. Improvvisamente, il logo della JoZ3 Production fece la sua trionfale comparsa sullo schermo, solo per venire crivellato di proiettili ed esplodere in mille pezzi.
Dissolvenza, schermo nero.
Comparve una frase traballante, in caratteri bianchi molto sgranati. Arianna aguzzò la vista, cercando di coglierne i dettagli. Un flash luminoso, lo schermo smise di agitarsi. Arianna strinse con forza il bracciolo della sedia.
Ad Eve, il nostro piccolo angelo rosso.
“Eve?”
Il film era dedicato ad una certa Eve, un nome che in italiano si poteva tradurre solo come Eva. La mente della ragazza si rifiutò di prendere in considerazione la seconda possibile traduzione letterale, ovvero Vigilia. Qual era il nome completo di Cassie?
Eva Cassiopea?
Un brivido freddo lungo la schiena.
Una coincidenza, solo una maledetta coincidenza.
Rimase ferma, in febbrile attesa. Doveva capire quale fosse la scena in cui Cassie aveva detto di essere comparsa. Aveva parlato di un incidente automobilistico, o qualcosa del genere, per cui dovevano essere coinvolti dei veicoli.
Apertura. Deserto americano. Un furgone Ford nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, due figuri al suo interno. Uno parla per turpiloquio. Si fermano ad un distributore, discussione col gestore, lite, l'altro tizio apre il vano del furgone, ne esce una ragazza. Dissolvenza, distributore in fiamme.
No, non era questa. Aspettiamo...
Cambio di ambientazione. Compare un uomo vestito di nero, nascosto da un cappellaccio da cowboy dello stesso colore. La tesa si alza, rivelando due occhi di ghiaccio, fissi, inespressivi. Gli occhi di Ezequiel / Nicolas Cage. Si muove in una città strana, illuminata da soli neon bianchi. Sale su un autobus, guarda i passanti, parla con un venditore ambulante di piume, raggiunge la sua meta, scende dall'autobus, prosegue a piedi. Entra in un locale da cui proviene una musica malinconica, parla con un avventore – un musicista, esce e si dirige verso il quartiere bene della città.
Niente che possa assomigliare a ciò che cerco.
Cinepresa puntata sui due tizi di prima, in coda dietro una fila interminabile di auto e furgoni, praticamente fermi. Un incidente.
Forse ci siamo.
L'uomo dall'insulto facile scende dal blindato e cammina verso il luogo del disastro, parla con un po' di autisti, si ferma a guardare. Ripresa di gruppo, dal punto di vista dell'uomo. Sullo sfondo, un dedalo di strade sopraelevate. E una figura umana.
Arianna si alzò dalla sedia.
“Eccoti! Ti ho trovata!”
Una ragazza dai capelli rossi china su un microfono, quasi invisibile. Uno spettatore poco attento non se ne sarebbe mai accorto.
Cosa succede ora?
Cassie alza la testa, si accorge di essere ripresa, afferra il microfono direzionale, corre per uscire di scena. Improvvisamente, inciampa nell'asta dello strumento, perde l'equilibrio, agita le braccia, il microfono le scivola dalla mano, i piedi perdono il contatto con il terreno... e... e...
Non voglio crederci!
Arianna crollò sulla poltroncina.
Cassie era appena precipitata dal viadotto, da un altezza di almeno venti, trenta metri.
Non... non posso crederci!
Cassie era appena morta sotto i suoi occhi.
Scrollò la testa, cercando di allontanare quei pensieri, ma ormai era impossibile. La conclusione logica era una sola, e non era per nulla plausibile.
Ci dev'essere una spiegazione, ci deve essere... magari nei titoli di coda, magari dicono qualcosa di più... non può essere morta per la caduta, non avrebbe senso!
Come proseguiva il film? Difficile capirlo. Lo shock era stato troppo forte.
Ezequiel spara, viene colpito, muore, risorge, spara di nuovo, si duplica, spara a se stesso, spara in aria, spara verso lo schermo, lo riduce ad un colabrodo, esce dallo schermo, torna indietro, fino alla scena della caduta, la guarda al rallentatore. Cassie perde l'equilibrio, mette un piede in fallo e precipita giù. Ezequiel prende la mira, le spara, si butta giù con lei, le spara di nuovo, senza colpirla, si spara tre volte, si ferma a mezz'aria, spara all'uomo degli insulti, spara al suo amico di colore, spara, spara, spara! BANG!
Le immagini si susseguivano a ritmo indiavolato nella sua mente, senza seguire ciò che stava accadendo realmente sullo schermo. Terminata la sequenza, Cassie non si era più vista, ma i neuroni di Arianna continuavano a ricreare la catena di eventi nei suoi pensieri, mescolandola a spezzoni del film, facendo interagire altri personaggi.
Cassie cade, cade di nuovo. Compare il rosso politicamente scorretto, quello che parla per turpiloquio, insulta anche lei. Cassie allunga la mano per chiedere aiuto, il rosso la ignora, continua a scagliarle contro improperi. E Cassie cade, cade di nuovo, verso il terreno, verso la fine. Si agita atterrita, in attesa di un aiuto, di un miracolo. Un uomo con la pipa, anche lui con i capelli rossi, la incita, le tende una mano.
Questo non c'è nel film, cosa combinano i miei circuiti logici?
Cassie allunga la sua, cercando di aggrapparsi allo sconosciuto. Le dita si sfiorano, l'uomo non riesce ad afferrarla e grida disperato. E Cassie continua a cadere, in una sorta di pozzo senza fondo, all'infinito, senza che qualcuno possa salvarla. Dal nulla, un cappellaio matto la prende, ferma la sua caduta, la porta a sé, la bacia, come l'eroe di un film. Si toglie il cappello, è una ragazza, una ragazza dai capelli neri e gli occhi azzurri. L'abito si trasforma, diventa un completo bianco corto. Cassie si fa trascinare, ci sta, poi, però, si stanca, si lascia cadere, lontano dalla sua salvatrice. La giovane cerca di fermarla, ma non ci riesce. Cassie apre le braccia e le gambe, si posiziona come un paracadutista. Poco a poco rallenta, fin quasi a fermarsi. Un uomo sconosciuto la attende sul fondo. Sorride, sembra felice. Cassie atterra in piedi, dolcemente, senza problemi. Lo abbraccia, piangendo. L'uomo le accarezza i capelli, abbozza un sorriso.
“Non pensavo che ti avrei mai rivisto.”
“Scusa se ti ho fatto attendere, Alessandro.”
Arianna si risvegliò da quella specie di visione, una sequenza priva di significato, farcita di contenuti latenti, impliciti e difficili da cogliere. Possibile che il suo subconscio avesse ricreato tutto a partire dalle immagini sullo schermo? O c'era qualcosa di più, qualcosa di diverso? Brividi di freddo lungo la schiena, un paio di convulsioni. Poi, il nulla.
Arianna era di nuovo padrona di se stessa.
Qualcosa doveva aver interferito con i suoi pensieri... ma cosa? E il film? A che punto era veramente il film?
Ezequiel si muoveva sullo schermo premendo ripetutamente il grilletto, senza un preciso motivo, sparando a destra e a manca, uccidendo sgherri della Encorp non appena entravano a portata di tiro. Doveva essere la sezione finale, quella sceneggiata appositamente per la trasposizione cinematografica. Ventiquattro fotogrammi al secondo di pallottole ed esplosioni...
Bel finalino da film americano.
Ezequiel si lancia in un'acrobazia inumana, uccide l'uomo di colore. Inseguimento all'interno del laboratorio. L'uomo dal turpiloquio facile spara senza mai colpire il bersaglio, ma ferisce gravemente Beatrice. Ezequiel sembra fregarsene, procede, lotta corpo a corpo, mosse di kung fu, karate e via dicendo, il rosso finisce a terra, con la canna della pistola puntata alla tempia. Ezequiel, impassibile, scandisce la solita frasaccia da eroe d'azione.
“Cosa ne dici di fare un giro all'Inferno? Io ci sono stato, è un posto accogliente, forse solo un po' troppo caldo. Ti troverai bene, Red.”
BANG! Red muore, schizzo di sangue sul muro. Ezequiel torna indietro, prende Beatrice con sé, la porta via, capisce che non c'è più nulla da fare e le pratica un'iniezione per non farla soffrire. Il sole sorge sulla città dei neon, lasciando Ezequiel da solo. Primo piano finale, una lacrima scende sul suo volto. Fine. Schermo nero. Una frase scritta con caratteri bianchi.
In memoria di Eva Cassiopea Nethanienko, scomparsa nel fiore degli anni, lavorando con noi per realizzare il suo sogno.
Titoli di coda.
Arianna lasciò l'Ed Wood di corsa, in evidente stato confusionale, parlando a se stessa, nel cuore della notte.
“Cassie è morta. Eh, eh! Cassie è morta davvero! Durante le riprese di uno stupido film! Eh, eh! Quante altre Eva Cassiopea dai capelli rossi possono esistere al mondo? Eh, eh! Poche? Forse zero. E con quel cognome russo, poi! Eh, eh! Magari non era lei, il cognome mica me l'ha detto. Certo, certo, è sicuramente così! Un macabro scherzo di Cassie! Eh, eh! Aveva già visto il film, aveva visto la scena dell'incidente e si è inventata tutto, solo per spaventarmi. Non può che essere così! In fondo, non ha documenti, quindi può benissimo essersi inventata il nome! Eh, eh! Già, già, può persino avermi mentito fino ad adesso! Anzi, certamente mia ha mentito! Chi mai potrebbe credere ad una storia simile? Eh, eh! Una morta che torna in vita? No, certe cose succedono solo nei lavori malati di qualche scrittore di sesta categoria! Cassie è morta? No, probabilmente no. Anzi, non è neppure il caso di chiamarla con quel nome. Probabilmente se l'è inventato di sana pianta, così come il resto! Eh, eh!”
Eppure...
Eppure Cassie sembrava sincera.
Come... come essere sicura che non mi abbia mentito?
Arianna si prese a schiaffi, come per riprendere il controllo di sé. Era una bugia. Doveva essere una bugia. I morti non parlano, non ridono, non scherzano, non scrivono, non baciano!
Frugò nel portafoglio, ne estrasse un fogliettino di carta con sopra riportato un numero, il numero della misteriosa ragazza corvina con cui Cassie diceva di aver... trascorso una bella nottata. Arianna ingoiò un boccone di saliva. Se Cassie non le avesse mentito a quel proposito, così intimo e personale... come avrebbe potuto raccontarle altre bugie?
Era un po' ottimistica come visione, la sua logica faceva acqua da tutte le parti... ma era pur sempre un inizio. Tirò fuori il cellulare dalla borsa, compose rapidamente il numero e lo portò all'orecchio. Sperò ardentemente di sentire la solita voce elettronica scandire, con un dubbio accento italiano, una frase del tipo il numero chiamato è inesistente.
Speranza vana. Il segnale dava libero.
Uno squillo... due squilli... tre squilli... CLICK!
“Pronto? Chi parla?”
Una voce giovane, la voce di una ragazza.
“B... buonasera, mi chiamo Arianna e le giuro che questo non è uno scherzo, va bene? Ho... ho bisogno assoluto di sapere una cosa. Per favore, non butti giù il telefono!”
“Dimmi pure. Sono in ascolto.”
“Una mia amica, quella che mi ha dato questo numero... potrebbe essere nei guai! Deve dirmi se... se davvero...”
“Come si chiama?”
“Eva, Eva Cassiopea... oppure Cassie. Uno dei due nomi, non so come lei...”
“Eva Cassiopea?!”
La voce dall'altra parte del telefono assunse un tono diverso, quasi sognante. Il battito del cuore di Arianna si fece più rapido.
Ora o mai più.
“La conosce? Ha già sentito questo nome?”
“Ha i capelli rossi, di un rosso vivo, intenso? Gli occhi verde smeraldo? Vestita con una giacca di pelle nera, jeans strappati?”
Arianna perse il respiro per un attimo. Cercò di mantenere un tono di voce neutrale, pur sapendo che non le sarebbe stato possibile.
“Pre... precisamente. Mi ha raccontato che voi... insomma... qualche notte fa avete...”
“Sì.”
“Come, scusi?”
“Sì, ci siamo conosciute un paio di notti fa, in discoteca. Le ho dato il mio numero per farmi richiamare, prima o poi. Spero di rivederla. Se sei una sua amica, puoi dirglielo? So che non ha un cellulare, quindi non posso contattarla direttamente!”
Un paio di secondi di silenzio, come risposta. La persona dall'altra parte della cornetta se ne rese conto, cambiò immediatamente tono, spostandosi sul preoccupato.
“Le è successo qualcosa? Come sta?”
Fin troppo bene per una che dovrebbe trovarsi sotto qualche metro di terra.
“Spero bene, non... non si preoccupi. Non dovrebbe essere nei guai, adesso... almeno credo.”
Un sospiro trasportato dall'etere.
“Meglio così.”
Arianna deglutì a fatica.
“Senta, è... è sicura che quello sia veramente il suo nome? Eva Cassiopea, intendo?”
“Non le sono stata a guardare la carta di identità, mi sono fidata. Magari non si chiama così, ma chissà. Non che me ne importi qualcosa, onestamente.”
“Mi ha detto... di averle raccontato molte cose.”
“Dammi del tu. Comunque, è vero. Di cose me ne ha dette parecchie, strane perlopiù... ma sarebbe meglio parlarne di persona. In questo momento sto andando al cimitero comunale, se vuoi ci vediamo lì.”
Al cimitero alle dieci e mezza di sera? Cassie è una calamita per disturbati mentali...
“Mi mette male. Non ho mezzi di trasporto... ed è un po' troppo lontano da dove mi trovo in questo momento.”
“Allora mi farò risentire io, tanto adesso il tuo numero ce l'ho. Spero di esserti stata d'aiuto. Ora scusami, ma devo scappare.”
CLICK!
Fine della conversazione. Un rombo baritonale risuonò fragoroso. Arianna alzò gli occhi al cielo. Nuvole, molte nuvole, forse troppe. Goccia dopo goccia, si sciolsero in pioggia. Un acquazzone in piena regola. Arianna corse via imprecando, diretta verso casa sua. Troppe emozioni per un giorno solo.
Quindi non mi ha detto una bugia, questa la conosce davvero... e ci ha fatto veramente l'amore. Devo dedurne che non mi abbia mai mentito? Si chiama veramente Eva Cassiopea? Ma perché un cognome russo? Forse un nome d'arte? Ma no, da quando gli attrezzisti hanno un nome d'arte? Quella lì era russa per davvero, magari solo di padre. Nethanienko non è un cognome così comune, se faccio qualche ricerca magari una foto la trovo. Certo, basterebbe trovare una foto, con una foto sarebbe tutto più semplice! Quante Eva Cassiopea Nethanienko possono esistere in Italia? Mi basta fare una ricerca su Internet, questione di un secondo. Non appena arrivo a casa, accendo il mio PC e la cerco. Questo dovrebbe risolvere la questione.
Suo padre sorrise, vedendola arrivare. Aveva mantenuto la promessa, si era dimostrata degna di fiducia.
“Ciao Arianna, tutto a posto?”
“Forse.”
“Sei fradicia, vatti a cambiare subito... poi, se te la senti, vorrei fare due parole con te.”
Arianna annuì senza troppa convinzione, salì le scale ed entrò in camera sua. Buttò a terra i vestiti zuppi d'acqua, indossò il pigiama, accese il computer. Non voleva scendere, non prima di aver fugato l'ultimo dubbio.
Dai, quanto ci metti? Forza, razza di catorcio! Ti sostituisco con un Mac se non ti sbrighi!
Il PC diede i primi segnali di vita, mostrando un desktop ricolmo di icone. Arianna accese l'ADSL e cliccò due volte sul logo del browser. Una volpe rossa accoccolata attorno al mondo fece la sua comparsa al centro dello schermo, accanto al simbolo multicolore di Google. Selezionò la categoria immagini e digitò il nome della sua amica nel campo di ricerca.
Eva... Cassiopea... Nethanienko. Fatto.
Premette il tasto INVIO, dando inizio alla ricerca. Dopo tre secondi scarsi, il responso.
In primo piano, i fotogrammi del film in cui la ragazza cade dal viadotto. Dieci, venti immagini così, tutta la prima pagina. Click sulla freccetta in basso a destra, pagina successiva.
Ed eccola lì.
Capelli rossi, occhi verdi, viso gentile, vestita di un bel completo beige. Sembrava che qualcuno avesse ritagliato il suo volto e lo avesse incollato su un abito preso da una rivista di moda. Non era proprio nel suo stile... eppure non si poteva sbagliare.
Quella era Cassie, senza la minima ombra di dubbio... ed era anche Eva Nethanienko, la ragazza morta durante le riprese di Neonlight, la ragazza a cui tutto il film era dedicato.
Arianna spense il PC premendo il pulsante di reset, senza avviare l'arresto sicuro del sistema.
È tutto vero, allora. Cosa significa? Io non ci capisco più niente...
Priva di forze, si trascinò verso il piano inferiore, dove la stava aspettando suo padre. Sospirò. Per lui sarebbe stato impossibile non accorgersi del pessimo stato in cui versava. Gradino dopo gradino, si allontanò dalla sua camera a testa china, chiudendo ed aprendo ritmicamente gli occhi.
“Ehi, Ary! Tutto a posto? Sei pallida come un cencio. Cos'è, hai visto un fantasma?”
“No. Ci ho fatto shopping assieme, oggi pomeriggio.”
Co==nn==es==sio==ni
“Sembra uno straccio, commissario. Tutto a posto?”
“Come saresti tu dopo aver passato la notte in bianco a visionare filmati?”
Nethanienko sembrava invecchiato di dieci anni, con quella barba mal rasata e quelle vistose borse sotto gli occhi, una delle quali coperta in parte dalla benda. Stringeva la sigaretta tra i denti, agitandola in modo compulsivo, casuale.
“Abbiamo concluso che ho un aspetto orribile, sì? Bene, cosa ne dici se parliamo d'altro? Tipo – cosa ne so – di questa registrazione?”
Lanciò una pennetta USB al suo sottoposto, tentando di prendere la mira. Fatica inutile. Il proiettile mancò il bersaglio e atterrò rumorosamente sul pavimento. Angelo la raccolse con un sorriso malizioso.
“Hai fatto le ore piccole, Andrea? Sembra che tu non abbia chiuso occhio”
“Piantala di fare battute idiote e analizza il filmato. È la memoria della telecamera che Giorgio ha nascosto nei pressi dello stramaledetto campo minato. Dieci ore di inquadratura fissa, roba da cinema d'autore.”
“Con tutto il dovuto rispetto, signore, se lei ha già analizzato questi dati...”
“Angelo, pensi prima di parlare, sì? Sono rimasto incollato ad un televisore per dieci ore, dalle nove di ieri sera fino alle sette di stamattina, per cui è molto probabile che mi sia sfuggito qualcosa, specie nelle ultime cinque ore di proiezione. Dividi il filmato in quattro parti e mettiti d'accordo con gli altri. Tra due ore e mezza voglio una relazione scritta sulla mia scrivania. Ah, quasi dimenticavo...”
Estrasse un plico di fogli da una cartellina sulla sua scrivania e li porse al suo sottoposto.
“Questo è il rapporto completo sulle anomalie che ho riscontrato. Può essere utile per non perdere troppo tempo su dettagli irrilevanti. Ora è veramente tutto, puoi andare.”
“Hai veramente occhio per queste cose, Andrea.”
“Ancora una battuta del genere e ti trasferisco al caso Ioannis.”
Angelo deglutì nervosamente e prese in consegna i documenti. In fondo, Nethanienko era il suo superiore. Troppa confidenza poteva essere nociva, sul posto di lavoro.
“Posso fare altro per lei, commissario?”
“Lasciami in pace per un paio d'ore. Venitemi a cercare solo se è strettamente necessario.”
L'agente aprì la porta dell'ufficio e si congedò. Nethanienko si lasciò cadere a peso morto sullo schienale della poltrona, ad occhio chiuso. Scivolò lentamente in un sonno pesante, un sonno a cui era difficile sottrarsi, specie dopo aver dormito solamente un'ora e mezza. Figure geometriche prive di senso, con bordi tremolanti e frastagliati, fecero la loro comparsa. Aree luccicanti, multicolori, quadrati sghembi, triangoli curvi. La scena cambia. Figure umane che giocano a tennis con un occhio di vetro. L'occhio annuncia il punteggio ad ogni tiro.
Di che colore è l'iride?
Ah, già, è come la mia.
E l'occhio è di vetro?
No, non è di vetro, è il mio occhio.
Lo devo riprendere?
No, se lo riprendo, lei se ne va, e non voglio che lei se ne vada.
Lei chi?
La voce, quella che ha riempito la mia orbita vuota.
I tennisti continuano a lanciarsi la pallina, finché uno dei due non la colpisce troppo forte. L'occhio vola in orbita, si gira verso terra, guarda tutto dall'alto.
Cosa vede?
Quello che vedo io. L'occhio è mio, anche se è staccato dal resto.
E io cosa vedo?
Numeri. Zero, uno, più tutti i decimali.
Probabilità?
Certamente.
E di cosa?
Che una cella interagisca con quella adiacente.
Sai cosa significa quello che hai detto?
Ovviamente no, ma forse è meglio così.
L'occhio scende, scende fino alla città e si dirige sotto un ponte. Inquadra una persona, vestita con un buffo cilindro e una giacca molto più grande di lei.
È una ragazza.
Sì, ma non ne vedo il volto.
Forse non vuoi vederlo.
Dici? Sarà...
L'occhio esplode in nubi di mille colori, dipingendo il mondo attorno a sé, un mondo in bianco e nero. Il corpo della ragazza brucia, si dissolve in cenere, per un attimo i vestiti ne mantengono la forma, poi si ammucchiano per terra. Dal colletto della maglia spunta fuori un pulcino rosso, rosso fuoco. Pigola, pigola, ma nessuno lo ascolta. Ed ecco Scirea, col suo sorriso perenne. Prende il pulcino tra le mani, lo porta verso l'alto. Il pulcino vola, gli crescono le ali, diventa incandescente, prende fuoco. Le fiamme divampano, si trasformano, assumono forma umana, ricompare la ragazza di prima. Scirea la abbraccia, la telecamera ruota attorno a loro.
Un uomo dai capelli rossi fuma una pipa e stringe una ragazza – la stessa ragazza.
Quell'uomo mi è famigliare.
Ovvio, sei tu.
Ma ha due occhi.
Anche tu li avevi. Lo hai dimenticato?
Più o meno sì. E la pipa? Io non ho una pipa.
Ma l'avevi. Hai dimenticato anche quella?
Forse sì. E quella ragazza?
È sua sorella.
Ma io non ho una sorella.
Ma l'avevi. Non dirmi che hai dimenticato anche lei.
No, lei no.
Certo, certo. E come si chiama?
Chi?
Tua sorella.
Eva.
Solo Eva?
Lei preferiva che la chiamassi così, oppure Eve. Odiava il suo secondo nome, troppo lungo.
Okay, ma qual era? Me lo puoi dire?
Dovresti saperlo. È anche tua sorella.
Forse.
Come forse? Non sto parlando da solo?
Questo è un sogno, Andre.
Ah, è tutto chiaro ora.
No, scuro. Molto scuro.
I colori sbiadiscono, si sommano, sottraggono, la scena si tinge nuovamente di grigio. La ragazza sparisce, sparisce Scirea, ed anche l'uomo con la pipa.
Una palpebra. Due palpebre. Si aprono. Due pupille nere, anzi no: due zeri, molto grandi, uno per ogni orbita. Lo zero di destra diventa uno, poi anche quello di sinistra. Uno, uno. Anzi no: l'uno diventa zero, poi uno, poi di nuovo zero, a ritmo forsennato. I numeri si moltiplicano, riempono tutta l'immagine, file di zeri e uni, colonne che si trasformano. Compaiono altre cifre, dal due al nove, si ricombinano, formano numeri decimali, in continuo mutamento. I numeri prendono forma, si accorpano, creano volume da una superficie bidimensionale, generano una figura umana, un bambino. La creatura apre gli occhi, apre gli occhi al nuovo mondo. Nessun numero, questa volta: solo due iridi verdi, scintillanti. Flash bianco, l'immagine scompare, buio completo.
Buona notte.
Un suono squillante, ripetuto.
Anche questo fa parte del sogno?
Nessuno stimolo visivo, solo una serie di brevi impulsi acuti in sottofondo.
Sembra un telefono.
E forse lo è. Svegliati.
Sto troppo bene così.
Svegliati, ti stanno cercando.
Chi vuoi che mi cerchi?
Scommettiamo che indovino il nome?
Scommessa accettata.
È una ragazza.
Okay, e allora? Sono piuttosto popolare con le donne.
Nei tuoi sogni.
Perché, questo cos'è?
Ne sei così sicuro? Comunque, dovrai ricrederti. Si chiama Arianna, ha un problema. Forse tu puoi risolverlo.
Come fai a...
Perché rovinare la suspense? Rispondi e lo saprai.
Aprì l'occhio. Il telefono squillava sul serio. Mosse meccanicamente il braccio destro e afferrò la cornetta, quasi senza pensarci.
“...Arianna?”
Silenzio. Un sussulto di sorpresa dall'altro lato del ricevitore. Nethanienko si accorse di aver confuso il mondo onirico con la realtà e corresse immediatamente il tiro.
“Scusi, ero sovrappensiero. Qui è il distretto di polizia, sta parlando con il commissario Nethanienko. Come posso aiutarla?”
“Come fa a sapere il mio nome?”
“Prego?”
“Avete qualche strumento che associa il numero di telefono all'abbonato?”
Nethanienko sbuffò innervosito.
“Signorina, non si faccia di queste paranoie! Se non abbiamo un mandato, i nomi degli utenti non li possiamo chiedere alle compagnie... e non penso che lei sia indagata in questo momento, altrimenti dubito che mi avrebbe chiamato. È stato un caso, tutto qui.”
“Può ripetermi il suo cognome?”
Roteò la pupilla.
Cos'è, la giornata mondiale dell'idiozia?
“Commissario Andrea Nethanienko, con la h tra la t e la a, più una k finale. Vuole sapere qualcos'altro – cosa ne so, il mio numero di scarpe – o mi comunica finalmente il motivo della sua chiamata?”
“Ho... incontrato sua sorella. Eva Cassiopea Nethanienko.”
“Certo come no? Arrivederci.”
“Aspetti, la prego, l'ho vista per davvero! Una ragazza di ventitré anni, capelli rossi, occhi verdi, snella, altezza nella media. L'ho incontrata un paio di mesi fa e l'ho frequentata fino a ieri. Le assicuro che...”
Sospirò contrariato.
“Immagino che lei sia uno di quegli sciacalli che amano rigirare il dito nella piaga. È mica una giornalista? Sa, mi sembra quel tipo di persona capace di fare battute sul mio occhio mancante, credendosi spiritosa. Glielo dirò una sola volta: mia sorella è morta quattro anni fa. Vorrei augurarle buona giornata, ma non penso di essere in grado di farlo.”
“Le giuro che non è uno scherzo.”
“Se non la smette, la denuncio per stalking, chiunque lei sia. Ci metto un attimo, mi basta scrivere due frasi su un foglio, tanto sono già qui in centrale.”
“Non potrei mai...”
“Ha delle prove? Un'evidenza sperimentale? Una foto? Qualcosa del genere?”
“...”
“No? Peccato. A mai più risentir...”
“Il cappellaio matto!”
Sgranò l'occhio.
“Cosa sta...”
“Cassie... si è fatta fotografare da me, vestita da cappellaio matto!”
Nethanienko allungò la mano sinistra, afferrò la cornice sulla sua scrivania. La ragazzina con quel giaccone troppo lungo, quel cilindraccio aperto in cima, l'asso di quadri...
“Il... il cappellaio matto? Come...”
Le parole gli si bloccarono in gola.
“Pronto? Pronto?”
Si produsse in un respiro profondo, cercando di controllarsi. Diede una rapida occhiata all'orologio. Erano le dieci e un quarto.
“Dove e quando possiamo vederci, signorina? Qualunque ora dopo le undici e mezza va bene.”
Ogni traccia residua di sonno svanita, la mente lucida, pronta a ragionare.
“Non devo venire in commissariato?”
“Questa faccenda riguarda me in prima persona. Decida lei il dove e il quando. Se vuole venire qui da noi, non sarò io ad impedirglielo. È libera di fissare il luogo e l'ora che più le convengono.”
“Davanti all'Ed Wood verso mezzogiorno?”
“Ci sarò.”
“A dopo, allora.”
Nethanienko racchiuse la testa tra le mani.
Cosa significa tutto questo? Mia sorella è morta, sono stato al suo funerale. Ho assistito alla cerimonia sbagliata? Ho pianto la sorella di qualcun altro? Direi proprio di no. Allora, qual è la conclusione logica? Ovvio, che questo è solo uno scherzo di cattivo gusto.
Davvero? E cosa puoi dirmi sul cappellaio matto?
Una stupida coincidenza. Non lo so, avrà sparato la prima cosa che le è venuta in mente, e l'ha azzeccata, tutto qui.
Ma ci andrai all'appuntamento, vero?
Ti sembro il tipo da rimangiarmi la parola data?
Devo ricordarti Natasha? Secondo me, ti sta ancora aspettando, in quella via di San Pietroburgo.
Cosa c'entra? Non era un impegno di lavoro.
Però le hai dato buca.
È passato. Gli errori sbiadiscono col tempo, fanno meno male. Comunque, sul lavoro non ho mai avuto colpi di testa.
Te ne devo rendere atto. Però pensaci bene, non dovevi fare altro oggi? Tipo... perquisire il vecchio casolare?
Posso mandarci Angelo. I sottoposti servono a questo.
Già, hai ragione.
Verso le undici e venti, Angelo depositò una pila di fogli sulla scrivania del suo superiore.
“Ci sono novità, signore. Abbiamo analizzato il filmato con cura.”
Nethanienko lo fissò sorpreso. Controllò furtivamente l'orologio, cercando di non farsi notare.
Fidarsi è bene, però...
“Vi ho consegnato il nastro alle nove. Come avete fatto a...”
“Mi sono preso la libertà di dividerci in cinque gruppi, in modo da velocizzare le operazioni. Ad ogni modo, ciò che abbiamo ricavato è in linea con la sua analisi.”
“Avete qualche dettaglio in più, sì?”
“Uno solo, ma importante. La ragazza che compare per un paio di secondi è una delle nostre scomparse.”
Tombola.
“Ne siete sicuri?”
“Corrisponde quasi perfettamente alle foto in nostro possesso. La coincidenza somatica è attorno al novanta, novantacinque percento.”
“Solo questo?”
“All'incirca. Abbiamo registrato complessivamente cinque aperture della porta dello stabile, senza apparente movimento da parte di figure umane. Non siamo riusciti a verificare la presenza di specchi all'interno dello stesso, la qualità delle immagini non è sufficiente.”
“Capisco.”
“Ora cosa facciamo, commissario?”
Nethanienko rimase in silenzio per un paio di secondi. Quale sarebbe stato il modo più saggio di agire?
“Abbiamo una pista, non è il caso di bruciarla per la fretta. Per prima cosa, invia il video alla scientifica: magari quelle testacce d'uovo riescono a cogliere particolari che ci sono sfuggiti. Manda qualcuno a spostare la telecamera, in modo che inquadri la porta da un'altra angolazione; sostituite le batterie, se necessario. Per sicurezza, montatene un'altra nelle vicinanze, dentro qualche cespuglio o su un albero. Deve riprendere la strada, l'unica strada carrabile che permette di raggiungere la casupola. Sono stato chiaro? Ah, un'ultima cosa: organizza dei turni di guardia. Voglio che un agente si apposti nei pressi dello stabile e faccia rapporto ogni due ore. Intesi? Ora devo andare, grazie per la collaborazione.”
“Dove va, signore?”
“Forse ho rintracciato un testimone chiave... ma non ne ho la certezza. Preferisco occuparmene di persona, in caso mi fossi sbagliato nessuno potrà diffondere false notizie a proposito. Se durante la mia assenza succede qualcosa degno di nota, fammi uno squillo; girami tutte le chiamate dirette all'ufficio sul cellulare; se qualcuno mi cerca di persona, occupatene tu. Domande?”
“Direi di no.”
“Bene. Se te ne vengono in mente, tienitele. Sarò di ritorno dopo pranzo.”
“Aspetti solo un attimo. Quasi dimenticavo.”
Angelo gli porse una busta sigillata.
“È arrivata stamattina. Nessun mittente. Indirizzata a lei. È abbastanza leggera, non l'ho ancora fatta controllare.”
“Chiedi a qualche chimico della scientifica di analizzarla per bene, al mio ritorno ci darò un'occhiata.”
Angelo annuì e uscì dall'ufficio del capo. Nethanienko si sistemò la benda, rinfoderò la sigaretta elettronica nell'astuccio, afferrò la giacca leggera, la indossò. Caricò con cura la pistola d'ordinanza e la ripose nella fondina. C'era una probabilità – seppur minima – che quell'appuntamento fosse una trappola. Aveva nemici? Qualcuno sì, gente a cui aveva pestato i piedi durante la sua carriera. Niente di particolare, dopotutto, nessuno che potesse avere interesse ad ucciderlo; ma si sa, meglio premunirsi, prepararsi al caso peggiore. Inserì la sicura.
Spero di non dover premere il grilletto.
Odiava l'odore della polvere da sparo, il rumore sordo della detonazione, il rinculo stesso dell'arma. Sparare era orribile, specie per un archivista di lungo corso, un analista cresciuto su documenti e plichi di scartoffie, a San Pietroburgo. La pistola sembrava praticamente nuova, nonostante avesse ormai più di quattro anni. La usava solo al poligono di tiro, per esercitarsi, durante le frequenti sessioni di allenamento. Doveva sottoporsi a quella tortura almeno quattro volte al mese, per riprendere le misure e imparare nuovamente a mirare. La sua media era diminuita drasticamente dopo l'incidente, da sette a due centri su dieci. Senza visione stereoscopica non era semplice valutare le distanze, specie se privato dell'occhio dominante.
Pazienza, mi ci abituerò.
Imboccò l'uscio del suo ufficio e si allontanò di gran carriera dal commissariato. Arianna lo stava aspettando.
Arianna... come quella del filo?
Sì, proprio così.
Bel nome. Non è molto comune.
Però è diffuso.
A proposito... come facevi a sapere che avrebbe chiamato? Nel sogno...
Ehi! Ora stiamo esagerando! Io sono solo una voce. Non posso influenzare il tuo subconscio.
Ne sei così sicura? Io non ne sono mica convinto.
Sono una voce sincera.
Anche su questo si potrebbe discutere a lungo.
Lasciamo perdere. Cosa pensi di fare, ora?
Mi sembra logico. Vado là e cerco di capire se è una bufala o meno.
Se io fossi in lei, me la darei a gambe vedendo un uomo mal rasato, con due enormi borse sotto gli occhi e una benda nera da pirata avvicinarsi minacciosamente.
Oh, stai zitta!
Non penso tu lo voglia veramente.
Nethanienko chiuse la palpebra.
Qual è la probabilità che un morto torni dall'aldilà?
Zero. I morti non risorgono a piacimento.
Zero? Perfetto.
Come scusa?
Beh, è già qualcosa.
Pensavo fosse molto più bassa.
Umile Servo di se stesso
Figure turbinanti si muovevano freneticamente, ritmicamente, sfumate, senza un preciso pattern, prive di forma, prive di significato. Entropia allo stato puro, assenza completa di informazione. Lentamente, un immagine si manifestò da quel disordine, assumendo contorni sempre più nitidi. Una figura femminile, vestita di bianco, immobile. Capelli neri, lunghi fino a metà del tronco, occhi azzurri, socchiusi, pelle molto chiara. Legata ad una sedia, mani e piedi. Le ci volle un po' per riconoscersi in quel riflesso, ancora di più per capire che si trattava di uno specchio.
Anzi, no.
Molti specchi.
Decine e decine di superfici lucide che amplificavano ogni singolo raggio di luce, illuminando la stanza a giorno.
Specchi, specchi ovunque.
Ricoprivano le pareti, completamente. Impossibile capire di che materiale fossero fatte, non un angolo, un vano a vista. Era circondata da copie di se stessa, apparentemente sorprese quanto lei, ed era sola.
Sola?
No, non è possibile.
Respiri, lenti, molti, da più parti. Tutti diversi. Un brusio di sottofondo, impossibile da ignorare. Dov'erano quelle persone, allora? Perché non le vedeva? Per quale motivo non riusciva a scorgerle? Erano coperte dagli specchi? Era una spiegazione – non la migliore, per carità, ma pur sempre un'idea. Sarebbe stato saggio chiedere aiuto ad alta voce?
Le corde le stringevano i polsi, causandole dolore ad ogni movimento. Com'era finita in quella situazione? L'ultima cosa che riusciva a ricordare era la tomba di...
“Francesco? Sei stato tu a portarmi qui?”
Nessuna risposta, solo respiri, placidi, tranquilli, nel buio. Acquattati, forse. In attesa di saltarle addosso, come in un macabro film dell'orrore.
“Francesco! Ti prego, liberami! Cosa sta succedendo?”
Passi alle sue spalle. Non si voltò, poteva controllare tutta la situazione grazie allo specchio che aveva di fronte. Si ammutolì, in attesa che comparisse qualcuno. Sempre più forte, il rumore dei passi, passi sempre più vicini, sempre più ravvicinati.
Dove sei? Dove? Perché non ti vedo?
Una mano sulla sua spalla. Il tocco morbido di un guanto di velluto. La ragazza urlò a squarciagola, svuotò completamente la cassa toracica, in preda al panico, in preda al terrore.
“La prego, signorina... si calmi. Non ho la minima intenzione arrecarle alcun danno.”
Una voce calma, asettica.
“Lieto di constatare che sta bene. Mi ha fatto preoccupare, ha dormito a lungo.”
Quella stessa voce che l'aveva svegliata dolcemente per anni.
La mano si strinse forte sulla sua spalla.
“Forse è stata colpa mia. In tal caso, le porgo le mie più umili scuse, signorina. Non era assolutamente nei programmi.”
“Fran... Francesco?”
Ancora passi, rumore di passi. Una figura fece la sua comparsa, ruotando attorno alla sedia. Abito nero, capelli neri, occhi scuri, pelle chiara, viso affilato, nessuna traccia di barba. Si produsse in un profondo, elegante inchino, muovendo in sincronia il braccio destro in segno di saluto.
“Per servirla.”
“Puoi liberarmi?”
“Non adesso, signorina. Non... adesso.”
La ragazza abbassò lo sguardo. Come poteva non averlo visto arrivare? Era circondata da specchi, da pannelli riflettenti e quant'altro. Se fosse stato alle sue spalle...
“Non si spaventi, signorina. È naturale che lei non possa vedermi, più che naturale.”
Un pensiero atroce nella sua mente.
“Sei un vampiro?”
Il volto di Francesco assunse un'espressione schifata.
“Con tutto il dovuto rispetto, non sono una creatura notturna effeminata costruita appositamente per affascinare adolescenti in crisi ormonale. Sono semplicemente me stesso, signorina, solo... in forma un po' diversa. Diciamo pure che questo mio corpo è solamente una proiezione, una proiezione in uno spazio tridimensionale di pura informazione a due dimensioni... una violazione dell'ordine precostituito. Sì, direi che non esiste una definizione migliore.”
“Non penso di capire.”
“Mi delude, signorina. Le lezioni del suo qui presente precettore non hanno dunque raggiunto lo scopo prefissato? Una macchia orribile sul mio curriculum.”
La ragazza cercò di muovere le braccia, senza successo. Anche le gambe erano fissate in modo efficace. Francesco la abbracciò.
“No, no! Non si agiti, signorina, non si agiti! Non deve aver paura! Sono qui, sono tornato per lei, solo per lei! Mai avrei potuto valicare l'eterna soglia in verso opposto, se non per il bene di un altro essere vivente.”
Le sue mani scivolarono sotto l'abito bianco, solo per un attimo, sfiorandole la pancia e i fianchi.
“Oh, signorina! Com'è cresciuta dall'ultima volta. Grande e forte, bella come un fiore. Una rosa nera, signorina, una bellissima, inarrivabile rosa nera.”
“Francesco! Cosa stai facendo?!”
Si allontanò, senza preavviso.
“Nulla. Assolutamente nulla. Mi sono lasciato... trasportare. Tutto qui. Un maggiordomo perfetto non dovrebbe assolutamente permettere che ciò accada... ma, vede, io ho rassegnato le dimissioni due anni fa. Sono giustificato.”
“Perché mi hai portato qua? Come hai fatto? Non ricordo... nulla.”
Un forte rammarico segnò il suo volto.
“Dolente di aver dovuto usare metodi poco ortodossi, signorina, ma stia tranquilla, nessuna arte occulta, solo cloroformio. Non sono nuovo a questo genere di comportamenti... e lei dovrebbe saperlo bene.”
“Mi hai narcotizzata al cimitero.”
“Precisamente.”
Francesco si appoggiò ad uno degli specchi, contemplando l'immagine della signorina. Silenzio, rotto solo dai respiri di corpi misteriosi, nascosti alla vista.
“Come sei tornato? Come... come hai fatto a...”
“Gliel'ho già spiegato, signorina. Io sono una proiezione, una fluttuazione della matrice del mondo, un'eccezione, se così vogliamo dire. Per un attimo, il mio io cosciente si è ricomposto, la realtà non aveva ancora sovrascritto la mia informazione latente. Una scintilla, la scintilla di un secondo. I miei pensieri si sono ricomposti, per una straordinaria casualità. Ha presente l'io penso? Si ricorda qualcosa di ciò?”
“Cartesio?”
“Questa risposta genera notevole gioia nel mio cuore, signorina. È un riconoscimento alle mie abilità di didatta.”
Si sistemò i capelli con un ampio gesto della mano.
“Ma non perdiamoci in quisquilie. Quell'istante, quel fugace frammento di tempo è stato sufficiente. Sono riuscito a controllare i miei frammenti, a ricomporli e ad estrarli dalla matrice, proiettandomi qui, in quello che noi ciecamente chiamiamo... mondo... reale! Ma lei certamente sa che le fluttuazioni, gli errori durano poco, molto poco. Un respiro... e sono già svaniti. È il principio di indeterminazione di Heisenberg: più la violazione è marcata, minore è il tempo che ha per esistere prima che la natura la sopprima. Esatto, signorina, non si può violare la legge di natura, se non per un tempo limitato...”
Si rivolse al cielo con gli occhi sbarrati, alzando le braccia in direzione del soffitto.
“...e sa qual è la massima violazione? La comparsa di un essere identico a quello scomparso. Identico, capisce? Una simile evenienza quanto potrebbe durare? Un femtosecondo, forse meno. Poco, non le sembra? Come dovrebbe comportarsi un essere nella mia situazione? Cosa dovrebbe fare, se non tentare di allungare la propria vita, godere di una seconda possibilità? Ma come, come riuscirci? Come?”
Si inginocchiò in lacrime.
“Come?”
Lacrime, lacrime amare. Pioggia di rugiada sul pavimento, assi di legno inumidite dalla paura. Si rialzò di scatto, aprì gli occhi. Le pupille strette, quasi come quelle di un gatto.
“Facile. Bisogna comportarsi in modo diverso, aprire la mente alla follia, rinunciare a parti di sé. In questo modo, la violazione non è completa, si riduce, per cui il transiente si allunga e il campo non si accorge della tua presenza, almeno per un po'. Devi persistere, devi allontanarti il più possibile da te stesso! Allora, ogni stravaganza, ogni invenzione, ogni trovata è buona! Non mi rifletto negli specchi? Bene, bene! Ho rinunciato a contemplare la mia immagine... perché io non dovrei essere qui. E se non sono qui, lo specchio non può riflettermi! Ah, la gioia del sillogismo, la perfezione della contraddizione! Come quello sbirro che è saltato in aria, BUM! E il mio riflesso, il mio riflesso nell'esplosione! Che gioia rivedermi, anche solo per un istante!”
Scosse la testa.
“Oh, ma perché tediarla con il racconto di tali avvenimenti?. Cancelli pure l'ultima frase, non ha nessuna attinenza con il resto. Non è importante.”
Pupille dilatate, l'iride si riduce ad un anello sottilissimo.
“No, non lo è. No, proprio no. No, no! Ma è dura, perché essere altro da sé comporta la rinuncia completa alle proprie passioni, ai propri desideri. Sì! Io posso manipolare le menti, posso insinuarmi, privarle della loro volontà, posso...”
Un blocco repentino dei muscoli, una marionetta dai fili recisi.
Immobile, di fronte ad uno specchio.
“Questi... questi sono solo i deliri di un pazzo, non è così, signorina? Posso dimostrarle che non è vero. In tutto questo tempo, in questi mesi... non ho fatto altro che pensare a lei. E mi sono organizzato al meglio per il suo ritorno.”
Ruotò il tronco, rimanendo fermo, un occhio fisso sulla giovane.
“Certo, lei mi ha reso la vita difficile, molto difficile. Si immagini la mia espressione quando ho scoperto che la villa, la magione di famiglia che ho servito così a lungo... è stata venduta. A chi, poi? Ad un maiale arricchitosi concedendo prestiti ad altissimo tasso di interesse. Uno strozzino ha dormito nel letto che fu di suo padre, signorina, ha banchettato al pregiatissimo tavolo d'ebano che ho apparecchiato per anni, ha goduto della compagnia di donne di malaffare nella sua camera, signorina, sul palco del suo piacere personale! Come può aver tradito così il nome che porta, signorina? Lei... mi ha ucciso una seconda volta!”
Distolse lo sguardo, rivolgendosi nuovamente allo specchio.
“Ho rimediato a questa ingiustizia, a modo mio. Il sudicio borghese di provincia si è suicidato in giardino, di fronte al bel melo che ho piantato poco dopo essere stato assunto. Si è impiccato ad un ramo, con la canna dell'acqua. Convincerlo non è stato difficile, mi creda. Sono bastate un paio di parole, di quelle che raggiungono il cuore. Mi sono trovato in difficoltà, non avevo più una traccia, non avevo più nulla. Se lei non era nella magione, a casa... dove poteva essere? A quel punto, mi sono dovuto fidare di Furieri, quel gentiluomo che ha prodotto il film sulla sua storia, la nostra storia. Un autogrill! Lei... lei ha lavorato! Ha vissuto per mesi, per anni in un autogrill! Una nobildonna di così alto lignaggio! È insopportabile! Inconcepibile! Mi dica la verità, signorina, lo ha fatto per cancellare il passato? Per dimenticarsi di me? Una come lei... lavorare! Sporcarsi le mani, quelle belle mani, fresche di manicure, così fini e delicate, le dita affusolate che ho visto scorrere più volte sul pianoforte d'epoca... perché? Mi risponda! Perché?!”
La ragazza alzò la testa.
“Dovevo riparare i tuoi torti. La villa è bastata a malapena a coprire i risarcimenti alle famiglie delle tue vittime.”
“E i fondi di suo padre, l'eredità? Non... non poteva usare quella?”
“Tu... come avresti fatto a vivere in un luogo così carico... di ricordi? Non me la sono sentita, Francesco. Mi dispiace.”
L'uomo si voltò verso di lei.
“Mi dispiace?! Mi dispiace?! È tutto quello che mi sa dire, signorina?”
“No. Stai zitto ed ascoltami.”
La ragazza lo fissò negli occhi, pupille in continuo mutamento su iridi scure.
“Cosa pensi che abbia provato quando ho scoperto la verità, Francesco? Credi... credi che sia stato semplice per me accettarlo? Il mio tutore, il mio unico amico, l'unica persona che mi capisse veramente...”
Un lungo sospiro.
“...null'altro che un assassino, uno sporco, efferato omicida. Io stravedevo per te, Francesco, ti avrei amato, se avessi potuto. Quando ho saputo... mi è crollato il mondo addosso! Tutto. Il mio. Mondo. In pezzi! Ho venduto subito la villa, è stata la prima cosa che ho fatto! Ma non è bastato a dimenticarti, oh, no! Lo sai? Ogni mese vado sulla tua tomba, accarezzo la tua foto, ti parlo di quello che ho fatto, di quello che ho imparato, dei miei amori, delle mie delusioni. Tu sapevi ascoltarmi... ma perché non hai mai parlato? Perché ti sei comportato in quel modo?!”
“Ero certo di agire per il suo bene. Anzi, sa cosa le dico? Da quando sono tornato, non ho fatto altro che prepararmi a questa riunione, signorina, ad accoglierla con tutti gli onori del caso...”
Francesco carica il pugno, un movimento rapido, improvviso. Lo specchio si frantuma in mille pezzi, schegge di vetro ovunque, frammenti di immagini sparsi sul pavimento. Un fracasso infernale, una pioggia di aghi di cristallo, il tintinnio della grandine. Gocce di sangue accanto ai cocci.
Sangue umano? I morti hanno ancora sangue? Forse. Non era una domanda da porre in quel momento.
Afferrò il telaio di legno e lo scaraventò a terra, spezzandolo a metà, rivelando il suo tesoro, il suo scrigno segreto. La signorina trattenne un grido.
Ragazze. Giovani. Nude. Sdraiate su lettini, su divani, mollemente adagiate su cuscini di gran pregio. Sguardo assente, gesti languidi e lenti. Si accarezzavano a vicenda, senza curarsi di nulla. Belle, belle davvero, nel fiore degli anni. Strinse il bracciolo della sedia.
“Cosa... chi sono queste...”
Francesco spazzolò l'abito, liberandolo delle schegge e della segatura appiccicatasi in seguito alla rottura del pannello di castagno.
“Non ha sempre desiderato un harem tutto per sé, signorina? Ecco ciò che le offro, in segno di pace, in segno di ritrovata umiltà. È il mio regalo di riappacificazione, affinché lei sia in grado di perdonarmi... perché lei mi perdonerà, non è così?”
Si avvicinò ad una ragazza sdraiata prona su una panca d'ebano, la pelle candida, in bella mostra. Lentamente, fece scorrere la mano sulla sua schiena, giocando con i lunghi capelli biondi.
“Morbidi e setosi, lucenti... era ciò che desiderava, non è così? Io ho solo svolto il mio compito fino in fondo, signorina, le ho trovato delle compagne disponibili a soddisfare...”
Sfiorò teneramente le guance della sua preda, senza causare alcuna reazione.
“...le sue più intime perversioni. Non mi dica che non ne vuole approfittare.”
“Sei un idiota.”
Francesco la fissò con occhi sbarrati.
“Prego?”
“Per un attimo ho creduto che fossi veramente tu, ma l'illusione è durata poco. Pensi che non mi sia accorta dell'espressione del tuo volto, del tuo sguardo affamato? Quando le tue mani si sono mosse sotto il mio vestito, ti sei trasfigurato, le tue pupille fremevano dal piacere, morivano dal desiderio! Non so come tu abbia fatto a portare qui tutto questo ben di Dio, ma posso immaginarlo. Le hai drogate, le hai private della loro volontà, poi le hai rapite... ma non per me! Stai solo cercando di trovare un alibi a te stesso, Francesco! Desideri questi corpi così come potrei desiderarli io, ma solo per tuo puro piacere! Io sono solo la tua giustificazione!”
Francesco serrò le labbra in un ghigno tremendo.
“Come può dubitare così del suo più umile e fedele servitore? Mi rincresce farle notare il suo errore. Se io desiderassi possedere questi corpi, signorina, non potrei averli. È frustrante, sa?”
“Cosa stai dicendo?”
“Non penso lei possa capire, è piuttosto complicato spiegare un difetto.”
Un difetto...
Francesco sorrise maliziosamente.
“Ora che mi ci fa pensare...”
Afferrò due oggetti indistinti, celati dalle tenebre che permeavano la stanza. Senza pensarci troppo, li lanciò verso di lei. La signorina rimase immobile, terrorizzata.
Non posso crederci...
A poca distanza da lei, un paio di scarpe da ginnastica, consumate dall'uso, vecchie di qualche anno. Per molte persone non avrebbero significato nulla.
“Aspetti, forse non può vederle bene da lì. Sa, ciò che conta in queste insulse, pidocchiose calzature è solo ciò che non si nota, il numero, la taglia. Ha presente?”
Si leccò le labbra con un movimento rapido della lingua.
“Abiti nemmeno degni di un barbone, di un senzatetto... eppure qualcuno li indossa. Francamente parlando, io non acquisterei mai un paio di scarpe di lunghezza diversa, preferirei camminare scalzo.”
Francesco le colpì con un calcio, allontanandole dalla sedia.
“Chi mai potrebbe abbassarsi a tanto, pur di proteggere i propri plantari dal duro suolo? Un essere indegno di vivere, un accidente, una deviazione dal percorso evolutivo. Un parassita!”
Ridusse pericolosamente le distanze, il suo volto ad un palmo da quello della padrona.
“Mi dica, allora, come si trattano i parassiti, con gli accattoni? Non si dà certo loro ciò che abbiamo di più caro! Mi ha. Profondamente. Deluso.”
Si voltò, rivolgendole la schiena.
“Una giovane di così alto lignaggio... appartarsi con una feccia del genere! Sono disgustato!”
La signorina chinò il capo, inorridita.
“Cosa le hai fatto?”
“Perché rovinarle la sorpresa? In fondo, tra un paio di giorni è il suo compleanno, signorina. Che festa sarebbe se le rivelassi in anticipo cosa ho preparato per lei?”
RicordiXincrociatI
“Mi scusi se ho fatto quella faccia, prima. Non avrei mai pensato che lei fosse un agente di polizia.”
“Dammi del tu. Non sono così vecchio, ho solo trentun anni. Lo so, ho un aspetto orribile, ma dopo la nottata che ho passato, chi non l'avrebbe?”
“Neanche io sono riuscita a chiudere occhio, stanotte, se può consolarla. Ho dovuto applicare un doppio strato di makeup per sembrare accettabile.”
Uno sbadiglio pesante dall'altro lato del tavolo.
“Capisco. Ad ogni modo...”
Nethanienko si fermò per un secondo, come per trovare le parole migliori.
“...cosa vuoi da bere? Offro io, questo locale non è così caro. Bada, non accetto un rifiuto.”
Arianna annuì titubante. Non credeva che fosse possibile trovare un parente di Cassie in città; quando aveva scoperto il cognome del commissario il suo cuore si era tuffato dal trampolino più alto, verso la follia.
Andrea Nethanienko, fratello di Eva Cassiopea Nethanienko.
Una macabra coincidenza, certamente. Difficile anche solo credere di essere così fortunata.
Aveva dovuto convincersene, chiamare di persona il distretto di polizia locale, farsi passare l'uomo di cui aveva bisogno, premurarsi che il cognome sia veramente lo stesso, sorprendersi quando aveva confermato tutto... e fissare un appuntamento per parlargli di persona.
Si guardò attorno, nervosa. Chissà cosa avrebbero potuto pensare amici, parenti o semplici conoscenti vedendola seduta al tavolo di un bar assieme ad un uomo più vecchio di dieci anni, privo di un occhio, con una sigaretta elettronica fra le labbra? Scrollò il capo, allontanando le sue preoccupazioni. Non era il problema più importante, al momento. Abbassò il capo, per non incrociare quella pupilla curiosa e vivace che si muoveva all'interno della cavità oculare sinistra. Si sentiva tremendamente a disagio, le tremavano le gambe dall'agitazione. Dopotutto, Nethanienko era un perfetto sconosciuto, mai incontrato prima di quel momento.
E se avesse cattive intenzioni? Se mi avesse avvicinato solo per adescarmi? Se mi rapisse per abusare di me, io... ma no, cosa vado a pensare!
Doveva trovare un modo per rompere il ghiaccio, prendere le redini di una conversazione che sembrava sul punto di morire ancora prima di nascere.
“Tutto a posto? Mi rendo conto di non essere la persona più indicata con cui bere qualcosa, ma non pensavo che...”
“Un analcolico alla frutta.”
“Come?”
“Ho deciso. Prendo un analcolico alla frutta.”
Nethanienko la squadrò per un attimo, poi rise divertito.
“E io che pensavo fossi in imbarazzo! Stavi solo scegliendo, eh? Io le donne proprio non le capisco, scusami.”
Arianna abbozzò un timido sorriso. Forse era riuscita a costruire un contatto, un ponte. Stava a lei renderlo solido ed attraversabile. Come iniziare?
Come se non dall'inizio?
“In questi due mesi, io ho frequentato una ragazza. Capelli rossi, occhi verdi, vestita in modo tremendo. Mi ha detto di chiamarsi Eva Cassiopea, non ha mai accennato al suo cognome, nemmeno una volta. Niente di strano, fino a questo punto, solo che poi... sono andata al cinema... a vedere Neonlight.”
Pronunciò il nome del film a fatica, come se assistervi fosse considerato un atto impuro e non consono alla sua etichetta. Chiuse gli occhi, riprese fiato.
“In quel momento, solo in quel momento... ho realizzato di aver stretto amicizia con un fantasma. Eva Cassiopea Nethanienko è morta durante le riprese, cadendo dal set della strada sopraelevata.”
“Un caso di omonimia, sì? Troppo semplice?”
Arianna lo apostrofò con aria decisa.
“Ci ho pensato, ma le coincidenze sono troppe! Passi il nome... ma l'aspetto? È identica alle foto di sua sorella, commissario, precisa, uguale! Non ho trovato una sola differenza tra Cassie ed Eva Cassiopea Nethanienko, nessuna!”
“Come l'hai chiamata?”
“Cassie, perché?”
Nethanienko chiuse l'occhio e rimase in silenzio, a pensare.
“Ho detto qualcosa che non va?”
“Sì. C'è un particolare che non mi quadra.”
Cassie. Cas-sie. C-a-s-s-i-e.
– Ciao, Cassie!
– Non chiamarmi così, Andrea! Detesto i diminutivi! Detesto il mio secondo nome!
– Vuoi che ti chiami Eva?
– È più bello, un nome da prima donna! Però preferirei se mi chiamassi Eve!
– Eve? All'Inglese? Non significa vigilia?
– Idiota! Scherzi a parte, a me piace di più così. È simmetrico, vedi? E-v-e. Lo puoi leggere e scrivere da destra a sinistra nello stesso modo, un palindromo. Rasenta la perfezione, capisci?
– No, non capisco. Prova a spiegarmelo!
– Ciò che è simmetrico è bello, unico. La natura è simmetrica, Andre, il mondo è simmetrico, geometricamente e matematicamente ideale!
– Mi risulta che la Terra sia tutto fuorché simmetrica...
– Cosa c'entra? È l'essenza che è perfetta, la sostanza! Una volta tradotta in materia, parte dell'informazione viene irrimediabilmente perduta. È per questo che io ho un occhio leggermente più grande dell'altro e il naso lievemente pendente a destra.
– Io non me ne sono mai accorto.
– Allora ti guardi poco allo specchio.
– Almeno non uso il microscopio per accorgermi dei miei impercettibili difetti.
– Io detesto i difetti! Sono insopportabili!
– Allora detesti qualunque cosa, anche te stessa!
– Perché? Mica sono un'imperfezione!
“No che non lo sei...”
“Scusi?”
Nethanienko aprì l'occhio.
“Scusa, semmai. Ti ho detto di non usare il lei, mi fa sentire vecchio. Comunque non stavo parlando con te, pensavo ad alta voce. Sai, mia sorella odiava essere chiamata Cassie. Ci ho provato, una volta – anche se mi aveva espressamente richiesto di non farlo. Per tutta risposta, mi ha lanciato una scarpa, poi l'altra.”
“Tutte e due?”
“Sì, per una sua qualche nozione malata di simmetria. Penso che stravedesse per il test delle macchie di Rorschach già dalle elementari. Non se ne sarebbe mai tolta una sola.”
“Vuole dire... cioè, vuoi dirmi che non avrebbe mai indossato due calze di colore diverso?”
Nethanienko si esibì in un ghigno malcelato.
“Figurati! Piuttosto sarebbe andata in giro a piedi nudi. No, non lo avrebbe mai fatto, neanche se ne fosse andato della sua esistenza.”
Arianna si chiuse in un silenzio pesante. Nethanienko continuò imperterrito.
“Addirittura, dopo aver colorato con i pastelli, temperava quelli che non aveva usato in modo che le matite avessero tutte la stessa lunghezza. Temo fosse quasi un'ossessione per lei.”
“Non è la stessa persona che conosco io. Se devo essere sincera... è l'esatto contrario della ragazza che mi hai appena descritto.”
Un sospiro nervoso.
“Capisco. Sarebbe stato troppo bello per essere vero.”
“L'aspetto coincide perfettamente... ma la Cassie che frequento si comporta in modo esattamente opposto.”
“Puoi spiegarti meglio?”
“Beh, indossa sempre vestiti... particolari. Un chiodo di pelle con la cerniera difettosa, una t-shirt con una manica più lunga dell'altra, jeans strappati, una cintura con un buco solo, calze spaiate e scarpe di due numeri diversi. Ama le imprecisioni alla follia, vive nei difetti e li fa suoi. Penso... penso siano parte di lei. È scostante, cambia idea e umore rapidamente, prima ride, poi scoppia in lacrime, senza apparente motivo. Anche i suoi gusti in fatto di compagnie cambiano molto rapidamente...”
Si interruppe per un attimo. Forse non era il caso di raccontargli della ragazza dai capelli neri, non ancora. E neppure di come il suo rapporto con sua sorella fosse mutato da semplice amicizia a... qualcosa di più. Nethanienko sembrò turbato dalle sue parole.
“Decisamente non è mia sorella, lei non si sarebbe mai comportata così. Pazienza, sarà uno straordinario caso di somiglianza genetica. Grazie lo stesso.”
Fece per alzarsi, ma l'arrivo del cameriere frenò la sua corsa.
“Avete deciso?”
L'uomo sospirò e riprese posto a sedere.
Ho una sola parola.
“Sì. Per me una coca cola media, per lei un analcolico alla frutta.”
L'inserviente segnò tutto sul taccuino e portò via le liste.
“A quanto pare, dovrò godere della tua compagnia ancora per un po'.”
“Non sono così sicura che sia una coincidenza.”
“Cosa vuoi dire?”
“Non so... è troppo bizzarro per essere vero. Compare dal nulla una ragazza identica a tua sorella, una ragazza che si comporta esattamente al contrario. Non ti sembra... strano?”
Nethanienko scrollò le spalle.
“Mica tanto. Ne ho viste parecchie di stramberie, questa non è né la migliore né la peggiore. Dai, beviamoci su e dimentichiamoci dell'accaduto.”
“Se non hai la minima fiducia nel fatto che possa essere tornata... perché sei venuto qui? Cosa ti ha convinto?”
L'uomo si bloccò.
Già... perché ho accettato di incontrarla?
Come fai a non ricordarlo? Non è difficile. Sforzati un attimo.
Aspetta solo un secondo. C'entrava qualcosa una foto?
Esatto. Una bella foto. Una foto di Eve.
Quale delle tante?
Sei sicuro di stare bene? Quella sulla tua scrivania.
“...il cappellaio matto?!”
Arianna sgranò gli occhi.
“Non è possibile...”
“Per quale motivo?”
Arrossì imbarazzata.
“Ecco... io non so perché... perché ho detto quelle parole. È come se... una vocina nella mia testa mi avesse suggerito, mi avesse imposto di pronunciarle. Mi sembrava una sciocchezza, un fatto privo di rilevanza e...”
“Ho una cornice in ufficio, con una foto. Una bella foto, di quattro anni fa. Me l'hanno spedita i miei genitori da Torino, assieme alla comunicazione della morte di mia sorella. Sai com'è ritratta, sì? Prova ad indovinare.”
“Vestita... da cappellaio matto?”
“Esattamente. Cilindro rattoppato, aperto, giacca più grande di lei, asso di quadri fissato alla tesa. Era tenera, in quella foto, aveva dodici anni. Dovevano avergliela scattata nell'unico momento in cui aveva deciso di fregarsene della simmetria, della perfezione. Un momento irripetibile, da fissare su pellicola. Esiste una sola copia della foto e, guarda caso, sono io a possederla. Le probabilità che qualcuno diverso da mia sorella possa esserne a conoscenza sono quasi nulle.”
Il cameriere portò le bibite ordinate con colpevole ritardo. Nethanienko gli allungò una banconota da dieci euro, ricevette il resto, prese il bicchiere dal vassoio.
“Sai, dovresti farmi conoscere questa tua amica. Se non è veramente mia sorella, è qualcuno che le è stato vicino.”
“Non può essere che lei avesse una gemella?”
Nethanienko rise di gusto.
“Ho assistito al parto, vicino a mio papà. Ti garantisco che ne è uscita una sola! Avevo entrambi gli occhi, all'epoca, vedevo molto meglio di adesso.”
Alzò il bicchiere invocando un brindisi. Arianna sembrò non capire.
“Mai brindato? Non è difficile, basta avvicinare i bicchieri fino a sentirli tintinnare.”
“Cosa festeggiamo? Non mi sembra che...”
“Alle ortiche i festeggiamenti! Certe volte si può anche brindare senza un motivo preciso!”
La ragazza sollevò il suo cocktail dal tavolo, con un misto di timore e confusione. Un suono acuto, penetrante si dipanò in tutte le direzioni, un leggero tintinnio prodotto dai due contenitori di vetro al momento del contatto. Nethanienko trangugiò la sua bevanda gassata rapidamente, sperando che Arianna facesse lo stesso. Rimase a guardarla per un po', un occhio inquisitore su di lei. Sembrava indecisa sul da farsi.
“Quanti anni hai?”
“Ventitré.”
“Hai un ragazzo?”
“No.”
“Qualcosa oltre lo studio?”
“Niente. Esco con dei miei amici, nei fine settimana.”
“Amori non corrisposti?”
Arianna alzò tono di voce.
“Cos'è, un interrogatorio? Lei non ha diritto di scandagliare la mia vita privata! Non voglio essere giudicata da...”
Il commissario sospirò.
“Il profilo psicologico che ho ricostruito grazie alla nostra conversazione era corretto, dopotutto. Sai, mi sono chiesto come fosse possibile che una ragazza seria e compita come te avesse iniziato a frequentare una diversa come questa Cassie. Mi hai incuriosito fin dal primo momento: parli, ti contraddici, cerchi di non mostrare le tue emozioni, le nascondi, le reprimi fino a scoppiare. Tu mantieni alta la tua immagine di perfettina solo perché pensi che gli altri non sarebbero in grado di accettarti, se ti comportassi in modo diverso. In realtà sei più simile a lei di quanto non sembri. In Cassie, probabilmente, hai trovato una proiezione di ciò che vorresti essere e non sei, ed è per questo che ti affascina così tanto. Magari te ne sei pure innamorata, se sei in questo genere di cose.”
Estrasse la sigaretta dall'astuccio e la portò alle labbra.
“Penso che valga la pena conoscerla, a questi punti. Saresti così gentile da portarmi da lei? Dove abita?”
Arianna non rispose, era troppo impegnata ad esaminare se stessa.
Cassie... una proiezione di ciò che vorrei essere?
“Tutto a posto? Mi dispiace interrompere il tuo momento di profonda riflessione esistenziale, ma ho una certa fretta – sai, dopotutto esiste una possibilità di ritrovare mia sorella viva e vegeta, in barba al funerale e a tutte le leggi della fisica note.”
Arianna sembrò risvegliarsi dal suo stato di coma vigile.
“Hai presente il ponte sul torrente?”
“Quello piccolo, ad arco?”
“No, no! Il ponte, quello su cui hanno costruito il municipio, quello che copre completamente la foce del torrente!”
“Ah, quel ponte. Sì, ho presente. A proposito, c'era pure una voce che girava stamattina. Diversi automobilisti dicono di aver visto due ragazze appartarsi là sotto, ieri pomeriggio, e darci dentro come delle pazze.”
Nethanienko inspirò dalla sigaretta, rilasciò uno sbuffo di vapore acqueo.
“Sì, come no. Figuriamoci se è vero. Se tutto va bene, erano pantegane un po' più grandi del solito. Certo che questi milanesi in ferie ne hanno di fantasia...”
Il volto di Arianna avvampò bruscamente, per un lungo, interminabile istante, prima di tornare sotto controllo.
“M... mi sembra una notizia buona solo per i rotocalchi da parrucchiere. A... ad ogni modo...”
Deglutì rumorosamente, tentando di riprendere il filo del discorso.
“Ad ogni modo, Cassie vive là sotto. Si è creata un open-space con angolo lettura ad una ventina di metri dall'imboccatura. Finora non l'hanno trovata perché... perché ultimamente il comune non ha mandato nessuno ad ispezionare il letto del fiume, per mancanza di soldi, mi pare.”
“Non così incredibile. Dovresti vedere cosa dicono sui costi della nostra centrale.”
Un altro sbuffo di vapore.
“L'ha aiutata qualcuno a sistemarsi lì?”
“Sì, un poliziotto. Mi sembra che si chiamasse Alessandro... qualcosa.”
Pensieri folli nella mente di Nethanienko.
“Ho conosciuto una ragazza. Ha circa vent'anni.”
“Sbaglio o sei trent'anni più grande?”
“Cos'hai capito, imbecille? Volevo dirtelo perché è parecchio strana. L'ho trovata in stato confusionale in mezzo ad una strada. Nuda. Non spiccicava nemmeno una parola, così l'ho aiutata, le ho dato due vestiti rattoppati che avevo in casa e ho cercato di cavarle qualche informazione.”
“Non mi sembra che tu ne abbia denunciato il ritrovamento. Avresti dovuto...”
“Ho già controllato le denunce di scomparsa ma nelle liste non ho trovato nessuna persona che le possa assomigliare. Preferisco aspettare ancora un po'.”
“Cosa sai di lei?”
“Solo il suo nome.”
Scirea fa un altro passo.
“Ah... e come si chiama?”
“Ev...”
“Scirea...?”
Possibile che fosse tutto collegato?
No, è assurdo.
Arrenditi all'evidenza.
Di nuovo tu?
Sì.
Finora sei stata zitta.
Scusa, sono stata trattenuta.
Come fa una voce ad essere trattenuta?
Lascia perdere, ti va? Comunque vedo che stai facendo passi da gigante.
Dipende dai punti di vista.
Non penserai che sia tutto un caso?
Cos'altro dovrei pensare?
Prova a ricostruire i fatti, senza fretta.
Dunque... dal nulla compare una ragazza che assomiglia in modo allucinante a mia sorella. Scirea la trova, le dà una mano ad organizzarsi, poi muore saltando su una mina. Eva conosce Arianna – la bambolina ingessata con cui sto parlando ora – e, in sua presenza, si traveste da cappellaio matto, si fa fotografare. In qualche modo, Arianna scopre la sua somiglianza con una morta, decide di cercarne un parente... e, caso strano, trova me. Troppe coincidenze. Se il mio cognome fosse stato più comune...
Non sarebbe cambiato nulla. Le sarebbe bastato fare una ricerca un po' più approfondita. Anche se si fosse chiamata Eva Cassiopea Rossi, qualche risultato sarebbe saltato fuori quasi subito.
E se si fosse chiamata, cosa ne so, Angela Rossi? Sai, un nome ancora più comune?
Avrebbe inserito le parole chiave Angela Rossi – Neonlight – Incidente, no?
In effetti...
“Commissario?”
Nethanienko abbandonò la voce a se stessa, tornando a concentrarsi sul presente.
“Stavo pensando. Sembra che un'incredibile ragnatela di coincidenze abbia portato questa fantomatica Cassie ad incrociare la mia strada, in un modo o nell'altro. Mi domando se non ci sia un disegno intelligente, dietro tutto ciò.”
“In che senso?”
“Nel mio lavoro, il caso non esiste. Se troppi avvenimenti improbabili avvengono a breve distanza l'uno dall'altro, esiste una buona chance che siano pilotati, che esista un qualche burattinaio capace di reggere i fili del teatrino e guidare le marionette verso la naturale conclusione della storia. Bada, con burattinaio intendo un regista occulto, non una qualche forma di divinità sovrannaturale. C'è una mano umana, dietro tutto questo.”
“Ne è così sicuro?”
“Ancora con questo lei? La smettiamo, sì?”
“Ne sei così sicuro?”
“Al mille per cento.”
“Temo che dovrai ricrederti.”
Arianna aprì la sua borsa e ne estrasse un volumetto. Sembrava uno di quei fumetti giapponesi che si potevano trovare a poco prezzo in edicola, solo un po' consunto dall'uso.
“Leggi abitualmente quella robaccia?”
“Sfortunatamente no, mi piacerebbe farlo se ne avessi la possibilità.”
“Ma tu ne hai la possibilità! Ti basta andare in edicola, sganciare una banconota grigia e comprare, tutto qui. Cosa c'è di difficile? Non credo che tu abbia problemi di soldi, i tuoi abiti parlano per te!”
Arianna arrossì leggermente.
“Non sarebbe... conveniente.”
Nethanienko espirò una nube di fumo denso e dolciastro.
“Capito. Questioni di immagine, eh? Ad ogni modo... cosa c'entra quel manga con mia sorella?”
“Prova a leggere le note a penna, quelle a bordo pagina. Le ha scritte Cassie.”
Nethanienko strabuzzò l'occhio.
“Perché non me ne hai parlato prima?!”
Afferrò il volume ed iniziò a sfogliarlo in modo febbrile. La calligrafia di Eva era ancora impressa nella sua mente, non avrebbe potuto confonderla con quella di un'altra persona.
Il discriminante, l'arco di Ulisse della situazione!
Poche parole scritte con una biro nera, sbordando sulle figure, parole timorose, riflessioni sulla propria esistenza, domande. Si fermò ad analizzarne una, una in particolare. I tratti, le pance delle lettere, persino la spaziatura. Identica, senza ombra di dubbio.
“Non è possibile... è la stessa grafia di...”
“Hai provato a leggere cosa ha scritto?”
“No, non ancora. Ero troppo impegnato a sorprendermi.”
Nethanienko si riprese dal suo stato di contemplazione e si concentrò sulla lettura.
Venti febbraio. Le macchine digitali non mi vedono. È come se fossi un fantasma, è triste. Sono veramente viva?
“Cosa cavolo significa?!.”
Sette marzo. Sono due mesi che conosco Arianna. È il mio unico contatto con la realtà. Ora ricordo per chi è la foto, ma non mi viene in mente com'è fatto.
“La foto del cappellaio?”
Nove marzo. Per dieci minuti, il mio mignolo destro è scomparso. Temo di essere instabile. Devo fare in fretta.
“Questa è pura follia...”
Dieci marzo. Sono andata in discoteca, lì una ragazza mi ha avvicinato. Era bella, con quei capelli neri, quegli occhi azzurri, quell'abito bianchissimo. Ci siamo baciate e abbiamo fatto l'amore, per tutta la notte. Se lo dicessi ad Arianna vomiterebbe. Non mi ha detto il suo nome. Però ho il suo numero. A lei ho detto molte cose.
Nethanienko rise nervosamente, in modo convulso.
“Mia sorella, la mia piccola Eva... a letto con una ragazza?”
Sembrò non riuscire a fermarsi.
“Questa potevo aspettarmela, da lei... cosa c'è di più simmetrico di un rapporto tra due donne?”
Il suo tono di voce era cambiato, era diventato un misto di ironia e tristezza, quasi piagnucolante. Arianna si strinse tra le braccia.
Se solo sapesse cosa è successo tra noi...
Nethanienko lasciò cadere il volumetto sul tavolo, scosse la testa con rassegnazione.
“No, se è lei, è totalmente impazzita. Non riesco a credere ad una sola parola...”
“Non sono tutte bugie. Ho chiamato il numero di telefono, quello che è scritto qui.”
L'indice di Arianna si mosse a cercare l'annotazione incriminata, sottolineando più volte il numero di cellulare.
“Mi ha risposto una ragazza, giovane, avrei detto. Ha confermato tutto. Dovrebbe richiamarmi per darmi un appuntamento, le ho chiesto se possiamo vederci.”
“D'accordo emulare Eva, ma fino a questi punti...”
Arianna arrossì in modo violento.
“Ma cosa hai capito! Leggi meglio cosa ha scritto Cassie! A lei ho detto molte cose. Cosa può averle detto? Sono pur sempre informazioni in più.”
“Lo avevo capito.”
“Non sembrerebbe.”
Nethanienko liberò un nuovo sbuffo di fumo grigiastro nell'aria.
“Lieto che tu abbia questa idea di me. Ora andiamo a cercare la tua amica, sì?”
Emergere
Aprì gli occhi, lentamente, con prudenza. Era buio, attorno a lei. Tutto. Buio. Un filo di luce?
Per favore, vorrei vedere...
Scosse la testa in modo scomposto, dimenandosi e barcollando. Provò a sollevare il braccio destro, a coordinare un movimento. Un dolore lancinante al polso, il clangore metallico di una catena, portata a tensione. Sospirò.
Okay, proviamo il sinistro.
Poco alla volta, mosse l'altro braccio, senza fretta. Non voleva riservargli la stessa sorte del destro. Con suo enorme sollievo, si accorse di non essere legata da entrambi i lati. Lo stupore si trasformò quasi immediatamente in indignazione. La simmetria era rotta, la situazione non era identica per riflessione del sistema di riferimento. Chiunque l'avesse imprigionata, avrebbe dovuto perlomeno incatenarla nello stesso modo da ambedue le parti. Sbuffò malinconicamente, poi scrollò il capo con vigore.
Cosa stai facendo, Cassie? Non devi comportarti come... come vuoi, se desideri rimanere in vita!
“Ma lo desidero veramente? È questo quello che voglio?”
Pensieri ad alta voce, nel silenzio irreale della stanza. Non un rumore, non un sussurro. Solo il cigolio degli anelli di metallo, lo scricchiolio del parquet. Mosse prima la gamba destra, poi quella sinistra.
Bene, anche queste sono libere.
C'era qualcosa di strano, molto strano. Era scalza, qualcuno le aveva sfilato le scarpe. I piedi erano liberi di tastarsi tra loro, di riconoscere uno le curve dell'altro, anche nel buio impermeabile che la avvolgeva come un manto di tenebra. Rapidamente, scandagliò il proprio corpo con la mano sinistra, sperando che non mancasse nient'altro. Sospirò, rassicurata. La giacca era a posto, così come la maglietta, i pantaloni, la cintura, le calze, l'intimo. Tutto regolare. Solo le scarpe sembravano sparite nel nulla.
“Peccato, erano belle scarpe, solo un po' difettose... come me, del resto.”
Parlare ad alta voce le conferiva la forza di affrontare la situazione, una situazione difficile, pericolosa. Cercò di riepilogarla, giusto per passare il tempo.
“Dunque... il mio polso destro è incatenato alla parete; sono seduta su un pavimento di legno marcio; le mie calzature se la sono svignata. Non male, non male davvero.”
Non aveva idea di come fosse finita lì, in quel luogo, ma era fiduciosa di scoprirlo quanto prima. Del resto, gli ultimi avvenimenti l'avevano avvicinata alla matrice di realtà – forse anche troppo – per cui non sarebbe stato troppo complicato recuperare le informazioni richieste... ma farlo sarebbe stato equivalente ad un suicidio. La violazione del tessuto era ormai evidente, il suo tempo di vita si era notevolmente assottigliato.
Ore? Giorni?
Non poteva esserne sicura, l'unica certezza era che a breve sarebbe svanita, per non tornare mai più.
“Peccato, avevo ancora così tanto da fare...”
La sua mente si mise in moto, inquieta. Cosa poteva aver distrutto il suo orologio interno? Quale circostanza poteva aver decimato la sua aspettativa di esistenza? Cosa? Chi? Come? Quando?
A pensarci bene, la risposta è semplice. Sono stata... davvero... stupida! Ho lasciato una traccia.
Sì, una traccia, qualcosa di lei era stato registrato nella matrice di proiezione, portando la rottura delle leggi fisiche al massimo consentito. Una ragazza morta che interagisca con persone che l'hanno conosciuta in vita...
Non può esistere, ovviamente. Solo un'imbecille si sarebbe fatta scattare quella foto... in quel modo. Ho fatto di tutto per rimanere impressa su quella pellicola, ho riacquistato per un attimo la mia essenza completa, solo per un attimo... ma è stato sufficiente a distruggere il mio guscio, le mie speranze. Che stupida...
I suoi occhi familiarizzarono con l'oscurità che impregnava l'atmosfera, permettendole di riconoscere alcune vaghe forme indistinte.
Chissà chi mi ha rapito. Magari non lo scoprirò mai, mi immagino la scena. Il rapitore entra, apre la luce e tutto quello che trova è un mucchio di abiti accantonati accanto ad una catena. Si avvicina per capire meglio, pensa che io sia scappata, poi fa l'inventario dei vestiti. Una giacca di pelle che non si chiude, una maglia con una manica più lunga dell'altra, un reggiseno, un paio di slip, jeans strappati, una cintura con un buco solo, calze spaiate. A questo punto, pensa che io sia riuscita a divincolarmi e che sia scappata nuda. Si guarda attorno, un po' sorpreso dalla situazione, ma non vede altro se non la stanza, come l'aveva lasciata. La manetta non è stata forzata, le finestre ancora serrate. Svanita in una nuvola di fumo? Improbabile, ma quale altra spiegazione...
La porta aperta, luci in sala!
Cassie alzò lo sguardo, disorientata da quell'improvviso flash accecante. Una lampada alogena montata sopra lo stipite spandeva la sua luce intensa, fredda, rischiarando a giorno il locale. Le ci volle un po' prima di abituarsi, prima di riuscire a scorgere nuovamente qualcosa. Scosse la testa come una forsennata, aprendo e chiudendo gli occhi a ripetizione.
“Non faccia così, signorina. Non è salutare. Se ha la bontà di attendere solo per un attimo, mi premurerò di renderla partecipe della situazione.”
Una voce gentile quanto impersonale, una voce maschile. Mise a fuoco qualche dettaglio: abito completamente nero, nero come i capelli. Occhi scuri, viso affilato, pelle chiara – molto chiara, quasi come la camicia. Lo sconosciuto si produsse in un profondo inchino.
“Gradisca ricevere qualche delucidazione. Se tra le molte domande che hanno sicuramente affollato la sua mente, generando flussi interminabili di pensieri ed ipotesi, si è chiesta perché e come si sia generata la situazione attuale, sarò lieto di risponderle.”
Cassie rimase in silenzio, poi rise, rise senza ritegno. L'uomo inarcò un sopracciglio.
“Devo dedurre che la mia presenza non è gradita da vossignoria?”
La ragazza scoppiò in lacrime, in un pianto liberatore, senza apparente motivo, salvo poi ricomporsi e riprendere un inconsueto contegno. Francesco rimase immobile, a metà dell'inchino.
Chi o cos'è questa svalvolata? Un'amica dello sbirro blu, quello che è saltato in aria? Perché no? Però è rossa! È rossa! Non è blu! Già, già. Allora? No, è sua amica, ne sono sicuro. Ha lo stesso odore, l'odore di follia, di morte! Un profumo inebriante, sconvolgente! Ehi, blu! Torna a farti un giro giù, salta su un'altra mina, davanti a questa ragazza! KABOOM!
Le sue pupille si erano ristrette in modo innaturale, il volto contratto in un ghigno animalesco. Cassie si appiattì al muro, terrorizzata. Aveva solo due certezze al momento. La prima: lei era mentalmente instabile; la seconda: anche lui era mentalmente instabile.
Francesco assunse un'espressione stupita, rendendosi forse conto dell'accaduto.
“Chiedo venia, non era mia intenzione spaventarla, signorina.”
“Piantala di chiamarmi così. Non sono una nobile, solo una ragazza spaventata e, probabilmente, la prossima vittima di un maniaco feticista!”
“Mi rincresce informarla che non rispondo alla descrizione testé espressa. Non ho alcuna intenzione di usarle violenza, signorina. Ah, perdoni l'appellativo, ma se non so come posso chiamarla...”
“Cassie. Preferisco che mi chiami Cassie.”
“Diminutivo di Cassiopea, se ben rimembro. Nome interessante, deriva da alcune leggende elleniche che...”
“Se non sei un maniaco, perché mi hai rapita e portata qui? Non ricordo un accidenti di nulla!”
“Se posso permettermi, Cassiopea, mi sarei gravemente stupito del contrario. Il campo non necessita di troppa forza per essere violato, per essere assimilato e controllato. Se le dicessi che è venuta qui di sua spontanea volontà ad una mia precisa richiesta?”
“Un ipnotizzatore da baraccone?”
“Per nulla, mia spocchiosa ed insolente ospite. Ho solamente modificato la matrice intrinseca della natura, in modo da guidarvi a me. Sa, necessitavo del suo arrivo, Cassiopea.”
L'uomo si avvicinò lentamente, un passo alla volta.
“Volevo chiarire come abbia potuto la signorina...”
Le afferrò il mento, con la mano inguantata.
“... perdere la testa per questo bel visino innocente. È un mistero per me, sul serio. Non capisco perché la mia nobile padrona le abbia donato ciò che ha di più prezioso, dopo averla incontrata... solamente. Una. Volta. Mia cara, lei non è neppure bionda, non ha gli occhi azzurri, non è particolarmente formosa, è una parassita della società. Ammettiamolo, è stata un'astuta opera di arrivismo sociale. Lei ha fiutato il desiderio della signorina e si è procacciata un biglietto per i quartieri alti. Non è così?”
Cassie si fece scura in volto, lo fissò con sguardo deciso.
“Io non ho fatto un accidenti di nulla, stavo solo bevendo un cocktail in santa pace. È stata la sua signorina a puntarmi, a volermi. L'unica mia colpa è stata quella di non aver rifiutato le sue attenzioni.”
“Mi dica, le è piaciuto? La serata è stata di suo gradimento?”
“Se permette, questi sono affari miei.”
Francesco la squadrò con aria maliziosa.
“La reticenza non è una qualità che ammiro nei miei interlocutori. Gradirei. Una. Risposta.”
“Non ci siamo, non è il tono giusto.”
Uno schiaffo sulla guancia destra.
“Che deprecabile mancanza di rispetto.”
Le afferrò la t-shirt e la tirò con forza, sollevando la ragazza da terra.
“Sa? Se c'è una cosa che detesto più della reticenza è la mancanza di rispetto. Le conviene non abusare della mia pazienza, Cassiopea.”
La maglietta mugolò di dolore, tesa fino al limite della sua resistenza elastica.
“Conosco molti modi per umiliare una persona. Non mi costringa a metterli in pratica.”
Lasciò la presa, poco prima che il tessuto si strappasse. Cassie cadde sul pavimento, rimbalzò e si ritrovò supina, stesa sulle assi di legno marcio.
“Ho deciso di non farle troppo male, per ora. Sa, lei sarà l'ospite d'onore alla festa di compleanno della signorina, tra qualche giorno. Non sarebbe gentile né consono all'etichetta maltrattarvi. Con permesso.”
Francesco si produsse in un elegante inchino, poi si diresse verso la porta e la chiuse alle sue spalle. Cassie si mise a sedere e si risistemò gli abiti con cura. In fondo, erano gli unici che aveva, se si fossero rovinati non avrebbe avuto di che sostituirli. Sospirò rumorosamente. Era vittima di uno psicopatico con manie di grandezza e la discutibile tendenza a vestirsi da pinguino. Si accarezzò i capelli tentando di rimuovere le tracce di segatura e le schegge di truciolare, inclinò il collo prima a destra poi a sinistra, chiuse gli occhi, gli riaprì. Sbadigliò nel silenzio assoluto, cercando di raccogliere le idee.
Alla fine l'ho trovata, la perturbazione del campo naturale. Certo, non avrei mai pensato che fosse un ritornato come me, ma d'altronde è più semplice che due eventi improbabili non correlati avvengano a poca distanza l'uno dall'altro che dopo tempi considerevoli... questione di statistica. Pura matematica applicata.
Sospirò nuovamente.
Era troppo tronfio per capire, non penso abbia collegato. Ora che se n'è andato posso chiudermi di nuovo in me stessa... e riflettere sulla mia fine. Non penso che manchi molto, ormai. L'unico rimpianto che ho è quello di non aver incontrato la persona che più mi sta a cuore.
“Non è giusto...”
Una lacrima sulla sua guancia.
“Che senso ha? Che diavolo di senso ha? Tornare dalla morte... e spegnersi così presto?”
Si rannicchiò accanto alla parete, la testa stretta tra le mani. Sentì un insensato, disperato bisogno di affetto, di essere amata, capita. Altre gocce raggiunsero il pavimento, come pioggia primaverile. Una lacrima, due, tre. Stava piangendo, Cassie, piangendo per la delusione.
Perché sono tornata? Non ho fatto altro che rendere il mio dolore più forte. È frustrante, poter ottenere tutto ciò che voglio... ma non ciò che bramo di più! Se ci fossi riuscita, sarei scomparsa prima, non appena il mio desiderio si fosse appagato. Non posso essere chi sono, non posso comportarmi come prima.
La sua mente tornò al saggio di Leòn Correo, La verità nel sonno, senza un particolare motivo. Doveva esserle rimasta impressa una frase, un concetto. Tentò di ricordare le parole esatte – quasi come se fosse un gioco. Certo, era altamente improbabile riuscire a memorizzare un'intera frase di quel volumaccio ma, d'altronde, lei viveva di coincidenze, la sua stessa esistenza era un difetto. Si concentrò con tutta se stessa, dimenticandosi quasi di respirare. Improvvisamente, le si aprì il libro davanti, come se lo stesse effettivamente leggendo.
Svegliarsi è forse una delle sensazioni più orribili.
Nei sogni viviamo un'altra realtà, esteticamente più raffinata e libera dai vincoli.
Il mondo dei sogni non è il nostro mondo, segue altre regole, più intime e nascoste. Quando ce ne rendiamo conto, il sogno diventa il nostro impero, la nostra via.
Nei sogni puoi volare, uccidere, amare, senza rimorsi, senza rimpianti.
Il mondo si piega al nostro volere, percepisce i nostri pensieri e vive delle nostre emozioni.
È una simbiosi potente, inspiegabile.
Noi siamo parte del sogno e il sogno stesso è parte di noi.
È un rapporto duplice e mutevole: il mondo onirico non può vivere senza di noi, noi non possiamo prescindere dal mondo onirico.
Quando sogniamo, interagiamo col campo intrinseco della natura, con la sua struttura fine, la sua energia sottile. Il sogno è il portale per un altro mondo, per un'altra vita.
Nei sogni noi possiamo ricostruire l'intimo contatto con la nostra madre perduta e nascosta, una madre che noi non vediamo, ma siamo in grado di percepire.
Nei sogni, la vita. Buffo, a tratti divertente, quasi ironico per un essere in procinto di svanire. Scosse la testa in modo violento, ne aveva abbastanza di quella situazione. Si alzò in piedi, con un unico movimento deciso, e si incamminò verso la porta d'uscita.
Afferrò la maniglia con la mano destra. O, almeno, provò a farlo.
Le ci volle un attimo per accorgersi di ciò che era accaduto.
Un altro le servì per rendersene effettivamente conto, un terzo per accettarlo e catalogarlo come una triste realtà.
Mosse il braccio destro, portando la mano al livello del volto, quella stessa mano che sarebbe dovuta essere incatenata al muro.
Libera, libera come l'aria. Impalpabile come l'aria.
Ruotò il polso disperatamente, alla massima velocità. Non poteva essersi sbagliata, non così tanto. Le dita lunghe e affusolate, il palmo, il dorso, il pollice...
“No! No, ti prego, no!”
Semitrasparenti, traslucidi. Poteva quasi vedervi attraverso. Quella mano, quella sua mano aveva attraversato la manetta d'acciaio, come un pallido fantasma, uno spettro intangibile.
Cassie crollò a terra, a peso morto, senza riuscire a pronunciare una parola. L'intera stanza era sparita, davanti ai suoi occhi, rimpiazzata da un enorme, invisibile clessidra. La sabbia aveva quasi completamente colmato il cono inferiore, ma continuava a scorrere imperterrita, senza rallentare. Un sottilissimo strato bianco era ciò che rimaneva della mole iniziale, il contenuto della sezione superiore. Inutile illudersi, era una raffigurazione della sua vita residua. Chiuse gli occhi, con tranquillità. Non aveva senso agitarsi, dopo tutto.
Avrebbe atteso tranquillamente di dissolversi, senza troppe pretese, senza farsi problemi.
Strano, non avrei mai pensato di riuscire a mantenere la calma, in un momento del genere.
Come trascorrere gli ultimi istanti della sua esistenza? Non ne aveva idea, nessuno l'aveva mai preparata ad affrontare un'evenienza del genere. Almeno, la prima volta non se n'era nemmeno accorta. Un colpo secco, contro il terreno, osso del collo in frantumi e fine. Neanche il tempo di pensare, solo un istante per vedere il film della propria vita, quello che non avrebbe avuto occasione di girare.
Poi, l'impatto.
Ciak! Buona la prima!
Be', sarebbe stato bello dormire un po', forse sognare. Almeno, sarebbe morta riposata. Sorrise, notando la manica della giacca a penzoloni, completamente dissociata dall'avambraccio che spuntava, pallido ed etereo, dal gomito in su. Dover assistere al disfacimento del proprio corpo sarebbe stato tremendo, vedersi sparire e non poter fare nulla per evitarlo...
No, meglio chiudere gli occhi e dormirci su.
Si assopì velocemente, svuotando la mente da ogni pensiero. Un tuono improvviso, un boato inatteso... nulla di cui preoccuparsi. Sprofondò dolcemente nella dimensione onirica, dimentica dei suoi problemi.
D'altronde, si sa: i sogni sono solo la porta verso un nuovo mondo.
Marcia Trionfunebrale
Nethanienko ingranò la quarta, quasi senza pensare.
Il tempo, il tempo... solo problemi di tempo, maledizione!
Azionò in fretta e furia il tergicristalli. Una serie di minacciose nubi grigie avevano deciso di scaricarsi sulla città e sull'entroterra, senza consultare nemmeno i meteorologi. Sospirò malinconicamente.
Proprio ad un passo dalla verità!
Non aveva fatto in tempo a scendere due gradini della scaletta del torrente, che l'avevano chiamato dalla centrale.
Commissario! Abbiamo un problema, uno bello grosso!
Certo, come no? Mi assento mezz'ora per cercare mia sorella e voi non riuscite a cavarvela da soli?
Tiranti è ferito, commissario! Gli è saltata una mina a dieci metri di distanza.
A casa mia, le mine esplodono solo se ci metti un piede sopra.
Temiamo che non siano a contatto ma reagiscano al calore.
Non è possibile, non esistevano ancora armi del genere durante la seconda guerra.
Forse aveva visto giusto, forse il rapitore è nascosto proprio lì.
Certo, mandria di deficienti, cosa ne dite di portare un bel metal detector, una dozzina di artificieri e fare irruzione in quella lurida catapecchia malandata? Magari ci trovate anche le ragazze, sì?
Ci raggiunga qui al più presto, la prego.
Tanto, Cassie non c'era. Arianna era scesa, aveva controllato – senza successo. Poco dopo aveva iniziato a piovere.
Siamo davanti al casolare, la aspettiamo qui.
Trenta secondi per congedarsi dalla ragazza, raggiungere la propria vettura e lanciarsi a folle velocità verso la zona collinare.
Sospirò. I risultati non erano stati quelli previsti.
Primo. la velocità non era così folle. Il motore era vecchio, non ce la faceva più.
Secondo. Per ritrovare la vettura nel parcheggio gli ci erano voluti diversi minuti.
Terzo. Non era riuscito a liberarsi della ragazza – o forse, non aveva voluto.
Arianna era appiccicata al sedile, la cintura di sicurezza allacciata, gli occhi sgranati.
“Non potresti andare più... piano?”
“Sei tu che sei voluta venire, sì? Allora non lamentarti. Io ti avrei lasciata in centro.”
Sterzò bruscamente, gli pneumatici muggirono disperati.
“Non è mia intenzione portare una ragazza di fronte ad un campo minato. Meglio se resti in macchina.”
Destra. Sinistra. Un tornante. Curva a gomito.
“Sai, non l'ho mica capito perché hai insistito così tanto.”
“Credevo di poterti parlare durante il viaggio. Parlare di Cassie.”
“Ascolto, sono tutto orecchi.”
“C'è qualche possibilità che sia tua sorella?”
“Piccola. Sono stato io a chiudere la bara. Sono tornato da San Pietroburgo per quello.”
“Potresti far riesumare la salma.”
“Certo, come no?”
Tornante, serie di dossi, sterrato fra cento metri.
“Ho imparato a non illudermi, sai? Invece tu... perché la cerchi? Per amicizia?”
“Qualcosa di più.”
Nethanienko rimase in silenzio per un attimo, tentando di connettere alcuni concetti.
“Senti, a questo proposito... se non avevi altro da dirmi, perché sei voluta venire lo stesso? Mi sembra che tu mi abbia già fornito tutte le informazioni del caso.”
“Forse.”
“Non pensi alle voci? Sai, Arianna è salita in macchina con un trentenne cieco da un occhio, un fumatore incallito con un aspetto orribile.”
Arrossì imbarazzata.
“Cerco di non pensarci. Sarebbe difficile...”
Sospirò.
“...insomma, non ho la minima idea di come giustificarmi stavolta.”
“Raccontando della mia indagine personale?”
“Sarebbe come ammettere che frequento regolarmente Cassie.”
“Ah, capisco. Per te sarebbe più semplice spiegare perché ti sei accompagnata con un uomo piuttosto che con lei. Cos'è, hai paura che credano che stiate insieme?”
“Se una voce del genere si diffondesse negli ambienti che frequento, non potrei più uscire di casa, se non con un sacchetto in testa...”
“Alimentando voci ancora peggiori.”
“Qualcosa del genere.”
Arianna si ammutolì, cercando di non perdere di vista la strada. Nethanienko guidava in modo orribile, ogni curva era una tortura. Il suo tono di voce si fece preoccupato.
“Non è che stiamo andando ad imboscarci?”
“Seeee, come no? Se avessi voluto farti qualcosa, mi sarei fermato ben prima. I posti belli li abbiamo già superati.”
“Ah.”
“Sembri delusa.”
Arianna gli lanciò uno sguardo di rimprovero.
“Sono superiore a queste insinuazioni.”
Il commissario scrollò le spalle.
“Contenta tu.”
La Fiat Panda si fermò improvvisamente, davanti ad un drappello di uomini in divisa azzurra, fasciati in improbabili impermeabili dello stesso colore. Poliziotti. Nethanienko scese dalla vettura con noncuranza, aprendo un ombrellino portatile.
“Tu resta qui. Non è il caso che ti immischi in questioni che non ti riguardano. Se hai la pazienza di aspettare mezz'oretta...”
“Non ho impegni.”
“Questo semplifica molto le cose.”
Salutò educatamente i suoi sottoposti, allontanandosi dall'automobile.
“Come sta Angelo? Le ferite sono gravi?”
Uno degli agenti si staccò dal gruppo.
“Niente di rilevante. Era abbastanza lontano dall'ordigno.”
“Abbiamo già chiamato il 118, sì?”
“Lo hanno già trasferito all'ospedale. Sembra che se la sia cavata con un polso rotto ed un trauma cranico, nulla di più.”
“Meglio. Questo terreno ha già troppi morti sulla coscienza. Altro che campo minato, se continua così diventa un camposanto!”
Nethanienko si avvicinò alla staccionata.
“Avete visto uscire qualcuno?”
“No, mi dispiace.”
“Pazienza, vorrà dire che entreremo noi.”
“E come, se ci sono le mine termiche?”
“Hai chiamato gli artificieri?”
“Sì.”
“Loro cosa dicono?”
“Che ci vorrebbe un giorno intero per rimuoverne meno della metà.”
“Capisco.”
Si allontanò, in direzione della macchina. Doveva pensare, trovare un modo per risolvere la situazione.
Ora cosa mi invento? Se il rapitore è là dentro, si sarà già accorto di noi.
Sai? Non ne sono così sicura. Secondo me, sta facendo dell'altro.
Come avrebbe fatto a non sentire l'esplosione? Io, se fossi in lui, me la sarei già filata alla chetichella.
Troppi agenti in giro. Lo avrebbero visto.
Forse hai ragione.
Ne dubitavi?
Certo. Comunque devo essere proprio pazzo per parlare in questo modo a me stesso.
Questione di punti di vista. Ad ogni modo... sei proprio, proprio sicuro che non esista alcuna alternativa sensata a chiamare gli artificieri?
Se vuoi saltare in aria, accomodati. Ho già visto Scirea fare quella fine, non è piacevole, te lo assicuro.
Okay, ma ormai hai quasi la sicurezza che Francesco sia là dentro...
Francesco chi? Io non ho nominato nessun Francesco.
Scusa, è stato un lapsus. Resta il fatto che lasciargli il tempo di fuggire potrebbe essere stupido o quantomeno rischioso. In fondo, ha rapito tredici ragazze.
Undici. Cos'è, dai i numeri oggi? O meglio, cos'è, do i numeri oggi?
Undici, tredici... stesso ordine di grandezza. Non è il problema, adesso. Devi entrare in quella catapecchia, e devi farlo al più presto.
Per impedirgli di fuggire?
Anche. Senti, ti fidi di me?
Abbastanza. In fondo mi stai chiedendo se mi fido di me stesso.
Ecco bravo, ti fidi di te stesso?
Non così tanto, perché?
Io conosco un percorso sicuro tra le mine. Posso guidarti, se vuoi. Passo dopo passo.
Nethanienko sgranò l'occhio, scosse la testa, si portò una mano sul capo, chiuse la palpebra, scosse nuovamente la testa.
“Eh, no, eh! Ora si sta esagerando, sì? Devo aver preso una botta bella forte.”
“Tutto a posto?”
Riaprì l'occhio. Arianna era scesa dalla vettura – forse preoccupata per il suo stato mentale.
“Prova con la domanda di riserva. Sento delle voci nella testa, voci che straparlano. Dev'essere un effetto degli antistaminici, me l'aveva detto il dottore...”
“Voci? Che cosa ti dicono?”
“Che sanno come farmi attraversare il campo minato incolume. Questa è follia.”
Arianna si appiattì all'automobile.
“Forse è solo il risultato di un brutto shock. Non è meglio se lasci perdere?”
“Vedrò cosa posso fare. Ora, per favore, torna in macchina. Non voglio avere altri morti sulla coscienza.”
Arianna annuì ma rimase immobile. Nethanienko la ignorò in modo plateale, dirigendosi nuovamente verso la staccionata.
“Non possiamo farci proprio nulla? Voglio dire... senza dissodare?”
“Direi di no, commissario.”
Sei un idiota, Andrea. Fidati di me, ti prego.
Ancora tu? Lo sai che sei insistente, per essere stata generata dal mio subconscio? Come faccio a fidarmi? Io non conosco l'ubicazione delle mine, tu sei me, ergo tu non conosci l'ubicazione delle mine.
È qui che ti sbagli. Io non sono te, ma vedi, questo è un dettaglio che chiariremo più tardi, va bene? Sappi solo che io so.
Certo, come no? Ed io sono babbo natale. Sto bene senza barba con i capelli tinti?
No, decisamente no. Stai male con quella benda. Sei ridicolo. Un occhio finto ti avrebbe donato molto di più, avrebbe mantenuto una buona simmetria. Non ottima, certo, ma pur sempre più accettabile della rottura attuale.
Nethanienko tossì senza preavviso, nervosamente. Camminò avanti e indietro a lungo, senza un preciso motivo, allontanandosi ed avvicinandosi a ritmo serrato.
“Posso fare qualcosa per lei, commissario?”
“Stare zitto, Giovanni, sì?”
Cosa fare? Devo... posso fidarmi? Ovvio che no. Allora? Sto qui a fare la bella statuina davanti ad un casolare di campagna? Ho alternative? Non so. E che cavolo!
“Non ha una gran bella cera, signore.”
“Ho dormito solo due ore, stanotte. Ti basta come risposta? Pensa agli affaracci tuoi e non disturbarmi più!”
La benda, la benda... una rottura di simmetria...
Non spontanea e, per questo, più sgradevole.
Stai zitta, sto pensando.
Come vuoi.
Bene.
Si appoggiò allo steccato, gli occhi fissi sulla porta.
Arianna sbadigliò poco convinta. La situazione sembrava giunta ad un punto morto. Chiamare gli artificieri sarebbe significato dire al rapitore Ehi, siamo qua e vogliamo catturarti! D'altro canto, non muoversi gli avrebbe dato tempo di fuggire. Sospirò. Roba da poliziotti, non era compito suo giudicare, né prendere decisioni. Il capo era quel Nethanienko con cui aveva trascorso parte del pomeriggio. Indubbiamente un tipo strambo, particolare.
Non fatico a credere che sia il fratello di Cassie.
Perché lo aveva seguito fin lì? In fondo, sarebbe potuta tornare a casa. La sua presenza non era necessaria, anzi era decisamente di impiccio per le forze dell'ordine. Alzò gli occhi al cielo. La pioggia non accennava a diminuire, scendeva scrosciante, inumidendo l'arido terreno.
Già... perché l'ho voluto seguire a tutti i costi? Speravo che mi portasse da Cassie?
Domande destinate a rimanere senza risposta. Scosse la testa lentamente.
Cos'è, ora che non c'è, la vado a cercare io? Uff... non riesco a non pensare a ieri pomeriggio. Ma no, è stata... una cosa spontanea. In realtà... in realtà non sono innamorata di lei. Forse... forse sono solo repressa? Non voglio accettare i miei sentimenti per lei?
Una voce nella sua testa interruppe il flusso dei suoi pensieri.
Ecco, ci voleva tanto, Ary?
Una voce... non sua?!
Vedi che sei repressa? Cosa ti dicevo io?
Ho avuto un'allucinazione, tutto qui. Resta il fatto che non riesco a giustificare la mia presenza qui.
Ah, l'amore...
L'amore un cavolo! Non sono innamorata di nessuno, tantomeno di una mia amica.
Oh, oh! Ti ho punta sul vivo? Ad ogni modo, se per te è un peso... perché non te ne vai? Non sei così lontana dal centro, dopotutto.
Certo, come no? Almeno tre chilometri e mezzo sotto la pioggia! Hai idea di che cosa significhi?
Che ti bagnerai un po'. Capita, cosa devo dirti? Non dirmi che non ti sei mai bagnata. Ieri non lo eri parecchio?
P... preferisco non commentare.
Guarda che lo so cosa stavi facendo ieri sera nella tua stanzetta!
Arianna sospirò. Nethanienko doveva averla contagiata. Anche lei sentiva... qualcosa. Probabilmente era solo stress accumulato, sfociato in un parziale sdoppiamento della personalità, con conseguente pensiero dissociato. Sì, era plausibile. Sospirò una seconda volta. La sua priorità era trovare un motivo alla follia che l'aveva condotta lì.
Semplice preoccupazione?
Può darsi.
Curiosità per il lavoro del poliziotto?
Anche questa è buona.
La speranza di un'avventura assieme l'uomo con un occhio solo?
No, direi di no.
Il segreto desiderio che Cassie fosse innamorata di lei?
E questo cosa c'entra ora?
Un'ultima possibilità si fece largo nella sua mente, una possibilità che non aveva ancora considerato.
E se Cassie fosse stata rapita da quell'uomo?
Come ipotesi non valeva assolutamente nulla, forse non era stata nemmeno lei a formularla. La sua mente stava prendendo una piega inaspettata, da qualche tempo. Valutava idee scabrose, la spingeva a rompere le regole, ad allontanarsi dai precetti, a smettere di essere una brava ragazza.
Tutta robaccia inutile.
Qualche volta sembra che sia un'altra persona a pensare per me.
La pioggia si intensificò, proiettili d'acqua verso il terreno. Un irreale tonalità bluastra si impadronì dell'aria, soppiantando tutti gli altri colori. Arianna si assicurò che il suo ombrello fosse ben aperto. Aveva deciso di non rientrare nella macchina, si sarebbe annoiata di più. Almeno, fuori, poteva ascoltare il dolce ticchettio delle gocce. E sentirsi un po' meno inutile.
Abbassò lo sguardo. Nonostante la protezione integrale del suo parapioggia, calze e scarpe erano ormai zuppe. La gonna iniziava ad acquistare un colorito più scuro, così come le maniche della sua tenuta.
Pazienza, mi prenderò un raffreddore. Solo un inconveniente, un incidente di percorso.
No, non sarebbe rientrata in macchina, a costo di buscarsi un malanno. Era decisa, follemente decisa. Prima di rifugiarsi al sicuro, avrebbe dovuto capire il motivo della sua presenza, del suo gesto avventato. Poco ma sicuro. Rivolse gli occhi verso la casa.
Nethanienko era lì, di fronte al selciato, indeciso sul da farsi. Immobile, sotto la pioggia.
Se continua così, torno a casa domani.
Due agenti si avvicinarono, gesticolando in modo forsennato. Stavano discutendo animatamente con lui, urlavano, sbraitavano. Nethanienko li respinse con forza.
“Non mi interessa se è una pazzia. Non posso starmene qui con le mani in mano. Portatemi un marcatore chimico, uno che non vada via con l'acqua. Fate presto!”
“Cosa ha intenzione di...”
Arianna estese il padiglione auricolare, per essere sicura di captare ogni singola parola.
“Non sono fatti vostri, non ancora perlomeno. Allora, questo reagente?”
“Eccolo, si vede solo con una penna speciale ma...”
“Fammici dare un'occhiata.”
Il commissario prese il barattolo, vi intinse un pennellino e se lo passò sulle suole delle scarpe. Dopo aver finito, tra lo stupore dei presenti, accese una lampadina a luce blu, di quelle in dotazione alla scientifica. Le suole scintillarono in modo vistoso. Fece due passi in avanti, due indietro. Accese nuovamente la luce. Sul terreno si disegnarono in modo sufficientemente chiaro i calchi delle sue impronte. Sorrise.
“Perfetto. Questa tenetela voi.”
Lanciò la penna con lampadina incorporata ad uno degli agenti, prese nuovamente la boccetta di reagente e spennellò generosamente le sue suole una seconda volta.
“Cosa ha intenzione di...”
“Quello che avrei dovuto fare fin dall'inizio.”
Nethanienko si diresse senza esitazione verso il campo minato. Espirò profondamente.
“Se finisco all'altro mondo, giuro che metto una buona parola per tutti voi. Promesso.”
Arianna vide tutta la scena al rallentatore. Gli sguardi tremanti dei poliziotti, le grida disperate, il passo indeciso di Nethanienko. Occhi che si chiudono, agenti che si lanciano a terra, Arianna si protegge con le braccia, in attesa delle deflagrazione. Un rumore sordo, secco. Qualcosa che impatta col terreno duro, compatto.
Poi, il silenzio.
Arianna si fece coraggio, alzò la testa fuori dal suo guscio, pronta al peggio. Un grido di stupore, impossibile da trattenere.
Andrea Nethanienko era intero. In piedi. In mezzo agli ordigni. Cinquanta centimetri dentro il recinto.
Vivo.
Il rumore udito in precedenza... un semplice passo, un passo all'interno del territorio della morte. Un colpo di tosse, un sospiro di sollievo trattenuto fino all'ultimo.
“Beh, che vi dicevo?”
Arianna cadde quasi a terra per lo stupore. Gli agenti lo osservarono allibiti.
“Le spiegazioni a dopo. Ora, cosa ne dite di seguirmi?”
Maior Domus
I.
Il mio compito di maggiordomo è eseguire gli ordini della signorina e soddisfare le sue esigenze, senza distinzione alcuna. Nel mio elenco personale di autorità a cui obbedire, al terzo posto c'è lo Stato, le leggi, per intenderci. Al secondo, Dio, la morale, la religione. Al primo, la famiglia che servo.
Sono il maestro di servitù da oltre due lustri, unica figura dedita al mantenimento della magione e dei suoi abitanti.
I genitori della signorina sono morti tre anni fa. Ora, lei ha diciannove anni compiuti.
Sistemo la giacca e la raggiungo. Il mio precedente principale mi ha dato da ultimo l'ordine di accudirla e riverirla, di assecondare ogni suo minimo capriccio.
E questo per me ha la precedenza.
La trovo seduta al tavolo, capelli lunghi neri su vestito candido, immacolato, quasi trasparente alla luce del giorno. Occhi azzurri, pieni di vita. Occhi curiosi, posati sulle pagine di un libro. Un libro che probabilmente non la entusiasma: è ferma da ore a pagina sette. Sono attento a questi dettagli, devo esserlo se voglio compiere il mio lavoro nel miglior modo possibile.
Osservo meglio.
È un romanzo d'amore, uno di quelli sdolcinati in cui lei ama lui, lui ama lei, entrambi dunque si amano e impiegano duecentosessantaquattro pagine per dirselo.
Robaccia, a mio parere.
Ma alla moglie del mio precedente padrone piaceva. E poiché piaceva a lei, piaceva anche a me.
La signorina detesta questo genere di libro. Per cui lo detesto anch'io, ora.
Mi avvicino al tavolo, porgendole un vassoio con una tazza di tè e qualche biscotto. Lei non me lo ha chiesto, ma la perfezione è capire in anticipo ciò che il tuo principale sta per domandarti. E, modestamente, non sbaglio mai.
I suoi occhi azzurri si posano su di me. Si è accorta della mia presenza.
“Francesco.”
Eseguo il mio miglior inchino.
“Signorina?”
“Come faceva mia madre a leggere questa roba?”
“Non lo so, signorina.”
Mento sapendo di mentire. La moglie del mio precedente principale era un'inguaribile romantica. Ma nei miei compiti c'è anche quello di non contraddire il padrone. Non so se sia universalmente accettato, ma questa è la mia linea di condotta.
La sua mano si chiude delicatamente attorno ad un biscotto, avvicinandolo alle labbra sottili e rosee. Lo assapora con lentezza, dopo averlo intinto nel tè.
Incrocia il mio sguardo, mi fissa con i suoi specchi di cristallo.
“La carta stampata non riesce a trasmettermi emozioni. Mi sto annoiando particolarmente.”
“Potrebbe studiare, signorina.”
Ride. La sua risata argentea rompe il velo di silenzio della casa vuota. Oggettivamente, è molto bella. Un fiore che sta sbocciando.
“Non scherzare, Francesco. Sai che non ne ho la minima intenzione, oggi.”
Accarezza il dorso del libro con le dita lunghe e affusolate, dita da pianista.
“Puoi uscire per la solita commissione?”
Annuisco con decisione e mi dirigo verso il guardaroba. Prendo la mia giacca pesante, verifico il contenuto delle tasche. C'è tutto, per fortuna. Non mi resta che aprire la porta e calarmi nel mio ruolo. Ruoto la maniglia. La signorina si avvicina e mi dà un bacio sulla guancia.
“Scegli bene, mi raccomando.”
Mi produco nel mio miglior inchino, poi varco l'uscio.
II.
Migliaia di volti indistinti, indistinguibili. Oggi è giorno di mercato. C'è una folla, una folla incredibile. Meglio così. Davvero.
Raggiungo la zona della fiera, mi muovo tra le bancarelle, in cerca di ciò che mi è stato richiesto. Non sarà facile, ma neanche troppo difficile. Basta saper osservare bene. E ogni buon maggiordomo sa essere attento ai particolari. Se i capelli sono troppo corti, non va bene. Meglio lunghi. Sempre la medesima richiesta, da tre anni a questa parte.
Prima era diverso.
Ogni giorno rispondevo a due padroni.
Il mio precedente principale – con consorte – era il primo. La signorina, il secondo. E spesso le loro esigenze erano contrastanti. Restrizione contro libertà. Moralità e immoralità. Rigidità e perversione. Intransigenza bigotta e ribellione anticonformista. Naturale contro innaturale. Una lotta intestina alla famiglia, nel quale il buon maggiordomo deve rimanere neutrale, dando consigli ad entrambe le parti pur astenendosi dalla lotta. Una guerra in cui il buon maggiordomo sa che sarà l'unico a trarne vantaggio, pur non partecipando. Nell'ombra, a tessere la tela. In modo che chiunque vinca, lui possa salire sul carro del vincitore. Non so se sia universalmente accettato, ma questa è la mia linea di condotta.
E l'ho seguita fino alla fine.
Perché il buon maggiordomo è anche un giudice. E sa decidere qual è la parte che deve sopravvivere, per ottenere le condizioni migliori.
È anche un meccanico, se serve.
Sa tagliare il cavetto dei freni, in caso di bisogno. Sa consigliare al proprio principale quando uscire di casa, per godere di una così bella giornata, suggerendo di seguire la strada costiera, quella in discesa, dalle curve tortuose. E sa convincere la consorte del principale a seguirlo nella sua gita di piacere, mentre il buon maggiordomo controlla che la signorina non si produca in comportamenti poco consoni all'etichetta. Sorride, vedendo l'auto partire. Sorride e saluta i padroni con la mano. Augura loro un piacevole pomeriggio, poi pensa. Perché un buon maggiordomo deve anche saper prevedere quando la macchina uscirà di strada e dove si schianterà, una volta caduta dalla scogliera. Deve capire se e come il motore esploderà, occultando ogni traccia di sabotaggio. E deve fare in modo che il film si svolga come deve, nel modo più favorevole e scenografico possibile.
Per poi raccontare alla signorina che i suoi genitori non torneranno più da quel giro in macchina, tergendo le sue lacrime con un fazzoletto di seta rosa, piangendo a sua volta.
Se il tuo padrone piange, non puoi esimerti dall'imitarlo.
Etichetta.
La mia etichetta.
A questo punto, in generale, cosa succede? Nulla che sia scritto nelle pagine di un libro, temo. Nessun autore avrebbe potuto immaginare uno sviluppo simile della vicenda. Forse neanche io.
Ma un buon maggiordomo deve essere pronto a tutto.
E io lo sono.
III.
Mi addentro furtivo nel mare di folla, cercando comunque di essere notato il più possibile. Uno dei modi migliori per rimanere inosservato. Solo così posso muovermi liberamente, scrutare ogni anfratto, ogni strada, ogni volto.
Devo trovare quello giusto.
La signorina si fida del mio buon gusto. In fondo, il maggiordomo è il gentiluomo di un altro gentiluomo. Deve saper attirare la fiducia del suo principale, convincerlo a fidarsi di lui. Ma lasciamo perdere, ora.
Devo concentrarmi. Non sarà più difficile delle altre volte, dopotutto.
I miei occhi si posano qua e là, ansiosi di ghermire una preda.
E, finalmente, la vedo.
Bionda, occhi verdi, circa diciotto anni. Corpo affusolato, bel viso.
Mente semplice, facile da raggirare. È necessario trovare le parole giuste, ma come ogni vero maggiordomo conosco quasi a memoria il dizionario. Mi dirigo verso di lei, col sorriso sulle labbra. Potrei spaventarla, se le corressi incontro. Meglio avvicinarsi lentamente e salutare con educazione e rispetto. Lei ricambia, poi si volta e se ne va.
Scrollo le spalle.
Mal che vada ho sempre una seconda possibilità, pur non avendo intenzione di fallire.
Una macchia indelebile sul mio curriculum, da evitare ad ogni costo.
Frugo nella tasca della mia giacca ed estraggo un paio di guanti bianchi. Li indosso. Prendo gli occhiali scuri e indosso anche quelli.
Nessuno ci farà caso. Ne sono convinto. Non lo farei, se non ne fossi assolutamente certo.
Movimenti in apparenza casuali, senza perdere il contatto visivo.
In modo che lei capisca che la sto seguendo.
Voglio che faccia qualche passo falso.
Sorrido.
Se n'è accorta. E accelera l'andatura. In modo sostenuto. Non ha amiche che la seguano.
Questo è un bene: meno complicazioni.
Mano a mano, la folla si dirada. Si sta mettendo in trappola da sola. La seguo. Ormai è palese, ma nessuno lo nota. Alzo la sciarpa sul viso e indosso il cappello. Mi crederanno un tipo freddoloso. Nessun problema, più mi notano meglio è.
Controllo il prezioso contenuto della mia tasca destra. È al sicuro.
Alzo lo sguardo. Si dirige verso i vicoli.
Mi fermo. Smetto di pedinarla. Faccio finta di averla persa di vista. Ora corre. Corre in avanti, senza voltarsi. Tra una decina di secondi si fermerà, per riprendere fiato.
Sorrido.
L'ho condotta esattamente dove volevo.
Questo vicolo non ha diramazioni secondarie. E termina con un muro.
Aspetto un paio di minuti, in modo che raggiunga la trappola, poi mi addentro nella via deserta, con calma. Non ho problemi di tempo, ormai.
La vedo.
Mi fissa inorridita. Ha notato il fazzoletto che tengo in mano. Un fazzoletto di seta rosa. Imbevuto di cloroformio.
Prima che possa fuggire, la raggiungo la narcotizzo. Non riesce nemmeno ad urlare. Un maggiordomo perfetto deve essere abbastanza veloce da adempiere ai suoi doveri.
La porto in spalletta, come se fosse addormentata. Se mi fermano, dico che è una mia amica, che non sta molto bene, la sto riportando a casa. E non è esattamente una bugia. La sto portando realmente a casa, dalla signorina. È lei che me l'ha chiesto.
In un anno, avrò dovuto farlo una decina di volte, sempre con modalità e abiti diversi. Un maggiordomo perfetto deve sapersi mimetizzare, essere presente ed al momento stesso invisibile. È questione di etichetta.
La mia, perlomeno.
IV.
La signorina mi abbraccia.
“Grazie mille, Francesco.”
Mi esibisco nel mio più profondo inchino. Lei ricambia e si dirige verso la sua camera, avvolta nel suo vestito bianco perlaceo, quasi trasparente nella luce del tramonto. Mi sono premurato di preparare tutto.
Come sempre.
Da tre anni a questa parte.
Pensi di avere diritto al controllo del patrimonio, dopo aver permesso ai tuoi padroni di raggiungere il Paradiso anzitempo. Pensi che la signorina sia debole e facile da manovrare.
Tu lo pensi.
Io non l'ho mai fatto.
Perché il buon maggiordomo sa guardare oltre le apparenze, sa capire. Conosce chiunque. Non gli sfugge nulla.
Ma, ecco il colpo di scena che non ti aspetti.
Abbraccio la signorina, tre anni fa, le porgo il fazzoletto.
E lei confessa l'inconfessabile.
Il motivo della sua ultima lite con il padre. Una lite che non era finita con la riappacificazione. Perché suo padre era morto.
Per merito mio.
Aveva sofferto, la signorina. Ah, se aveva sofferto! E con che cuore potevo lasciarla in quello stato penoso, se non eliminando la fonte del suo malessere? Ogni buon maggiordomo deve essere in grado di anticipare e comprendere i desideri dei suoi padroni, prima che essi vengano formulati. E la signorina aveva un desiderio represso e immorale. Innaturale, direi, ma non spetta a me deciderlo.
Né dare giudizi.
Un buon maggiordomo consiglia, ma non si può prendere carico anche di questo fardello. Io l'ho solo aiutata a liberarsi del suo peso.
Il peso di essere diversa.
Di amare altre ragazze.
Di essere lesbica, insomma.
Che depravazione in una creatura così nobile e delicata! Che morbosità repressa! Inorridisco al solo pensiero.
Ma un servitore del mio rango deve essere in grado di eseguire gli ordini anche contro la propria volontà.
All'inizio è stato facile. Le ho portato qualche sua pari, raccolta agli angoli delle strade, con promesse di denaro e benefici economici. La cospicua somma ereditata dai miei precedenti padroni rende il denaro un problema trascurabile e triviale.
Ma la signorina ha desideri diversi. Non vuole più andare a letto con mercenarie, pagate solamente per farla godere, vuole ragazze convinte di ciò che stanno facendo, che non vengano solo per soldi.
E questo è difficile.
Molto più difficile.
Perché nessuno deve sapere. La voce non si deve spargere. Lo scandalo non deve scoppiare.
Sarebbe la fine.
Per fortuna, ci sono io.
Un buon maggiordomo deve essere in grado di superare le avversità e pensare anche per il proprio principale, quando questi è troppo giovane, ingenuo, o semplicemente troppo stupido per farlo.
Così elaboro la mia idea, il mio piano.
Quando la signorina ne ha voglia, esco e raggiungo il centro città con la mia macchina, poi cerco una possibile candidata. Deve essere bionda, con i capelli lunghi. Piuttosto snella, formosa quanto basta. Occhi preferibilmente verdi o azzurri. Dai diciassette ai diciannove anni. Se ho fortuna, entro un'ora ne ho individuata almeno una.
Il resto è semplice.
Mi avvicino, la stordisco col cloroformio, la porto a casa. La sveglio e le spiego la situazione. Le rivelo che l'ho rapita per assecondare i capricci di una adolescente disturbata, le intimo di recitare il copione, di svolgere la parte che io le ho assegnato. Le faccio una promessa, le assicuro che avrà qualcosa in cambio, ma solo se si sarà comportata bene. In generale, questo basta a tranquillizzarle, a renderle mansuete.
Non sempre, in effetti.
Ma un vero maggiordomo deve essere in grado di gestire ogni situazione.
Le brave ragazze inorridiscono alla prospettiva di dover fare l'amore con la signorina, e se posso esprimere un parere personale – cosa che non dovrei fare, dato il mio ruolo – le capisco e condivido le loro ansie, il loro terrore.
Un buon maggiordomo deve essere persuasivo quanto basta. È necessario saper giocare con le parole, modificarle, alterare la realtà per mezzo delle sillabe, delle vocali, delle virgole. Dei sinonimi, qualche volta.
Inizio a parlare, a questo punto.
E, alla fine, cedono tutte.
E si piegano alla mia volontà.
V.
La signorina mi stringe tra le sue braccia sottili. Gliene chiedo il motivo, con educazione.
“Sto bene, Francesco. Sto veramente bene. Mi sento una dea.”
Il suo abbraccio si fa più stretto.
“Grazie.”
Una lacrima le riga il viso.
“Grazie di tutto.”
Non rispondo. Ho fatto il mio dovere. Solo il mio dovere. In fondo, sono io che ho scelto lei come padrona. Quindi è naturale che mi preoccupi di lei, dei suoi bisogni, del suo piacere personale.
Il suo corpo nudo è uno spettacolo.
La signorina è molto attraente, in effetti. Se non fossi un maggiordomo come si deve, ne avrei già approfittato, intimandole il silenzio. Avrei potuto farlo. Solo l'etica me lo impedisce.
Mi dà un bacio sulla guancia.
“Ora vorrei farmi una doccia, Francesco. Puoi riportare la nostra ospite a casa?”
Mi produco in un profondo inchino, il migliore possibile.
“Come desidera.”
Lei sorride. E il suo sorriso è splendido.
Il mio sguardo si allontana da lei solo quando le sue linee sinuose scompaiono dal mio campo visivo. La sento aprire il rubinetto e cantare parole dolci, sotto l'acqua chiara e trasparente.
Potrei farlo.
Ma non è il caso.
Ho un etica da rispettare.
Rigide linee di comportamento.
Mi dirigo verso la sua camera da letto, per eseguire gli ordini. La ragazza bionda è stesa supina sulle coperte, visibilmente provata. I suoi capelli sono sparsi e spettinati. È stanca e avvilita, me ne rendo conto.
“Ho avuto ordine di riportarla a casa. Se vuole seguirmi..”
Mi risponde, debolmente.
“Dovrei rivestirmi, prima. Non ho intenzione di andarmene così, in queste condizioni.”
Le sorrido.
“Ovviamente, non le sto chiedendo questo. La sto solo invitando a sbrigarsi. Se vuole esco un attimo, ma faccia in fretta.”
Annuisce e si alza per raccogliere i suoi indumenti. Mi dispiace quasi utilizzare il contenuto della mia tasca sinistra. Ma non posso fare altrimenti. Non ho alternative, in fondo. Devo agire ora, mentre tenta di indossare gli slip e ha le mani impegnate. Il filo di nylon scorre attorno al suo collo. Non ha nemmeno il tempo di gridare. La signorina canta, canta sotto la doccia. Note allegre che sovrastano i mugolii, i gemiti soffocati della mia vittima. L'agonia dura solo una decina di secondi, un tempo sufficiente a farle raggiungere i pascoli del cielo. Cade a peso morto per terra. Avvicino le dita al suo polso.
Battito assente.
Raccolgo le sue cose, raccolgo il suo corpo e lo porto con me, in garage. Nessuno deve sapere. La notizia non si deve diffondere. Altrimenti la signorina... no! Non voglio nemmeno pensarci. I giornali scandalistici... sarebbe la rovina. Pura e semplice rovina. Sarebbe morta per la società. Niente più feste, niente più eventi mondani, nessuna circostanza in cui il buon maggiordomo possa mettersi in mostra, cercare un nuovo principale, pensando a come affrancarsi da quello vecchio.
Ed è un rischio che non intendo correre.
Per questo sono costretto ad agire così.
Altrimenti sarei finito.
Da tempo.
Apro il bagagliaio e sistemo il cadavere. Ripongo accuratamente i vestiti accanto a lei. Chiudo tutto a chiave, poi salgo al posto di guida. Accendo il motore della mia macchina, la dirigo verso la vecchia discarica dismessa. Se non altro, il suo corpo sarà in buona compagnia. Ci sono almeno altre dieci ragazze sepolte là sotto. Tutte le precedenti amanti della signorina. Dovevo trovare un posto per donare loro l'eterno riposo.
Uno vale l'altro, in fondo.
Ma quella discarica ha un che di perfetto.
Nessuno ci va più da tempo, nemmeno per controllare, nemmeno i barboni.
Da almeno dieci anni nessuno ha più posto piede tra le sue colonne di plastica pressata e carta macilenta, nessuno.
Nessuno tranne me.
VI.
Il fuoco scintilla in modo sinistro nelle tenebre che mi avvolgono. Sono solo. Solo, assieme ad un corpo nudo, avvolto in un sacco di plastica. Prima di chiuderlo, lo osservo ancora una volta. Sembra che stia dormendo, rannicchiata su se stessa, come nell'utero di una madre. Chiudo i legacci e incomincio a scavare nel mucchio di rifiuti, in modo da creare un tumulo improvvisato. È un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo. E un buon maggiordomo deve essere in grado di adattarsi ad ogni circostanza.
Quando la buca è pronta, getto il sacco al suo interno, poi la ricopro, con rapide palate di sacchetti neri e bottiglie. Dopo mezz'ora, posso asciugarmi la fronte dal sudore ed osservare compiaciuto l'esito positivo delle mie fatiche. Non c'è differenza. Nessuno potrebbe rendersi conto della presenza di qualcosa, là sotto. Non un rigonfiamento, non una balla compressa fuori posto.
Il fuoco alimentato dagli abiti della ragazza ormai è in procinto di spegnersi.
Ha fatto il suo dovere.
Bruciando tutto.
Portafogli, documenti, soldi, collanine. Il cellulare no, me ne sono sbarazzato prima. Prima di portarla alla villa, intendo. Non potevo correre il rischio di essere localizzato dai ripetitori. Estinguo gli ultimi barlumi di luce rossastra e raggiungo nuovamente la mia macchina. La signorina non sa nulla. Non deve sapere nulla. Altrimenti, mi impedirà di farlo, svuoterà il sacco. La conosco. È candida, innocente. Non sopravviverebbe al peso di un eccidio di queste proporzioni. Ben undici vittime sulle spalle.
No, si suiciderebbe.
Poco ma sicuro.
Accendo il motore. Ingrano la marcia.
Certo, forse sarebbe stato più furbo pagarle per non rivelare nulla, ma il rischio di ricatti sarebbe stato altissimo. E non potevo permettere che la signorina scoprisse i miei metodi così poco ortodossi.
Imbocco la strada principale. Svolto a destra, poi proseguo dritto.
Ho mai provato orrore per i miei gesti? Per le mie azioni? No, sarei un ipocrita se dicessi il contrario. Tutto programmato ad un unico fine, quello di perseguire il mio bene personale, a ben vedere. A dispetto di quello del padrone? Forse sì.
E questo è un male.
Non rientra nei compiti del maggiordomo.
No, proprio no.
C'è qualcosa di macabro in tutto questa. Una contraddizione evidente. Sono forse venuto meno alla mia etica, ai miei doveri?
Spingo sull'acceleratore. Voglio raggiungere la villa il prima possibile.
Prima o poi, potrei rendere pubblico tutto. E cambiare padrone. Magari simulando un suo suicidio. Sì, potrei farlo davvero.
Tanto, dodici o tredici omicidi... no, non fa più differenza, ormai.
Chiudo gli occhi per fissare questo pensiero.
Così non mi accorgo del camion in arrivo. E, poco dopo, sono in aria, assieme alla mia macchina, sorvolando la scogliera.
Curioso, è dove sono morti i miei precedenti padroni.
Che coincidenza.
Vedo l'acqua avvicinarsi, il mare sempre più nitido, nel suo moto ondoso, delirante, continuo.
Ripenso ancora una volta alla signorina, alla sua innocenza, alla sua gioia di vivere, penso ai suoi occhi azzurri, al suo sorriso, al suo corpo nudo, così delicato, perfetto, decorato da bei capelli neri sciolti e lunghi, sinuoso e provocante.
Peccato non averne approfittato.
Αλεθεια (verità rivelata)
“Spero che la spiegazione si stata di suo gradimento, signorina. Non penso di poter essere più esaustivo.”
“Tu hai fatto tutto questo?”
“Per lei. Solo per lei. Mi sembrava di avergliene già parlato.”
“Allora è tutto vero.”
La signorina chinò il capo.
“Sai, avevo letto alcuni verbali sul caso, ma non credevo che... non riuscivo a credere che tu... che tu potessi...”
Francesco le sfiorò delicatamente le spalle.
“Per lei. Solo per lei.”
La ragazza non riuscì a trattenere le lacrime.
“Maledetto bastardo! Io... io mi fidavo di te! Credevo... ho sempre creduto... che le avessi uccise solo per proteggermi! Per proteggermi, capisci? Anche se non te lo avevo chiesto! A me non ne sarebbe importato nulla...”
“Ma non è ciò che ho fatto, signorina?”
“No, tu hai pensato solo al tuo bene personale! Non volevi essere al centro di uno scandalo! Hai... hai preferito eliminare le prove della mia diversità... solo per metterti in mostra alle feste, trovare un nuovo padrone! Hai addirittura pensato di stuprarmi, di uccidermi! Sei... sei solo un pervertito, Francesco. Solo un lurido pervertito!”
“Mi rincresce sentirle pronunciare queste parole, signorina. È altresì vero che non ho potuto godere appieno della sua compagnia. Il suo umile servo è al suo servizio per soddisfare i suoi più reconditi, nascosti e osceni desideri.”
“Io non ho desideri del genere da soddisfare.”
“Signorina, evidentemente lei non è avvezza a riconoscere le trappole della lingua italiana. Un peccato, un vero peccato. Mi permetta di fornirle qualche utile delucidazione. Quando ho detto i suoi desideri non mi riferivo ai desideri della signorina, ma a quelli dell'umile servo. I miei, per intenderci. E sa qual è il desiderio a cui non posso sottrarmi?”
La ragazza impallidì.
“:..ti prego, non farlo!”
“Non sa quanto vorrei approfittare di questo corpo perfetto, signorina, lei proprio non lo sa. Non può saperlo, non può immaginarlo...”
Le rivolse la schiena.
“...no, è inconcepibile che un essere umano riesca anche solo lontanamente a comprendere i veri sentimenti di un suo pari. Io l'ho bramata, l'ho bramata per anni, senza poter dar seguito alle mie pulsioni. Per quale motivo poi, se non l'etica professionale? Un'etica che ho fatto mia, che ho rispettato fino in fondo...”
La fissò negli occhi.
“Sa? La morte è un ottimo modo per rescindere un contratto, per liberarsi di certe sovrastrutture. Grazie al mio decesso, il mio obbligo di servitù è stato assolto, così come il mio preciso dovere di rifarmi all'etica servile. Non le devo più alcun rispetto, signorina.”
Avvicinò la sua bocca all'orecchio destro della ragazza. La sua voce divenne poco più di un sussurro.
“Ma non sarò così crudele da violarla, non in questo momento. Mancano solo due giorni al suo compleanno, signorina. Lo festeggeremo assieme, nel modo migliore possibile. Lasceremo questa valle di lacrime e ci riuniremo alla matrice di realtà, torneremo informazione indistinta nel campo della natura. Riesce ad immaginare un finale più romantico? Una volta soddisfatto il mio ultimo e più forte desiderio, verrà meno la mia ragione di esistere. Solo allora sarò in pace con me stesso, non prima. Lei non può immaginare, signorina... avere ciò che voglio, ma non ciò che desidero. Soddisfare un desiderio sarebbe stato letale per il mio io, un'affermazione della mia antica personalità, una violazione di massima entità! Il mio tempo vitale si sarebbe ridotto a zero, solo per una disattenzione! Il principio di indeterminazione, ricorda? Più l'anomalia è estesa, meno tempo ha per esprimersi!”
Si interruppe per un istante, accarezzò la guancia della ragazza.
“Non potevo permetterlo, mi sono dovuto... trattenere. Limitarmi a cercare degli svaghi, dei passatempi... dei palliativi. Effetto placebo, capisce? Le ragazze, le giovani che sono sdraiate mollemente sui miei divani, cosa pensa che rappresentino? Cosa, se non la mia necessità di avvicinarmi – almeno in parte – alla mia realizzazione?!”
Si leccò le labbra con un movimento repentino.
“Certo, devo ammettere che un minimo di piacere l'ho provato, seduto in mezzo a fanciulle degne di Afrodite, dotate di una bellezza paragonabile a quella di seducenti divinità nordiche, asgardiane. Una bellezza – ahimè – solo esteriore. Dentro erano vili, luride arpie crudeli, votate alla distruzione del prossimo. Come potevo rimanere indifferente ad un tale contrasto, io che vivo di contrasti?”
Alzò le braccia al cielo, in un delirio di onnipotenza.
“Sì! Io sono morto ma sono ritornato! Ho sempre servito la mia famiglia, ma ho ucciso i suoi genitori! Ho commesso ogni sorta di crimine per compiacere una padrona che avrei voluto fosse solo mia! Non c'è nulla di più bello, di più interessante dei contrasti, mi creda!”
Le accarezzò nuovamente la guancia con la mano destra.
“No, è una bugia. Effettivamente c'è qualcosa di più interessante, di più appagante, signorina.”
La sua lingua si contorse, lucidando l'arcata dentale superiore.
“Lei.”
Rise divertito, poi si allontanò, lasciandola sola.
La signorina chinò il capo, sconsolata. Era nelle grinfie di un folle, di uno zombie pazzo, fuori di testa, con manie di protagonismo ed evidenti disfunzioni mentali. Un folle che per anni era stato la sua unica ancora di salvezza, il suo unico contatto col mondo. Chiuse gli occhi, cercando conforto nelle tenebre, nel nero assoluto di un sonno oppiaceo.
Invano.
Una clessidra, un'enorme clessidra, alta quanto un edificio di diversi piani. La sabbia scorreva in continuazione, senza pretese, con lentezza inesorabile, transitando da un cono all'altro, in un'unica direzione. Un uomo era seduto sul coperchio superiore, lo sguardo fisso nel vuoto.
Chi sei?
Nessuno.
Qualcuno dovrai pur essere. Ti vedo.
I sensi ingannano. Tu stai osservando un corpo e gli stai associando la mia voce. Non è detto che rappresentino lo stesso ente.
Chi sei?
Non sono. Tutto qui.
La figura si alzò dal suo scomodo giaciglio e si mise ad osservare il cielo. Attorno a lui, decine, centinaia di palazzi moderni si stagliavano imponenti, maestosi grattacieli frutto della fatica e del lavoro dell'uomo.
Cosa guardi?
Io non guardo. Non ci sono. Semplicemente, non sono io.
Allora chi sei?
Io non sono colui che è.
Cioè?
È solo un modo difficile per dire che non sono un Dio. E non sono nemmeno un maschio.
Quindi non sei colui che è, ma colei che è.
Più o meno. Per esserci, ci sono.
Prima hai detto che non sei.
Non ero. Ora sono.
Ma chi? Se sei, devi pur essere qualcuno.
Chi è il tizio sulla clessidra?
Non lo so, non l'ho mai visto.
Neppure io. Sai, dev'essere una figura simbolica. Indica qualcosa.
Ma cosa?
Non lo so, non mi è dato saperlo.
L'uomo osservando il cielo, rapito dalla bellezza delle stelle, avanza di un passo, un altro, un altro ancora. Non si accorge del precipizio, della fine del coperchio.
Fermalo! Così cadrà!
Sono una spettatrice. Non posso intervenire.
L'uomo se ne accorge in tempo, si ferma. La sabbia si blocca, smette di scorrere. Una nuova figura, una ragazza. Ha i capelli neri, gli occhi azzurri. Vestita di bianco.
Quella sono io.
Lieta di sentirtelo dire. Sei molto bella.
Grazie.
L'uomo si volta verso di lei, tenta di abbracciarla. La ragazza lo evita, gli indica il soffitto, il cielo. Lui si distrae, rivolge lo sguardo all'infinito, suo oscuro desiderio immorale. La ragazza lo spinge. La sabbia ricomincia a scorrere, impetuosa, inarrestabile. L'uomo vacilla, perde l'equilibrio.
Cade, cadeeee!
Un vortice di sabbia, sempre più rapido e tumultuoso. La clessidra si svuota, si svuota a velocità folle. L'uomo perde pezzi, si disgrega in frammenti neri come la pece, tende la mano verso la ragazza, il braccio si allunga, afferra il collo, cerca di trascinarla con sé. L'ultimo granello libera l'immenso cono superiore. L'uomo esplode in mille schegge annerite, schegge di morte, si polverizzano, liberano farfalle di luce, che rivestono la ragazza la proteggono. Lei brilla con loro, diventa un tutt'uno con la luce. E brilla, brilla nel cielo notturno come una nuova stella. E nella sua luce, la visione sfuma, si trasforma in una chiazza bianca indistinta.
Luce, luce, solo luce.
Cosa succede? Non vedo più nulla.
Titoli di coda: attori, regista, scenografo... è tutto qui. Puoi svegliarti, se vuoi.
Era un sogno?
Qualcosa del genere, sì.
Come ho fatto ad addormentarmi così in fretta?
Non lo so, ma non è un problema. L'importante è che tu l'abbia fatto.
E cosa significa? Avrà pure un suo significato?
Certo che ce l'ha. Io l'ho capito.
Allora raccontamelo!
Spiacente, anteprima finita. Prossimamente al cinema...
La signorina riaprì gli occhi. L'esperienza onirica era terminata all'improvviso, così come la voce, scomparsa nel nulla. Una voce calda, familiare.
“Chi sei? Rispondimi, ti prego.”
Silenzio, un silenzio di tomba, rotto soltanto dai lievi respiri delle giovani incoscienti. Un silenzio pesante. Era di nuovo sola, sola con se stessa.
“Sei qui da qualche parte, vero?”
Il sibilo del vento, lo scroscio della pioggia, il fruscio degli alberi. Risposte prive di significato. Chinò il capo, doveva arrendersi all'evidenza.
Il sogno, il sogno... che significato poteva avere? Io quell'uomo non lo conoscevo. Non aveva volto, era immerso nelle tenebre. La ragazza ero io, poco ma sicuro. E la voce? Chi era la voce? Non mi era nuova, l'ho già sentita. Ma dove e quando? Potrei rifletterci un attimo, tanto non è che posso fare molto altro. Francesco mi ha legata stretta alla sedia, non riesco a muovermi in nessun modo.
Tornò bruscamente alla realtà. Francesco l'aveva rapita e legata, per approfittare della sua compagnia. Entro due giorni, l'avrebbe violentata e uccisa.
Rabbrividì. Fino a quel momento non se n'era quasi resa conto, c'era la sua vita in gioco. Tremò come una foglia, senza riuscire a controllarsi.
Due giorni.
Quarantotto ore.
Era quello il tempo che le restava da vivere? Scosse la testa, disperata.
È orribile! So con precisione quando e come morirò... e non posso fare nulla per evitarlo!
Un urlo di terrore, a pieni polmoni.
“Non voglio morire... non... non adesso, non così! Non così!”
Un pensiero vagante distrusse la sua attenzione. La voce.
La voce. Ora ricordava dove l'aveva sentita. L'aveva riconosciuta.
Quella stessa voce le aveva parlato, parlato a lungo, quella notte.
Sai, è come se io potessi vedere una clessidra, hai presente? Una di quelle giganti, quelle in cui scorre la sabbia. Ecco, io la vedo scorrere a velocità diverse, a seconda di come mi comporto. Stasera l'ho vista fermarsi, sai? Tutto grazie a te. Io non avrei mai avuto il coraggio di... va beh, lo capisci da sola. Il mio io si sarebbe rifiutato, non è un comportamento tipico della mia personalità. In questo modo, ho diminuito il livello di violazione della realtà, l'ho quasi annullato, rinunciando ancora ad una parte di me, ad un'inibizione intrinseca. Stasera, mi hai allungato la vita di qualche giorno – o addirittura di qualche settimana. Non troverò mai parole sufficienti a ringraziarti.
Rimase in silenzio a contemplare quelle parole. Ricordarsele con quella precisione era particolarmente improbabile, ma era come se qualcuno gliele avesse incise nella mente. Quand'è che Eva le aveva pronunciate? Subito prima di addormentarsi accanto a lei?
Sì, ne sono certa.
La clessidra, la clessidra... quella del sogno?
Ma no, non ha senso!
La clessidra indicava forse Eva? O qualcun altro? Frugò nei cassetti della memoria, alla ricerca di nuovi dettagli. Eva le aveva parlato a lungo, quella notte, quell'interminabile, bellissima notte. Le aveva raccontato molto di se stessa, della sua vita, dei suoi hobby. Aveva accennato qualcosa riguardo alla sua morte. Sì, perché Eva era morta, in un incidente. Aveva riso, a quelle parole. Non poteva non ridere, in effetti.
I morti non fanno l'amore così bene.
Poi l'aveva baciata, ed Eva aveva smesso di parlare. Sul momento non aveva dato alcun peso a quell'affermazione, ma adesso... in fondo, un ritornato lo aveva già incontrato. Credere che anche lei lo fosse, non le sarebbe costato nulla. Una volta che vedi tornare un uomo dall'Inferno, qualunque altro avvenimento diventa plausibile.
Okay, partiamo dall'idea che Eva sia morta. Per me cosa cambierebbe? Forse sarei una necrofila.
Un conato di vomito.
Lasciamo perdere, forse è meglio. Non ha senso sprecare tempo a speculare sulla sua vera natura, è meglio che mi concentri sulla situazione corrente. Sono imprigionata in una baracca, senza possibilità di muovermi. Il mio aguzzino è di là e si prepara a farmi la festa. Cos'altro potrebbe succedere?
Un esplosione fortissima. Uno specchio salta in aria, schegge di vetro a ventaglio.
Un altro scoppio.
Frammenti vaganti, lame acuminate in ogni direzione.
Un grido, un grido di terrore.
Le frecce scintillanti la feriscono alle braccia, alle gambe, sulla guancia destra, strappano il vestito in più punti, lasciando spazio ad aloni vermigli, densi e liquidi.
Proiettili in volo, spari imprecisi, scintille ovunque.
“Fermati, ti supplico! Non uccidermi! Non ancora!”
Urla, non sue questa volta. La voce di Francesco. Grida di rabbia, di stupore, di dolore. La porta della stanza si apre, Francesco ringhia, sbraita come una bestia ferita. La marsina nera macchiata di rosso, all'altezza del cuore, dei polmoni. Chiude il lucchetto, sposta un divano, lo spinge contro il pesante uscio di legno. Un ghigno demoniaco sul suo volto.
“Non si preoccupi per me, sssssignorina. Chi è già morto non può trapassssare.”
Sibilò come un serpente, leccandosi le labbra con la lingua biforcuta. Le pupille strette, due fessure su iridi nere come la pece.
“A quanto pare, hanno sssscoperto le mie innocenti marachelle, sono rissssaliti a me. Intelligenti, forse troppo. Credevo che non mi avrebbero mai trovato, le telecamere non regisssstrano la mia immagine. Pazienza, signorina, pazienza. Attenderò con lei il momento adatto a conssssumare il mio transsssiente ressssiduo.”
Una stretta al cuore.
“Non mi avevi promesso... che avresti atteso fino al mio compleanno?”
Voci concitate dall'altra parte del muro.
“Voi tre portate vie le ragazze, svelti! Gli altri con me! Si è barricato di là, non dovrebbe avere altri ostaggi! Voi andate. Proverò a trattare con lui.”
Francesco si voltò verso la fonte delle voci, senza curarsi della domanda rivoltagli.
“Bene, bene! Ora i giochi si fanno un poco più interessanti.”
La sua lingua era tornata normale, le pupille della larghezza giusta.
“Rispondimi, Francesco! Avevi detto che...”
“So cosa ho detto, signorina. Non intendo venir meno alla parola data.”
La ragazza si tranquillizzò. Forse aveva ancora una possibilità di sopravvivenza. Se i poliziotti – non aveva dubitato neppure per un attimo che lo fossero – avessero arrestato Francesco...
“No, non intendo venir meno alla parola data, signorina.... ma sa, forse calcoliamo il tempo in modo diverso.”
Sgranò gli occhi.
“Cosa vuoi dire?”
“Fra poco meno di un'ora, raggiungerò la matrice di realtà con lei.”
“Oggi... oggi non è il mio compleanno!”
“Signorina, signorina... ancora con queste affermazioni? Quando le ho detto che non l'avrei toccata fino a quando non avesse compiuto ventun anni di età... non ho specificato su quale calendario andasse calcolato.”
Estrasse un libretto nero dalla tasca dell'abito scuro, lo aprì, strappò una pagina, il viso contratto in un ghigno demoniaco.
“Ieri era il tredici marzo, corretto? Se facciamo fede a questa agenda, che giorno viene dopo il tredici? Su, non è difficile...”
“No, un momento... non vorrai...”
“Stando alla prove testé mostrate, con riguardo alla data del suo compleanno...”
Si leccò le labbra avidamente.
“...non potrà esimersi dal constatare che quel giorno è oggi.
Auguri, signorina!”
Il Paradiso Negoziato
Era stato particolarmente semplice scassinare la porta, una volta di fronte alla serratura. Cosa ci vuole? Basta un po' di polso fermo, un pungolo di metallo e un minimo di esperienza. Il problema era stato avvicinarsi: le mine avevano reso l'intera questione un po' più complicata – ma solo un minimo. Nulla che non si potesse affrontare con un minimo di incoscienza.
Com'era andata poi?
Ah, sì. Una volta lì, erano entrati dentro lo stabile e si erano trovati di fronte un uomo, abbastanza giovane, vestito di nero.
Buffo, sembrava un maggiordomo.
Camicia bianca, giacca nera, pantaloni neri, cravatta nera, scarpe lucide. Capelli neri, lisci, capelli che cadevano a ciuffi sugli occhi, scuri anche quelli. Sembrava essersi sorpreso, alla loro vista. Aveva afferrato qualcosa di simile ad una pistola e gliel'aveva puntata contro.
Troppo lento.
Sei spari, uno alla mano, due a vuoto – avevano rotto degli specchi in un'altra stanza, uno al cuore, uno al polmone destro, uno alla gamba sinistra. La mira non è troppo problematica, se ti trovi a distanza ravvicinata.
L'uomo aveva gridato – chi non lo avrebbe fatto? – ma non era morto, proprio per niente. Era fuggito ridendo come un pazzo e si era barricato dietro una pesante porta di legno.
Una veloce occhiata aveva rivelato la vera natura di quella catapecchia: una prigione. Ragazze, completamente nude, sdraiate su divani, sedie e lettini, sguardi assenti, movimenti lenti e molli. Respiravano ritmicamente, senza accorgersi di ciò che stava succedendo tutto attorno a loro. Non ci voleva più di un occhio per rendersi conto che si trattava delle giovani scomparse.
Centro.
Le aveva contate, erano undici, come previsto.
Bene, non ha più ostaggi.
Cos'altro fare? Be', ordinare ad un paio di agenti di prenderle e portarle in salvo, fuori da quell'incubo, seguendo le tracce fosforescenti lasciate dalle sue scarpe sul percorso sicuro. La voce aveva ragione, dopotutto. Aveva fatto bene a fidarsi.
Il presunto colpevole si è asserragliato in un'altra stanza. Non mi resta che provare a negoziare prima di buttare giù tutta la baracca.
Negoziare. Buona idea. Dopotutto, il rapitore non aveva altre carte da giocare. Una ragionevole resa era quanto di più auspicabile per la sua salute. Nethanienko sorrise. Non c'era bisogno nemmeno del megafono, era sufficientemente vicino. Fece segno ai suoi uomini di tacere, poi iniziò a parlare, con tono tranquillo e disteso.
“Lascia che ti riassuma la situazione. Qui con me ci sono quattro agenti di polizia, armati. Anch'io ho una pistola, come avrai certamente notato. Mettiamola così, se ti arrendi senza fare troppe storie, ti portiamo all'ospedale e lì vediamo come salvarti la pelle, okay?”
Silenzio. Nessuna risposta. Scosse la testa.
Che l'abbiamo ammazzato? No, dai, è corso via troppo in fretta per essere morto.
Sospirò rumorosamente.
“Ascolta, la tua posizione è grave, ma neanche troppo. Se quelle ragazze tu non le hai toccate, c'è la possibilità che in tre anni tu sia fuori. Basta costituirsi.”
Una risata gelida, agghiacciante.
“Non le ho nemmeno sfiorate, Polifemo. Non ho violato la loro intimità, se è questo che voleva sapere.”
Nethanienko strinse il pugno. Quel nomignolo non era affatto di suo gradimento. Cercò di mantenere la calma, dominando i suoi sentimenti.
“Questo semplifica le cose. Perché non apri quella porta e ne parliamo?”
“Devo portare a termine un piacevole compito, Polifemo.”
“A me risulta di no.”
“Certo, certo! A lei non risultava nemmeno che il campo fosse pieno di mine. Si è divertito, a giocare con la sua vita? Se sì, devo renderle atto che ha fegato. Non molti si sarebbero affidati al caso, un plauso alla sua incoscienza. Applaudirei, se ne avessi l'occasione.”
“Sei stato tu a sistemare gli ordigni?”
“Precisamente.”
“A che pro?”
“Proteggere la mia Versailles. La mia reggia, capisce? Difendere il mio regno dagli intrusi, da chiunque potesse turbarne la quiete!”
“Perché hai rapito quelle ragazze?”
“Anche se glielo dicessi, non mi crederebbe.”
“Tu provaci.”
“Erano un palliativo. Un placebo per placare le mie pulsioni... in attesa di trovare ciò che stavo cercando.”
“E cosa cercavi?”
“Non cosa, ma chi. La mia padrona, Polifemo. Solo lei.”
“E l'hai trovata?”
“Certo. È qui. Con me. Ora... cosa ne dice di andarsene, agente? Mi ha interrotto nel bel mezzo dei preparativi. Sa, oggi la signorina compie gli anni. Devo festeggiarla come merita.”
“Ovvero? Stai per abusare di lei?”
“Che parole pesanti e prive di tatto. Devo ammetterlo, lei sa utilizzare bene il lessico a sua disposizione per ferire i sentimenti di un povero servo. Non è italiano, non è così? Ha un pessimo accento.”
“Sono italiano quanto te. Mio padre è russo, se ti interessa, ma non divaghiamo.”
“Giusto. Se ne vada. Mi lasci con la signorina. Ho atteso questo momento a lungo, troppo perché lei lo rovini.”
Nethanienko rimase in silenzio per un attimo.
“Andrea, cosa facciamo? Non potrebbe essere un bluff?”
“Se avesse davvero un ostaggio e questi venisse ucciso, sai in che grane finiamo, sì? Non possiamo lanciarci nel vuoto.”
“Tu l'hai fatto, là fuori! Hai attraversato quella maledetta trappola senza pensarci due volte!”
“Vuoi dirmi cose che non so, sì? Lì era diverso. La responsabilità era mia. Alla peggio sarei saltato in aria io, tutto qui.”
“Brutta gatta da pelare.”
“Già, già.”
Francesco esultò in silenzio. Polifemo non aveva risposto, si era arreso. Ora, era tempo di festeggiare propriamente la sua prossima scomparsa dal mondo terreno. Si voltò verso la signorina, legata alla sedia.
“Quei grumi di sangue non le si addicono. È un vero peccato che le schegge abbiano attraversato la sua pelle, così fresca e profumata.”
Scrollò le spalle.
“Pazienza. Non sono schizzinoso. Ora stia calma e lasci fare a me.”
La ragazza non rispose, non disse una parola, nemmeno quando le mani di Francesco iniziarono a muoversi sotto il suo abito bianco, in cerca del suo tesoro più prezioso.
Nethanienko lo interruppe bruscamente.
“Ascoltami, ho preso una decisione. Se mi fai sentire la voce della ragazza, continuiamo questa trattativa. Se non puoi assicurarmi che sia viva, noi sfondiamo la porta e ti piantiamo un proiettile nel cranio, okay?”
Francesco si alzò controvoglia e si avvicinò alla porta.
“Vuole sentire la sua voce? Resti fermo lì un attimo ed udirà dei graziosi gridolini di gioia.”
“Voglio che sia lei a parlare, sì? Deve solo dire il suo nome. Se entro trenta secondi non avrò una risposta, smonterò questo tugurio pezzo per pezzo.”
Francesco scrollò le spalle con calma.
“Non ha che da chiederlo. Avanti, signorina... riveli il suo nome a questo valoroso ed esagitato agente di polizia.”
Nessuna reazione. Occhi fissi verso il terreno, labbra serrate.
“Signorina... non mi indisponga. Risponda alla cortese domanda del qui presente tutore dell'ordine.”
Niente.
“Non faccia la difficile, la prego! Solo una parola, una parola sola ed io e lei potremo finalmente concludere ciò che è stato iniziato!”
“Allora? I trenta secondi sono quasi scaduti.”
“Signorina! La prego, la supplico! Se non risponde, la uccideranno e...”
Le pupille si assottigliarono, sino a ridursi a strutture filiformi.
“Un momento... non mi dirà... non mi dirà che lei mira a questo? A prendere un treno diretto per l'altro mondo? In questo modo, lei scontenterebbe il suo umile servo, privandolo di un momento desiderato così a lungo! Le sembra corretto, da parte sua? Le sembra corretto?!”
“Dieci secondi.”
“Stronza!”
Uno schiaffo violento sulla guancia sinistra. Osservò il proprio guanto, inorridito.
“Cosa ho fatto? Oh, cosa ho fatto, signorina? Perché la mia mano ha colpito il suo volto, così dolce e delicato? Non merito di essere suo tutore, signorina, non merito l'appellativo di maestro di servitù... cosa ho fatto, signorina, cosa ho fatto?”
“Cinque secondi.”
“No, no! Abbia la cortesia di darmi ancora un po' di tempo. La signorina non collabora. La pregherei di concedermi ancora un minuto, un solo minuto. Non di più.”
“Accordato, ma se è una finta sai che te ne pentirai, sì?”
“Ne ho piena consapevolezza.”
Chiuse gli occhi, per riorganizzare la mente. Stava per ottenere ciò che aveva sempre desiderato, ciò che aveva bramato silenziosamente per anni, era ad un passo dall'averlo... e di punto in bianco, il primo sbirro che passa riesce a mandare in pezzi i sogni di un uomo morto prematuramente, morto per aver svolto in maniera troppo zelante il suo dovere di maggiordomo.
Non posso arrendermi così. Vediamo cosa nasconde il buon Polifemo, nella sua mente. Il campo mi guiderà da lui.
Divenne un tutt'uno con la matrice di realtà, suddividendo i suoi pensieri in stringhe binarie ed intrecciandoli col mondo. Serpenti di cifre, nascosti nel terreno, nei muri, nell'aria, essenza priva di materia, involucri invisibili, diretti verso il loro bersaglio. Passarono sotto la porta, dribblarono gli agenti, si avvinghiarono alla gamba di Nethanienko, la risalirono, scivolarono sul suo tronco, si fecero strada fino alla benda, entrarono dalla cavità destra, vuota, raggiunsero il cervello, entrarono in contatto con il suo io latente.
Andrea Nethanienko. Trentun anni. Commissario di polizia. Nato a Torino, si è trasferito in Russia, a San Pietroburgo. È tornato indietro solo quattro anni fa, dopo la morte della sorella e... un momento, io l'ho già vista! Assomiglia alla ragazza che ha posseduto la signorina! È lei, ne sono quasi sicuro, maledizione! La rossa, la strega che ha avuto ciò che volevo possedere io! Ora la ammazzo, la ammazzo di nuovo! Lo so, è già morta, ma la uccido, per sempre stavolta, per sempre! Per. Sempre. Punto. Virgola. A capo. Sì, sì la uccido, la uccido! La rimando indietro alla matrice di realtà-ah-ah-ah! Puah! Che strano, che strano! Un morto in vita? Ma anch'io sono morto. E vivo. Anche lei? Ma no! Ma non ha sensoooo! Waaaaaaah! Calma, Francesco, calmati! Stai perdendo il controllo, il campo ti sta assimilando, sei tu che devi assimilare lui. Torna ad analizzare il tuo nemico! È giovane, inesperto! Ne farai un boccone! Leggi bene, leggi meglio! Com'è che è diventato Polifemo? Ah, sì. Ha perso un occhio nel mio campo minato, quando... quando lo sbirro è saltato sulla mina! Sì, sulla mina! Lo sbirro blu! Lui conosce lo sbirro blu!
“Tu conoscevi lo sbirro blu! Nethanienko, tu lo hai visto per l'ultima volta!”
Il commissario non fece in tempo a domandarsi come il rapitore fosse venuto a conoscenza del suo cognome – un cognome che fino ad un attimo prima sembrava ignorare.
“Chi?”
“Ma come chi è?! Ma dico, se tu che lo conosci, che lo conoscevi! È saltato in aria, tu l'hai visto saltare in aria! L'hai visto esplodere! Sì, sì! L'hai visto, con l'occhio che non hai più! Sai, era vestito di blu, è per questo che per me era lo sbirro blu. Non c'è un altro motivo, non sapevo che nome dargli! Sai, dalla finestra non si vede molto bene, ma le scintille, il rumore, oh! Come posso dimenticarli?”
“Aspetta un attimo, non starai parlando di...”
“Lasciami un secondo, che leggo il nome nella tua mente... ah, è così? Si chiamava Alessandro Scirea! Scirea, come il calciatore! Strano, eh? Fino ad oggi mica lo sapevo che si chiamava Scirea. Bello, bello! Ed è morto.”
“Quindi l'hai...”
Le pupille di Francesco si dilatarono in modo improvviso, impressionante. Allargò le braccia, si leccò le labbra, dondolò su se stesso, iniziando a declamare versi privi di rime, incostanti, dal ritmo frantumato, costruendo una triste cantilena di parole e suoni, incentrata sulla sua macabra ossessione.
“E Scirea esplose con rombo di tuono! O era un fagotto? O un controfagotto? Di certo Scirea è esploso scintillando e sfavillando, titillando sbertucciante tra stelle strappate al cielo, sbraitando! Che spettacolo, che spettacolo!”
“Figlio di...”
Nethanienko perse la pazienza. Prima che i suoi agenti potessero fermarlo, si lanciò contro la porta e la sfondò con una spallata. Schegge di legno ovunque, polvere, segatura. Respirò affannosamente, alzò la pistola in direzione dello psicopatico, si preparò a sparargli. Quasi istantaneamente, la sua attenzione fu attirata da una giovane ragazza, vestita di bianco. Capelli neri, lunghi, scarmigliati, ferite da taglio sul corpo, sulla guancia. Lo fissò implorante, in cerca di conforto, in cerca di aiuto.
Si distrasse per un attimo.
Un attimo di troppo.
Francesco lo colpì con una ginocchiata allo stomaco, afferrò la sua pistola al volo, gliela puntò alla tempia. Alzò lo sguardo verso gli agenti di polizia, incapaci di muovere un muscolo.
“Uscite, uscite da Versailles! Andatevene! Lasciatemi solo, nella mia sala degli specchi! Solo con la signorina, oppure lo ammazzo, capito? Lo uccido! È il vostro capo no? Allora, commissario? Dillo, dillo che devono uscire! O vuoi raggiungere tua sorella, Andreuccio-Andreino Nethanienko? Dimmelo e ti fornisco un biglietto di sola andata!”
Nethanienko era riverso a terra, supino, l'occhio a fissare il soffitto. Gli ci vollero trenta secondi scarsi prima di rendersi conto della sua posizione. Sentire la fredda canna di acciaio appoggiata alla sua testa accelerò la presa di coscienza.
“Ma che diavolo...”
Si voltò due o tre volte, come istupidito. Il volto di Francesco contratto in una smorfia animalesca, un viso deforme che di umano aveva solo il nome.
Questo è pazzo da legare...
Senza pensarci due volte, si esibì in un gesto piuttosto eloquente.
“Fate come dice. Me la cavo da solo.”
I poliziotti abbandonarono controvoglia la catapecchia, uno dopo l'altro, senza smettere di fissarlo.
Francesco rise, rise in modo sguaiato.
Ormai era chiaro chi fosse il vero vincitore di quel round.
Evanescenza
Dove sono?
Hai preso una botta in testa. Bella forte, oserei dire. Quel pinguino ti ha conciato davvero per bene.
Grazie. Avevo giusto bisogno di una voce che mi tirasse su di morale.
Prego, non c'è di che.
Come facevi a conoscere l'ubicazione delle mine?
Non penso tu voglia realmente saperlo.
Ora sono curioso.
Ho tirato a indovinare. C'era una buona probabilità di condurti sano e salvo fino alla porta. Se fossi esploso, te la saresti presa con me?
E con chi, se no? Sei stata tu a convincermi ad attraversare il Rubicone.
Che termini difficili. Lo sai che sei svenuto, vero?
No, non lo sapevo. Grazie di avermelo rivelato. Comunque non credo ad una sola parola di quello che hai detto. Non avresti rischiato di uccidermi, no? Sei muoio io, muori anche tu. Sei una vocina nella mia testa, dopotutto.
Così mi sminuisci. Sono qualcosina di più di una voce.
Oddio, ora scopro di conoscere il grillo parlante.
Non provare a paragonarmi ad un insetto, okay? Mi fa sentire ancora peggio. Sai, in questo momento ne sto osservando uno. Sta strisciando pigramente su una clessidra gigante.
Non penso di capire.
Meglio così, credimi. Senti... hai qualche piano d'azione? Sai come far desistere quel mostro dal suo proposito?
Intendi dire... impedire che stupri e uccida quella ragazza?
Per l'appunto. L'uomo sei tu, non ti aspetterai che sia lei a risolvere le cose... o che me ne occupi io. Sono solo una voce, dopotutto.
Prima hai detto di essere qualcosa di più.
E non lo nego, il fatto è che non posso intervenire fisicamente!
Quindi, ti aspetti che sia io a togliere le castagne dal fuoco.
Più o meno l'idea è quella.
Bene. Peccato che lui mi abbia preso in contropiede. Ho ceduto all'ira per un attimo e mi sono fatto fregare come un pivello alle prime armi.
Tu sei un archivista, non un uomo d'azione. Può capitare.
Non dovevo essere io a negoziare. Ho sbagliato tutto, ho sottovalutato la sua abilità linguistica.
Okay, buona introspezione psicologica. Cosa ne dici se la smettiamo di commiserarci e prendiamo le redini della situazione?
Il risveglio fu quasi più traumatico. Aprì la palpebra con lentezza inimmaginabile. Francesco lo squadrò divertito.
“Peccato che sia nuovamente conscio della sua situazione, commissario. Avrei preferito risparmiarle lo spettacolo. Dev'essere frustrante dover assistere ad un delitto e non poter alzare un dito per impedirlo.”
Nethanienko provò a muoversi, senza successo. Era legato ad una sedia, immobilizzato.
“Mettiamola così. Ora se ne sta buono e tranquillo su quella sedia e rimane a guardare con quel suo occhietto vispo, okay? Sarà testimone del mio anelito, del mio tentativo di raggiungere l'infinito appagamento e la successiva dissoluzione. Cosa ne dice?”
“Devo proprio risponderti?”
“Le lascio libero arbitrio, signore. Non sarò io a decidere per lei, non ne sono in grado.”
Nethanienko analizzò la situazione con calma, il tempo a disposizione era sufficiente – un paio di minuti scarsi. Avrebbe potuto riprendere il negoziato, tentare di ricostruire un dialogo. Peccato per la sua posizione.
“Lo sai che se abusi di lei, ti becchi una decina d'anni con la condizionale? Pensa un po', vedere il sole a scacchi per tremilaseicentocinquanta giorni. Ti piacerebbe?”
Francesco scosse la testa, sconsolato.
“Devo aver leggermente sopravvalutato le sue facoltà cognitive. Non le ho già detto e ripetuto che svanirò subito dopo aver consumato il mio desiderio?”
“Per quale bizzarro fenomeno fisico?”
“Commissario, come avrà già certamente capito, io sono un errore, un dettaglio trascurabile nella matrice di realtà. Le violazioni hanno vita breve, sono tali sino a quando non possono essere misurate. Nel momento stesso in cui otterrò ciò che ho sempre desiderato, lascerò una traccia tangibile della mia presenza nel mondo. Rifletta, rifletta solo per un attimo. La mia immagine è mai comparsa all'interno di un filmato, in una foto, sulla lastra lucida di uno specchio? Ho lasciato delle scritte autografe da qualche parte? Esiste una prova – che non sia una testimonianza oculare – del mio ritorno? La risposta è no, commissario. Per il mondo, io non esisto... e, finché non esisto, non posso morire. Non è una prospettiva allettante? Ad ogni modo, c'è un limite, commissario, un limite invalicabile. Se lasci una traccia, il tuo tempo si assottiglia e si esaurisce ad una velocità impressionante. Cosa intendo come traccia? Non lo so di preciso, penso possa avere molte accezioni.”
“Non capisco dove vuoi arrivare.”
“Presto detto, commissario. Una volta esaudito il mio più grande desiderio, io svanirò... perché un uomo non può soddisfare i suoi bisogni dopo la morte. In quel momento – solo in quel momento – la natura si accorge di te e richiama la materia in esubero, disintegrandoti. Non è doloroso, per niente... ma mi creda, non è un'esperienza che le auguro di provare. In buona sostanza, le sto semplicemente esponendo il principio di indeterminazione tempo-energia di Heisenberg. Tanto più è grande la violazione alla matrice, tanto più è ridotto il tempo di vita della singolarità. Ha studiato un po' di fisica, vero?”
“Non era tra le mie materie preferite.”
Francesco lo fissò con aria di superiorità.
“Devo dedurre che necessita di una spiegazione più approfondita? Se vuole, posso esporle nei dettagli le ultime teorie di universo olografico.”
“Perché no? Tanto non ho fretta.”
Scrollò le spalle.
“Dubito che lei sia in grado di apprezzarle. Una buona parte della comunità scientifica le considera eretiche, i comuni mortali non possiedono una preparazione sufficiente a comprenderla. Peccato, sarà per la prossima volta. Ora ho altro da fare.”
“Quindi vuoi farmi credere che sei morto?”
“Due anni fa. Una circostanza interessante, non trova? Le patrie galere non ammettono detenuti deceduti, per cui anche se mi arrestasse...”
“I cadaveri non tornano in vita!”
“Lei conosce Galileo? Il metodo scientifico? Bene, valutiamo la sua affermazione sotto il profilo di ciò che le suggeriscono i sensi. A che conclusione giungiamo? Non è difficile: la sua assunzione è falsa. Io sono la prova esatta del contrario.”
“Quindi potrebbe essere tornata anche mia sorella?”
“Nulla lo vieta. La probabilità è molto piccola – al limite trascurabile – ma non posso escluderlo. Mi dica, sua sorella desidererebbe rivederla, commissario?”
“Credo di sì.”
“Bene. Anche se fosse tornata, non potrebbe farlo. Al momento del vostro incontro si dissolverebbe, temo.”
“Mi dispiace, ma non ti seguo. Tu desideravi ritrovare la tua padrona...”
“No, non ritrovare. È questa la differenza fondamentale. Forse sua sorella sarebbe soddisfatta anche solo nell'incontrarla, ma io... ho altre priorità. Io la signorina voglio possederla. È diverso.”
Nethanienko annuì.
“Se ha gradito la spiegazione, la prego, mi faccia un favore: stia in silenzio per un po', mi lasci il tempo di tornare alla matrice, ad essere parte del campo intrinseco. Grazie.”
Si esibì in un inchino perfetto, al limite del surreale, poi si allontanò con eleganza.
Bravo, hai guadagnato un po' di tempo. Non male, non male davvero.
Non mi sembra di aver avuto molto successo.
Mi dispiace che tu non sia riuscito ad essere più convincente.
In che senso?
Avresti potuto far leva sulla sua brama. Potevi tentare di spaventarlo. Pensa un po'... “Ehi, se la desideri così tanto, c'è il rischio che tu scompaia prima di poterla anche solo toccare!”. Come avrebbe reagito, secondo te?
Non penso avrebbe funzionato. Ad ogni modo, noi due dobbiamo fare un bel discorsetto.
Noi due?
Io e te.
Cosa ho combinato, stavolta?
Ho avuto più di un sospetto, su di te... e quel maledetto damerino mi ha aperto gli occhi.
L'occhio.
Non stiamo a sottilizzare e andiamo dritti al punto.
Bravo, taglia i tempi morti. Cosa vuoi dirmi?
Tu non sei me, non sei una manifestazione di un mio io latente. Non è stato semplice, ma me ne sono convinto. Sai... credevo che dopo l'incidente la mia personalità si fosse sdoppiata, creando una vocina insistente, a tratti fastidiosa, che mi ribadiva concetti ovvi e cose che avevo già memorizzato, da qualche parte nella mia mente. Ho iniziato a dubitare di te dopo la telefonata di Arianna. Tu sapevi già che alzando la cornetta avrei comunicato con una ragazza che rispondeva a quel nome, ma io, Andrea Nethanienko, non avrei mai potuto esserne a conoscenza.
Quindi? Questo cosa significa?
Che per tutto questo tempo, questi ultimi sessanta giorni, io ho intessuto conversazioni con un'intelligenza diversa, attenta ai dettagli in modo quasi maniacale, avversa alle imperfezioni e alla mancanza di simmetria. Io non sono così.
Va bene, considerando le ipotesi valide... qual è la tesi?
Che tu sia lei.
Lei chi?
Non fare finta di niente, lo sai benissimo. Sei Eva, non è così? Sei mia sorella, la mia amata sorellina!
Secondo me ora stai esagerando. Eva è morta...
Anche quel demone travestito da maggiordomo è passato a miglior vita, eppure è qui davanti ai miei occhi.
Per te cambierebbe qualcosa se ti rispondessi di sì?
Diciamo che spiegherebbe molte cose.
E se non fosse vero? Se ti stessi mentendo?
Pazienza. Un uomo deve pur essere libero di credere in qualcosa. Io non credo in Dio, per cui ho un enorme spazio libero. C'è anche un cartello con scritto affittasi. Ti interessa?
Non ho afferrato il succo...
Quello che voglio dire è che forse non sei lei – ammettiamo pure che tu non lo sia – ma per me è come se lo fossi, tutto qui. Eva è un nome comune, dopotutto.
Non troppo comune. Non ne conosco molte altre.
Nethanienko sorrise.
Mi sembri sollevato, anche se non ne capisco il motivo.
Tutto torna. Due mesi fa, Scirea mi ha detto di aver trovato una ragazza in stato confusionale, ha fatto solo in tempo a dirmi le sue iniziali, Ev. Dopo un po' di tempo, una certa Arianna viene a cercarmi per dirmi che ha visto mia sorella in giro, viva e vegeta. Questa presunta sosia di Eva si comporta in modo diametralmente opposto, senza un preciso motivo. Ora tutto torna, Francesco ha dissolto i miei ultimi dubbi. Ti sei comportata così per allungare il tuo tempo di vita, vero? Per non svanire subito, per godere di ancora qualche giorno di esistenza!
…
Allora?
Parlerò solo in presenza del mio avvocato.
Le voci non hanno bisogno di legali.
Non che abbia molta importanza. Fra un po' non mi sentirai più.
Un po'? Un po' quanto?
Minuti? Sì, direi di sì. Sto scomparendo, non ho avuto abbastanza tempo per trovarti. È buffo, sai? Siamo a meno di trenta metri di distanza e non possiamo vederci. Non sai quanto ho desiderato poterti parlare ancora un po'... di persona. Tu eri in Russia, io in America a girare quello stupido film. Da viva non ti ho più visto. È stato triste, sai? Ad ogni modo, il mio transiente è quasi scaduto. Grazie di avermi ascoltato e di esserti fidato di me. È stato bello.
Vuoi dirmi che non potrò più ascoltarti nemmeno come voce?
Temo non sia possibile.
Nethanienko chinò il capo, sofferente.
Dai, non fare così! Almeno mi sono divertita un po'.
Mi stai chiedendo di non essere triste? Sei tornata qui, in questo mondo e non posso nemmeno incontrarti! Come faccio a non essere triste?! Vorrei vederti, almeno una volta!
Chiedilo al tuo aguzzino. Magari esprimerà questo tuo ultimo desiderio. Ora lasciami un attimo sola, devo guidare qui un'ultima pedina per completare la scacchiera. Roba di minuti, vedrai. Ciao!
“Aspetta!”
Francesco si voltò, irritato.
“Prego?”
Lo fissò con sguardo truce.
“Si riferisce a me, commissario? Non le avevo intimato il silenzio? Così interrompe la naturale sequenza degli eventi!”
“Non starò zitto, proprio no! Ti interromperò finché non ne avrai le scatole piene.”
“Potrei ucciderla. Dopotutto, ho qui la sua pistola.”
“Fallo allora. Preferisco.”
“Contento lei...”
Francesco rimosse la sicura e puntò l'arma alla testa. La signorina chiuse gli occhi inorridita.
“Francesco... ”
“Signorina, come ha sentito, mi è stato richiesto esplicitamente. Come posso ignorare un così cordiale invito?”
Rivolse l'attenzione a quell'unica pupilla che lo osservava malinconicamente.
“Un ultimo desiderio? Qualcosa di realizzabile, ovviamente. Sa, la mia etica mi impedisce di portare a termine questa esecuzione senza prima valutare le volontà della mia vittima. Non sono avvezzo ad uccidere a sangue freddo.”
“Una cosa ci sarebbe.”
“Mi dica, allora. Se questo potrà farla tacere, non mi esimerò dall'aiutarla ad esaudirlo.”
“Portami da mia sorella.”
Scrollò le spalle, premette il dito sul grilletto con leggerezza, senza far scattare il meccanismo.
“Beh, è quello che sto per fare. Mi risulta che sua sorella sia all'altro mondo.”
“So che è qui dentro, in qualche stanza. Capelli rossi, occhi verdi, pelle chiara.”
Il viso di Francesco si deformò, come attraversato da una scossa elettrica.
“Lei?! Quell'essere ignobile che ha goduto delle attenzioni della signorina?! È veramente sua sorella? Non è solo una coincidenza che siano così simili?!”
La canna della pistola sfiorò la fronte del commissario.
“Lo sa, vero, che questa notizia non fa altro che acuire il mio odio? Il mio piano originale prevedeva di portare qui quella sgualdrina e ucciderla di fronte alla signorina, prima di celebrare il suo compleanno! Visto e considerato ciò di cui sono venuto a conoscenza, non penso che potrò esaudire la sua richiesta, dato che produrrebbe un notevole sollievo nella seconda parte in causa. Mi saluti l'aldilà e il Dio in cui crede, tanto non lo troverà.”
“Francesco! Fermati! Ti darò quello che vuoi!”
La pistola gli cadde dalla mano. La signorina...
“Lei... mi darà...”
“Io mi concederò a te, di mia spontanea volontà. Adesso.”
Una voce tremolante.
“Signorina... lei... lo farebbe davvero? Davvero non mi costringerebbe ad usare la forza?”
La ragazza annuì, in lacrime.
“Sì, sì! C'è solo una condizione!”
“Devo risparmiare il qui presente tutore dell'ordine, suppongo.”
La ragazza scosse la testa.
“Non... non è questo quello che voglio. Francesco...”
Lo fissò con occhi di ghiaccio.
“Dimostrami che sei veramente tu.”
FoLlIAAAAAh!
“Aspettare qui fuori, senza poter fare nulla mi sta logorando! Non è che possiamo provare?”
“Non dire cretinate, Giovanni. Il commissario ha detto di lasciarlo fare.”
“Quando ce l'ha detto, aveva una pistola puntata alla tempia. Anch'io avrei potuto dire una boiata del genere!”
“Giovanni ha ragione, potremmo tentare un contatto. Il megafono da trattativa ce l'abbiamo.”
“Sì, ma per Diana! Cosa gli diciamo? Esci con le mani alzate, libera gli ostaggi e ti garantiremo l'incolumità? Non ha senso, questo qui è un pazzo criminale, probabilmente con tendenze suicide. Non ha nemmeno cercato di evitare che gli sparassimo addosso.”
“Capisco... però aspettare è una bella seccatura.”
“Già, già.”
“Senti, tanto per fare due parole, chi è quella ragazza lì, quella vicino alla macchina di occhietto vispo?”
“Penso sia una specie di testimone. L'ha rintracciata stamattina, non chiedermi come.”
“E l'ha interrogata al bar. Molto plausibile.”
“Cosa devo dirti? Magari sa davvero qualcosa.”
“Calma, ragazzi. Non è il caso di interessarci di questa situazione. Abbiamo problemi più grossi.”
“Problemi che non sappiamo come risolvere. Le teste di cuoio le hai chiamate?”
“Sì, ma serve tempo per organizzare un blitz come si deve, senza contare le mine. Siamo solo sicuri del percorso che ha seguito Andrea. Un solo piede in fallo e sei spacciato.”
“Sai, io non ho mica capito come abbia fatto a trovare un tracciato sicuro.”
“Mah, dice di essersi fidato della vocina che sentiva in testa.”
“Mio Dio! Sente pure le voci, ora? Sai, pensavo che la perdita dell'occhio lo avesse completamente rincretinito ma non fino a questo punto!”
“Chi lo sa? Magari, in cambio dell'occhio ha ricevuto il dono di una semionniscenza.”
“Tipo Odino?”
“Ecco, esatto! Tipo Odino!”
“Certo, come no? A questi punti, potremmo provare a chiedergli chi vincerà il prossimo derby, per quante reti e chi segnerà per primo. In caso sia una bufala, non avremo troppi problemi. In caso contrario, sbancheremo la SNAI.”
“Ritorniamo seri, vi va? Cosa ne dite di quelle ragazze che abbiamo portato fuori?”
“Belle sventole. Se non fosse che sono in servizio e che hanno l'età di mia figlia...”
“Erano drogate, secondo me. Sembravano pupazzi, burattini privi di volontà. Mi sono perso un bello spavento quando me le sono trovate davanti.”
“Uh, vedo già i titoli. Agente di polizia spaventato da ragazze nude. Non suona molto bene.”
“Non so se te ne sei accorto, ma era piuttosto inquietante. Sembrava di essere entrati nella casa di un maniaco con turbe psicosessuali! Specchi ovunque, divani, letti, sedie, tutte occupate da ragazze svestite, in pose provocanti, mai esplicite! Sembrava un diorama, un dannatissimo, scenografico, diorama!”
“Non potremmo interrogarle?”
“Forse. Dopo. Sembrano ancora in stato di shock. Non hanno pronunciato ancora una parola che sia una, non reagiscono agli stimoli, non capiscono le domande.”
“Quindi non possiamo fare nulla.”
“Proprio niente. Solo aspettare che le teste di cuoio si facciano vive.”
“E intanto piove. Li senti i tuoni?”
“Non me ne parlare. Sto maledicendo le mantelline impermeabili d'ordinanza. Un ombrello no, eh?”
“Partecipa ad un'irruzione con un ombrello aperto, poi ne riparliamo. Scusate, non sparatemi, devo chiuderlo altrimenti vi gocciola sul pavimento.”
“Ah. ah. ah. Era brutta e non faceva ridere.”
“Se fossi in grado di creare battute decenti, lavorerei come comico, non come sbirro.”
Arianna osservò distrattamente gli agenti che chiacchieravano fra loro. Erano nervosi, indecisi sul da farsi. In fondo, il loro superiore era alla mercé di un individuo cinico e privo di scrupoli. Cosa avrebbero dovuto fare? Ripristinare un contatto?
Francesco non ascolterebbe. È troppo concentrato sul suo io per accorgersi di quello che gli accade intorno.
Arianna scrollò vigorosamente il capo. Quella voce non era sua. Si sentiva un po' come un televisore malandato in cui, ad un certo punto, entra un'interferenza che trasforma il telefilm a cui si stava assistendo con tutta la famiglia nella più orribile tra le scene di Alien. Aveva intercettato un pensiero non suo? Chi era questo Francesco?
Perché non fai due parole con le altre ragazze? Penso possa essere istruttivo. Tanto, per startene lì, a farti bagnare la gonna dalla pioggia battente...
Non poteva sbagliarsi, non era un'allucinazione. Qualcuno stava veramente comunicando con lei, intromettendosi nei suoi pensieri.
...non che mi dispiaccia, in effetti. In questo modo, saresti costretta a cambiarti e a mettere un po' da parte quell'aria da perfettina che ti trascini dietro da un po'. Quand'è che ti tingerai i capelli ed indosserai un bel chiodo di pelle? Mi piacerebbe vederti diversa, anche solo un minimo.
Una voce irritante, pungente, dannatamente rompiscatole.
“Cassie?”
Nessuna risposta. Sembrava che la trasmissione pirata fosse terminata del tutto. Arianna emise un profondo sospiro. Un tuono lontano, uno immensamente più vicino. Il cielo sembrava pronto a dare spettacolo, per l'ennesima volta dalla creazione del mondo conosciuto. Scariche elettriche ionizzate, tra una nube e quella adiacente. Un crescendo degno dello Zarathustra di 2001 – Odissea nello spazio. Si aspettava da un momento all'altro di vedere il monolite nero, la scimmia che si alza, afferra la clava d'osso e la lancia nel cielo al suono degli ottoni.
“Tanto vale...”
Si allontanò dalla vecchia Fiat Panda poco alla volta, passo dopo passo sotto la pioggia battente, in direzione dell'ambulanza. Un medico, un paio di volontari e un poliziotto stavano tentando di scuotere una ragazza dal torpore. Era stata ricoverata all'interno del veicolo, fasciata in una sorta di lenzuolo che copriva egregiamente il suo corpo, restituendole un minimo di dignità. Uno dei crocerossini imprecava in modo pesante verso il cielo e gli dei in genere. Quattro uomini che cercavano di capire una donna.
Sembra l'inizio di una commedia grottesca.
Arianna si diede un pizzicotto. Non c'erano dubbi, questa volta erano i suoi pensieri, non voci provenienti da chissà dove. Piegò l'ombrellino in avanti, cercando di frenare l'impeto delle gocce d'acqua, di impedire che impattassero anche contro il suo giacchetto azzurro, poi evitò accuratamente una vistosa pozza di fango di recente formazione, aggirandola per non rovinare ulteriormente le sue scarpe. Uno dei volontari, vedendola arrivare, sbuffò vistosamente.
“Si può allontanare? Stiamo cercando di soccorrere una persona.”
“Posso essere d'aiuto, in qualche modo?”
“Solo se se ne va.”
“Avrei voluto provare a parlarle.”
“Cosa che stiamo cercando di fare da circa venti minuti.”
Il medico si intromise senza preavviso.
“Senta, è una sua parente?”
“Veramente...”
Rispondi di sì! Dì di essere sua cugina, la cugina della ragazza, intendo. Di essere preoccupata per lei, cose di questo genere... non devo spiegarti tutto io, no?
“...sì, sono sua cugina di... di secondo grado.”
Il dottore accennò un quarto di sorriso, poi si voltò verso la giovane in stato catatonico.
“Hai sentito? C'è tua cugina qui. Vuole parlarti. Non è che vuoi dirle qualcosa?”
Ruotò il collo in direzione di Arianna.
“Sa, c'è la seria possibilità che la vista di una persona conosciuta la riporti alla realtà. Magari se la chiama per nome...”
Chiara. Si chiama Chiara. Non chiederti come fai a saperlo, lo sai è basta, va bene?
“Chiara! Come stai? Sono qui, mi hanno detto che forse ti avevano trovato...”
Silenzio assoluto. La ragazza continuava imperterrita a fissare il cielo, respirando in modo monotono, ritmico.
“Dai, Chiara! Cerca di svegliarti, su? Sei nuda davanti a quattro uomini! Non provi un po' di vergogna?!”
Arianna si fermò per un attimo.
Sono veramente io a parlare? Sto fingendo di essere qualcuno che non sono per svegliare qualcuno che non conosco?! Devo essere diventata pazza.
Il medico scosse la testa.
“Niente. Nessuna risposta. Sembra quasi che il cervello sia stato disconnesso dagli organi di senso. Che io sappia, non esiste una sostanza in grado di farlo per un tempo così lungo.”
Arianna chinò il capo.
Perché ho seguito i consigli della voce? Potevo starmene ferma davanti alla macchina. Mi sarei bagnata meno.
“Capisco. Chiamatemi se ci sono novità.”
Una mano le afferrò il polso. Cinque dita serrate, strette. Un urlo, un ombrello che cade. Una ragazza che scivola, precipita a terra, nel fango. Gocce di acqua putrida sparse nel raggio di un metro. Un tonfo sordo, un altro urlo, più forte del primo.
“...rianna?”
Uno dei volontari esultò, l'altro benedì il cielo contro cui aveva imprecato fino ad un secondo prima. La ragazza sulla barella ruotò goffamente la testa.
“A... Arianna?”
Arianna si rialzò dalla pozzanghera in cui era precipitata, cercò di risistemare il vestito nel modo migliore possibile, si produsse in un cenno di assenso.
“S... sono io. Ci sono.”
Sbuffò alla vista del suo ombrello, nulla più di un ammasso informe di stecche di metallo grondante di fanghiglia.
“Lei è là... ti vuole vedere...”
“Lei chi?”
La ragazza sulla barella chiuse gli occhi per un attimo.
“Non lo so, ma devo ringraziarla. È stata lei a svegliarmi... a svegliarci. È... è stata come una voce nella mia mente, mi ha ricordato che esiste una vita reale. Però è buffo... non so niente di lei. Mi ha solo detto... quando ti sveglierai, dì ad Arianna che l'aspetto.”
Arianna tremò come una foglia, sotto la pioggia.
“Non ha senso! Perché non me lo ha detto di persona?”
La ragazza tremò per un istante, chiuse e riaprì rapidamente le palpebre, come per riprendersi dallo stato di shock.
“Cosa? Chi? Non... capisco. Dove sono? Perché... perché sono nuda? Dove sono i miei vestiti?! Cosa diavolo è successo?!”
Arianna si allontanò, fece un passo indietro. Il medico rimase stupito quanto lei.
“Andate a controllare le altre due ambulanze. Speriamo che si siano svegliate tutte.”
Uno dei volontari annuì e lasciò la sua postazione.
“Beh, cosa posso dirle se non grazie, signori...”
Si voltò in direzione di Arianna, ma non trovò nessuno. Solo un ombrello infangato ed inutilizzabile.
“...na?”
Il medico scrollò le spalle. D'altronde, non era un problema suo.
Interessante.
Sì, davvero. Perché mi sono fatta coinvolgere?
Bella domanda, hai anche una risposta?
No, purtroppo.
Si guardò attorno, senza capire. I poliziotti, gli agenti, sembravano non accorgersi dei suoi movimenti, del suo avvicinamento alla zona recintata, dei suoi passi lenti ma decisi.
Perché gli altri non mi vedono?
Ho sviato la loro attenzione, stanno facendo altro. Mi sembri un po' indecisa. Hai una domanda per me?
Sì, certo.
Quale?
Non penso che te la farò ora. Preferisco aspettare ancora un po'.
Contenta tu.
La pioggia scrosciante ticchettava con velocità sempre maggiore, ferendo l'arido suolo con sferzate improvvise. Pozze di melma erano comparse qua e là, accanto ai paletti di sostegno del nastro plastificato. Poliziotti protetti da mantelline azzurre di dubbia efficacia, ombrelli aperti, cappucci a coprire le teste, e lei, zuppa di fango dalla testa ai piedi, i vestiti da buttare, tremante dal freddo, di fronte alle impronte di Nethanienko, invisibili senza la luce delle lampade speciali.
Avanzò fino a superare il confine tra il territorio civile e la zona militare senza che qualcuno potesse fermarla, senza timore, quasi incosciente delle sue azioni. Era come una marionetta in grado di reggere i suoi stessi fili, burattino e burattinaio allo stesso tempo. Si fermò al limitare del campo minato, indecisa sul da farsi. Senza le tracce del commissario sarebbe stato molto difficile attraversarlo illesa.
Arretrò impaurita.
Cos'è, ti arrendi senza provare?
Non voglio perdere la vita in un'esplosione!
Ho capito, ti guiderò io.
Perché dovrei fidarmi?
Perché ho già fatto la stessa cosa con Andrea e – come puoi constatare – è arrivato sano e salvo dall'altra parte. Ora, cosa ne dici di evitare altre domande inutili e fare il primo passo? Aiuterebbe molto, sai?
Arianna chiuse gli occhi. Alla peggio, non avrebbe sentito nulla. La deflagrazione sarebbe durata un attimo solo, il tempo necessario a disintegrare il suo corpo e spargere le sue ceneri ai quattro venti. Nessun dolore, nessun rimpianto, niente di niente. Solo cenere, polvere ed aria. Un bel modo di porre fine alle proprie sofferenze.
No, non fa per me. Sono ancora giovane, ho tutta la vita davanti.
Ritirò il piede.
Non posso rischiare così tanto per una voce.
Si voltò e tornò sui suoi passi. Non avrebbe messo a repentaglio la sua vita per un'interferenza casuali nei suoi pensieri.
Senti, non ho molto tempo e non ho intenzione di aspettare oltre. La tua domanda rimarrà senza risposta, non ti pesa questo?
Mi pesa meno che preparare il mio necrologio.
Allora farò a modo mio.
Arianna si bloccò, immobile, gli occhi sbarrati. Per l'ennesima volta fece dietrofront e si diresse nuovamente verso la catapecchia. Prima che potesse anche solo rendersi conto di ciò che stava facendo, il suo piede destro si mosse, sfiorando il terreno, sfiorando le mine.
Un primo, singolo passo verso la follia.
Specchio riflesso non riflesso
“Devo... devo veramente dimostrarle di essere Francesco? Di essere me stesso? Signorina, come posso? Come? Lei mi ha visto! Il mio aspetto è identico a quanto può vedere nei suoi ricordi! Identico! Mi esprimo allo stesso modo, con il mio tagliente linguaggio forbito, seguo la stessa etica! Cosa – mi dica – cosa di me non la convince? Perché non dovrei essere io?”
“I morti non tornano. Tu, invece, sì. Prima di cedere, voglio esserne sicura. Sai, se fossi veramente un ritornato, non mi dannerei così tanto. In fondo, sarebbe impossibile ucciderti, così come minacciarti o arrestarti... ma se non lo fossi, se fossi solamente un mitomane che crede di poter imitare il mio Francesco, non potrei mai concedermi così!”
“Signorina... mi sembra di aver fugato ogni suo dubbio nel momento in cui le ho raccontato la storia. Tutta. La. Storia. Chi altri avrebbe potuto sapere dei cadaveri nella discarica? Chi avrebbe potuto elencarle tutte le sue amanti? Chi avrebbe potuto descrivere così nel dettaglio la sua vita privata, se non io? Il maggiordomo, l'intera servitù del suo palazzo! Io sono qui, ora, di fronte a lei sola!”
“Se tu sei qui, chi occupa la bara che ho adorato per due anni, per due lunghissimi anni?”
“Il mio corpo, signorina, uno stupido simulacro di carne e ossa, corroso dal tempo, divorato dai vermi. La mia essenza era troppo forte per essere confinata in un involucro finito!”
“Voglio una prova! Una prova, capito? Il mio nome! Non lo hai ancora pronunciato una volta! Se non sai il mio nome, non sei il mio Francesco!”
“Signorina... io... io non ricordo come si chiama! Quella parte della memoria... è stata cancellata, sovrascritta nella matrice della realtà! Non posso accedere all'informazione, non fa più parte di me! Il mio io latente, la mia nemesi, la mia guida... è scomparso da poco, inghiottito dall'oblio, demolito dalle nuove informazioni che ho ricavato, che ho ricevuto, che ho assimilato!”
“Sei proprio uno stupido! Potevi informarti, dopo che mi hai portato qui contro la mia volontà! Sarebbe bastato fare una ricerca veloce, il mio cognome lo sapevi!”
“Non ho avuto... tempo! Non... non ci ho pensato! Ma, signorina... questa non è... insomma, questa non è una prova che io non sono! È al più un indizio della mia incompletezza, del mio essere difettoso! Insomma, signorina, io... sono io. Chi altro potrei essere?”
“Un millantatore, qualcuno che cerca di imitare Francesco – con ottimi risultati, devo ammettere.”
“No, non è così! Proprio no! Non è assolutamente vero! Cosa posso fare per convincerla? Cosa?”
La ragazza distolse lo sguardo e fissò lo specchio di fronte a lei.
“Sai cosa sto vedendo? Una giovane di circa vent'anni, con i capelli lunghi neri, gli occhi azzurri, sanguinante, con gli abiti strappati, legata ad un sedia; un uomo dai capelli rossi, con un occhio coperto da una benda, vestito con un impermeabile beige, ammanettato. Nient'altro. Dell'uomo che mi sta parlando in questo momento non vedo nulla, proprio nulla. Per me è come se non esistesse. Come fa ad essere Francesco, se non si riflette negli specchi?”
“Io... signorina... io ho rinunciato a vedere la mia immagine riflessa per non... per non dissolvermi anzitempo! Non posso essere identico al me stesso precedente! In tal caso, la violazione sarebbe massima, non capisce?!”
“Francesco era completo, era una persona vera... e le persone hanno un riflesso. Tu sei solo una sua rappresentazione. Non sei lui.”
“No, no... no!”
Si portò le mani alla testa.
“Io sono... io! Non posso non essere... me! Devo convincerla, devo...”
Nethanienko era rimasto a guardare, fino a quel momento. Non avrebbe saputo cosa dire, se avesse parlato avrebbe solo peggiorato la situazione.
Siamo in una situazione di stallo. Questo idiota desidera che la signorina lo desideri, ma perché ciò accada, lui deve dimostrarle di essere se stesso. Roba da far impallidire Freud.
Chiuse l'occhio, in silenzio.
La scacchiera è completa, tutti i pezzi sono schierati e da venti turni vengono mossi solamente i pedoni. La partita sarà presto interrotta, ma come? Da chi? Serve un elemento nuovo, qualcuno che cambi le carte in tavola, che rovesci la scacchiera. Potrei provarci io? No, credo di no. Pensa un po', se gli dicessi una cosa tipo – ma fregatene e stuprala, maledizione! Non è questo che hai pianificato per anni? – non solo sarei passibile di denuncia per istigazione alla violenza sessuale, ma avrei anche sulla coscienza una ragazza di ventun anni e sarebbe quasi sicuramente contrario all'etica professionale. E se facessi leva sulla sua follia? Potrebbe funzionare? Forse. Mah, un tentativo potrei farlo. Alla peggio ci rimetterei io. Dannazione, perché, per una volta, una santissima volta che serve, la mia voce interiore non si fa sentire? È sparita da un po' ormai, dove diavolo si è cacciata? Devo fare tutto io, stavolta, non è così? Pazienza, inventerò qualcosa.
“Francesco era una persona, un essere vivente, non un non-morto incapace persino di interpretare i miei desideri. Francesco mi è stato vicino nei momenti bui, ha assecondato le mie manie, le mie perversioni, le ha rese vive e reali, mi ha permesso di godere della mia diversità senza imbarazzi o ritrosie. Se tu non sei in grado di fare una cosa del genere, allora non sei lui.”
“Signorina... se lei vedesse la mia immagine riflessa, se potesse ammirare il mio volto in uno di questi specchi... lei mi crederebbe, non è così?”
“Forse... forse sì.”
“Forse non è abbastanza! Mi crederebbe, vero? Sì o no?”
Nessuna risposta. Pupille affilate, come quelle di un gatto.
“Sì o no, maledizione? Sì... o no?!”
Urlò le ultime parole, usando tutto il fiato rimastogli in gola.
“Esigo una risposta! La prego, deve solo pronunciare due lettere! Solo... solo due! E la prima deve essere una S, capisce? La seconda deve avere un accento, un bell'accento tonico, che le dia risalto, in modo da non confonderla con un pronome riflessivo! Per favore, risponda... risponda!”
Attimi pesanti, lunghi come secoli, lunghi come ere. Attimi di silenzio, interrotti solo dal respiro ansimante di un uomo alla ricerca di se stesso. Pupilla in rapido movimento, iridi di colore cangiante, dall'azzurro al nero, senza preavviso.
“Sì. Se ti vedrò su quello specchio, non avrò più dubbi.”
Si leccò le labbra con un gesto meccanico, istintivo.
“Solo questo? Mostrarle la mia immagine... riflessa?”
“Sì.”
Esultò, le braccia al cielo in segno di giubilo.
“Niente di più facile, niente di più facile! Devo solo concentrarmi! Mi dia solo un secondo, okay? Aspetti, aspetti un attimo.”
Afferrò le spalle della ragazza, si posizionò dietro di lei, chiuse le palpebre, comunicò col campo intrinseco. La signorina trattenne il fiato, incapace di reagire. Un pallido fantasma fece lentamente la sua comparsa di fronte a lei, stampato sulla lastra trasparente. I lineamenti affilati, sottili, fuori dal nulla, dal buio della stanza, la giacca nera, macchiata di sangue, i guanti di velluto bianco, la camicia, la cravatta, i pantaloni scuri, le scarpe di pelle lucida. I capelli, lisci, morbidi, le sopracciglia scure, la pelle biancastra, il naso, le orecchie eleganti, la bocca contornata da labbra sottili, scolpita in un ghigno soddisfatto e sofferente.
Una goccia di sudore lungo la fronte.
L'immagine era via via più definita, più delineata. Le sfumature cedettero il passo a campiture piene e distinte, rese più vivide dal tremolante chiarore del lampadario. Un'aura di tenebra attorno al suo volto, un macabro chiaroscuro crepuscolare. Una maschera di morte, un essere vivente, uno scheletro ritornato dall'aldilà. Sempre più opaco, sempre più visibile.
Le trasparenze svanirono, rimpiazzate da forme solide, robuste.
Lingua biforcuta, repentina, mai immobile, lingua di serpente, in movimento continuo, sulle labbra, sui denti. Un'espressione di vittoria, pupille in rapida dilatazione, in contrazione continua.
Occhi neri come la pece, incapaci di esprimere sentimenti diversi dal dolore, dalla frustrazione, mai appagati, mai sazi.
Mani da pianista protette da guanti candidi come la neve, in velluto bianco, immobili, strette attorno al corpo di una giovane impaurita, mani avide, rapaci, pronte a tutto pur di soddisfare un desiderio.
Braccia forti, vestite da un completo di sartoria nero, a cingerle i fianchi, il petto.
Francesco si materializzò come dal nulla, aggrappato alla ragazza, quasi a proteggerla da se stesso. Un abbraccio che non aveva nulla di puro, nulla di fraterno: l'ultimo sfregio del cacciatore alla preda ferita.
“Eccomi, signorina. Solo per lei. Solo. Per. Lei.”
La strinse ancora più forte.
“Cosa ne dice? Riconosce la mia immagine riflessa? Non sono forse io, la figura che può ammirare sullo sssspecchio?”
Sibilò come un serpente, la lingua a pochi millimetri dalla sua guancia. Il braccio destro salì verso l'alto, a coprirle il seno.
“Ora, lei esaudirà il mio più grande anelito, la mia ossessione quotidiana... ed io potrò svanire in frammenti di informazione, senza rimpianto alcuno.”
La mano si mosse rapidamente verso il basso, verso l'orlo del vestito, lo afferrò con forza.
“Sa? Il bianco le dona... ma rende il suo corpo imperfetto. Lasci che l'aiuti a liberarsi di questa impurezza.”
“A... aspetta solo un secondo.”
Allentò la presa.
“Mi delude, signorina. Lei mi ha garantito che in caso lei avesse visto la mia immagine riflessa...”
“Non mi sto tirando indietro! Voglio solo che tu faccia ancora qualcosa per me!”
“Che cosa? CHE COSA? L'ho servita per tre anni, ho assecondato le sue basse e repellenti pulsioni sessuali, le ho procurato le principesse che bramava, a rischio della mia stessa reputazione! Sono morto, morto, capisce? E sono tornato! Che ordini dovrei ancora eseguire?! Cosa non mi ha ancora ordinato di fare?!”
“Pronuncia il mio nome. Solo una volta, ti prego! La tua voce era così dolce quando mi chiamavi... mi manca, Francesco, mi manca!”
“Nessun problema. Mi ricordi il suo nome ed io lo pronuncerò. Se questo è tutto ciò che mi distanzia dall'essere riconosciuto come me stesso...”
La ragazza abbassò il capo e aprì la bocca, scandendo una serie distinta di suoni.
Francesco aprì la bocca, in un'espressione di sorpresa.
Come ho fatto a dimenticarlo? Come...
Scrollò le spalle con un movimento elegante, chiuse gli occhi, ripeté quelle poche lettere, con delicatezza, fondendo armoniosamente suoni vocalici e consonantici, portandoli a risonare assieme, costruendo un'unica, morbida, vellutata melodia. La signorina abbozzò un tenue sorriso.
“Grazie...”
“Di nulla. Ora, se permette...”
Afferrò l'orlo inferiore dell'abito con tutta la sua forza. Si esibì in un profondo respiro, prese fiato, chiuse gli occhi.
“...vorrei raggiungere il mio fine ultimo.”
Strappò con impeto, portando il braccio destro fin sopra la nuca, un unico movimento coordinato, quasi elegante.
Un gesto inutile.
Nethanienko aveva assistito con orrore a tutta la scena, senza poter muovere un dito. Non aveva ricevuto alcuna illuminazione divina, si era limitato a rassegnarsi alla propria impotenza. I suoi nervi avevano mostrato segni di cedimento alla comparsa, lenta ma inesorabile dell'immagine sullo specchio, l'esatta replica dell'aguzzino, riflessa sulla lastra lucida.
Quando sei legato ad una sedia, senza un briciolo di idea, senza possibilità di successo, sei fregato. Punto. Dovrò essere testimone di un reato orribile, la violenza su una ragazza incapace di difendersi. Francesco – o come diavolo si chiama – non è solo un lucido folle, è anche – e soprattutto – un bastardo. Temo sia completamente capace di intendere e volere ma...
Chiuse l'occhio, lo riaprì, lo chiuse nuovamente, incapace di credere ai segnali che la retina stava tentando disperatamente di inviargli.
Urlò di terrore, incredulo.
Francesco socchiuse le palpebre, inorridito. Articolò ogni singola falange della mano destra, la mano che avrebbe dovuto privare la signorina di ogni sua protezione. Le unghie ghermivano l'aria, rapaci, avide, ma dannatamente prive di consistenza.
Ho perso la presa, tutto qui. Ora riprovo.
Tentò di afferrare nuovamente il vestito candido della ragazza. La mano lo attraversò come uno spettro, come una pallida proiezione cinematografica.
Osservò meglio, cercò di capire. Il guanto di velluto giaceva per terra, separato dalla sua controparte fisica. La mano nuda, quasi impalpabile, stava svanendo, perdendo consistenza sotto il suo sguardo attonito.
“Cosa...?”
Serrò le dita, le riaprì, ruotò il polso. L'arto rispondeva perfettamente ai suoi comandi ma non sembrava poter interagire con oggetti solidi.
“Ma... perché? Io non...”
Un lampo, un fulmine nella sua mente, una mente che scricchiolava, si disgregava, sempre più in fretta.
“Una trappola! Era... era solo una trappola! Il riflesso, il suo nome... un inganno! Lei... lei mi ha indotto a violare... a violare al massimo la natura, non è così? Non è forse così? Mi ha... portato ad esaurire il mio transiente, a distruggermi con le mie stesse mani!”
La fissò irata, due braci ardenti incastonate in un vuoto vertiginoso.
“Lei... lei ha tradito la mia fiducia! Mi ha usato... ancora una volta!”
La ragazza abbassò lo sguardo.
“Perdonami, ti prego... perdonami come io ho fatto con te!”
“Io... io ho speso la mia vita per lei e ora... questo è il ringraziamento? Questo è tutto ciò che può... che vuole darmi? Un perdono...”
Parti del suo braccio destro iniziarono ad attraversare il tessuto nero.
“Un perdono per cosa?! Dio non esiste! Non esiste un aldilà, un oltremondo! Solo numeri! Stupidi numeri! Zero, uno, stati sovrapposti di entrambi! Una matrice che genera questa realtà, proiettandola in tre dimensioni! Non c'è un paradiso in cui la mia anima possa riposare in pace, non c'è un inferno in cui bruciare per sempre! Il suo perdono non significa nulla! È inutile! Inutile!”
La sua gamba sinistra si frantumò in schegge di tenebra, frammenti neri come la notte. Cadde rovinosamente sul pavimento, crollò a terra, rialzò la testa.
“Perché mi ha fatto questo? Io... io ero un essere umano! Non avevo forse diritto alla felicità? A godere della mia esistenza?”
Crepe scure si addensarono sul suo volto, compromettendo l'occhio sinistro. L'orecchio esplose in polvere di vetro, riempendo i capelli di cristalli bianchi, pungenti.
“Perché? Perché posso avere solo ciò che voglio, solo ciò che non desidero? Io ho sofferto, ho patito per nulla? Ho davanti a me ciò che ho cercato, colei a cui ho sacrificato la mia esistenza... e non posso nemmeno toccarla, sfiorarla!”
“Riposa in pace, Francesco... riposa, ti prego. Chiudi gli occhi, lasciati andare... così dimenticherò tutta questa storia e per me non sarà cambiato nulla.”
Con uno sforzo immane si trascinò fino alla sedia, rantolando, dimenandosi come in preda ad un attacco epilettico.
“Mi... mi sta dicendo che per lei sarà come se io non fossi mai tornato? Che perdona i miei atti di follia?”
Il braccio sinistro proteso in un gesto disperato, la mano aperta in direzione della ragazza.
“Che... che continuerà a considerarmi il suo miglior confidente? L'unica persona ad averla mai capita?”
Tese le dita, in uno spasmo, per raggiungere il suo volto.
“Che continuerà ad amarmi come ha sempre fatto finora? Che pregherà con affetto sulla mia tomba?”
Annuì con voce commossa.
“Sì, te lo prometto.”
Francesco sorrise.
“Cosa... cosa dire? Potrei... potrei ringraziarla, signorina. Ringraziarla per il suo amore, per la sua devozione... per la sua comprensione...”
La mano si abbassò, afferrò il vestito.
“...peccato che a me non ne importi assolutamente nulla!”
DIssOlUzIOnE
Tirò con tutta la sua forza, strappandole un pezzo dell'abito di dosso, dall'ombelico in giù, cadendo a terra per il rinculo. Di fronte a lui, la signorina, coperta dal frammento di vestito rimanente e dall'intimo candido. L'unico occhio ancora funzionante la scandagliò, la analizzò come un biologo avrebbe fatto con un animale. Occhio azzurro, sottile, pupilla contratta, da gatto. Lingua biforcuta, sibilante.
“Francesco, no! Fermati! Non... non farlo! Fermati, ti prego!”
La ragione si dissolse nel vortice di informazione, distruggendo parte della sue connessioni neurali, portando alla luce la sua perversione, i suoi peggiori istinti. Una bestia guidata da una mente a pezzi. Si leccò le labbra più volte, labbra che stavano per svanire, come il resto del suo io. Crepe lungo il suo viso, crepe sulle guance, sulla fronte, sul collo. Il braccio destro attraversò completamente la manica della marsina, spettrale, cadaverico.
“Sssssì! È mia! È mia!”
Avvicinò il suo viso all'abito bianco rubato, lo strofinò sopra, accarezzandolo con le gote frantumate.
“Mia! Signorina! Ah, signorina! Ora... mia! Mia!”
Si protese in uno sforzo titanico, erculeo per raggiungerla, per sfiorarla con le dita.
“Mia! Oh, ssssignorina! Mia! Solo mia! Solo miaaaaaah!”
La lingua sibilò, schioccando come una frusta.
“Ssssignorina! Lei sarà mia! Io l'avrò! Non è contenta? Non. È. Contenta?! Giaaaaah!”
Nethanienko si sbilanciò, si gettò a terra con la sedia, cercando di liberarsi dalle corde che lo tenevano legato. I nodi non sono così stretti da non poterli allentare. Il suo aguzzino era troppo occupato a delirare per accorgersi di lui.
Si era ripreso in tempo dallo shock, lo shock di vedere un essere umano scomparire sotto i suoi occhi, assistere all'esplosione di una gamba e di un orecchio in schegge di vetro nero e bianco, osservare un reticolo di crepe formarsi sulla sua pelle. Il gesto estremo di Francesco aveva risvegliato il suo io cosciente, un io che aveva rubricato la situazione come impossibile e aveva preso le dovute contromisure.
Sono allucinazioni dovute alla botta, ma comunque non è importante. Devo fermare quel pazzo prima che la ferisca.
Uno scatto di reni, le braccia libere, sfilate dallo schienale, la fune sulle assi marce del pavimento. Si alzò a fatica, di nuovo in piedi, pronto all'azione.
“Ssssignorina! Quanto è delicata la sua pelle! Quanto è morbida, soffice, vellutata!”
La mano di Francesco lungo la sua coscia, ad accarezzarle le gambe, in rapida risalita. Nethanienko stabilizzò la sua posizione, volse lo sguardo in direzione del rapitore.
Trasalì.
Il mignolo destro sfrigolava, frantumandosi lentamente.
Il volto di Francesco si contrasse in una smorfia di dolore. Solo per un attimo.
“Ancora quattro dita, signorina! Ma quattro bastano, sì, quattro bastano! La avrò! La avrò!”
La ragazza scalciò con forza, cercando di allontanarlo, di divincolarsi.
“No, no! Aspetti! Aspetti! Quando avrò finito mi ringrazierà!”
Le dita rimaste raggiunsero la loro metà, tentando di violarla, a pochi centimetri dal suo sogno proibito. Un urlo di terrore misto a rassegnazione.
“Fermati! Fermati ti prego! Non farlo!”
Francesco serrò le palpebre, pronto a porre termine alla sua esistenza.
“Ora, ssssignorina, essssigo il mio premio!”
Un grido acuto, penetrante, terribile. Un colpo secco, con la spalla. Un corpo mutilato, appiattito alla parete, scagliato con violenza contro i telai degli specchi. Cocci di vetro sparsi, frammenti, schegge, polvere trasparente, scintillante.
“Okay, amico. Sei in arresto. Hai diritto a non parlare, ad una telefonata e...”
Un ringhio, il verso rauco di una bestia ferita.
“Polifemo...”
Un volto di porcellana, sfigurato dalle fratture, a pochi centimetri dal pavimento.
“...perché? Perché mi hai fermato? Non avrò più occasione di... di...”
Urlò liberando tutta l'aria contenuta nei suoi polmoni.
“La vita! Io voglio la mia vita! Voglio la signorina! La voglio! Ora! Lasciamela, lasciamela! Sto morendo, per la seconda volta! Avvicinami a lei, fai sì che io la possieda! Lasciamelo fare! Polifemo, aiutami! Aiutamiiiii! Non voglio... non... vo...”
La mano sinistra in frantumi, il braccio destro svanito completamente, la gamba destra in rapida evanescenza. Un torso parlante dotato di raziocinio, una bambola ferita, spaccata, con i meccanismi a vista.
“Fammela toccare, Polifemo! Fammela baciare, almeno una volta! Portami da lei! Portami da lei!”
Nethanienko gli puntò la pistola alla testa.
“Non penso che lo farò. È già tanto se non premo il grilletto.”
Filamenti di tenebra riempirono le crepe, luce crepuscolare dalla sua pelle squarciata.
“Signorina... oh, signorina... mi dispiace.”
La ragazza lo fissò con le lacrime agli occhi.
“Oh, Francesco... allora, dopotutto...”
“Mi dispiace non aver goduto del suo corpo... nemmeno questa volta.”
Un ghigno malefico. Francesco rise, rise in modo sguaiato, senza pensare, senza ragionare. Rise, rise senza motivo. Una risata gelida, priva di emozioni, priva di sentimento, una risata meccanica. La pupilla si dilatò improvvisamente, in un ultimo istante di dolore, in un ultimo attimo di autocoscienza. Ed eccolo, su una strada, a guidare la macchina, a psicanalizzarsi. Il camion spunta all'improvviso, l'auto sbanda, collide col guardrail, precipita giù dalla scogliera. Un bel botto, fra qualche secondo, eh? Ma che sia bello grosso! C'è poco tempo, il tempo per un ultimo, angosciante pensiero.
Ripenso ancora una volta alla signorina, alla sua innocenza, alla sua gioia di vivere, penso ai suoi occhi azzurri, al suo sorriso, al suo corpo nudo, così delicato, perfetto, decorato da bei capelli neri sciolti e lunghi, sinuoso e provocante.
Peccato non averne approfittato.
Un'esplosione di frustrazione, di paura, di rimpianti. Coriandoli neri e bianchi, resti di una marsina elegante, corredata da una cravatta. Pezzi di stoffa, bottoni, una scarpa lucida. Un flash abbacinante, spettacolare. La sera che improvvisamente diventa giorno, la pioggia che si ferma per un attimo, lo scroscio interrotto dal silenzio.
Poi, il nulla.
Di Francesco era rimasta solo l'ombra, un'ombra stampata su uno specchio.
Nethanienko si rialzò dal pavimento. Controllò tutto il corpo, cercando di capire se avesse perso qualche arto. Con suo enorme sollievo, si rese conto di essere integro e praticamente illeso. Si mise a sedere sulle assi marce.
Cosa diavolo è successo? È... è veramente esploso? Saltato in aria? Ma no, non ha senso... un momento! Se fosse stato realmente uno zombie? Accidenti, non ci capisco più niente... però sono vivo, e lui è morto. E questo è più che sufficiente.
La signorina era caduta con tutta la sedia, il viso a terra, gli occhi chiusi, ferite su tutto il corpo. Nethanienko la liberò dai lacci che la tenevano prigioniera.
“Ehi! È tutto a posto, lo sai, sì? È finita! È... è sparito – o qualcosa del genere!”
La scosse un po' con il braccio, cercando di rianimarla. Ritrasse la mano. Pelle fredda come quella di un cadavere. Nethanienko non riuscì a trattenere un grido.
Non può essere morta! Fino ad un attimo fa...
Lentamente, il calore, il colore sembrarono riappropriarsi di quel corpo inanimato. Un cenno improvviso della mano destra, un gesto automatico, rapido. La palpebra si aprì, rivelando due occhi di ghiaccio, smarriti, in cerca di qualcuno, di qualcosa. Fissarono Nethanienko, un lampo di gratitudine, lo sguardo sereno di chi ha attraversato una tempesta illeso, poi si rivolsero ad una porta di legno, seminascosta dai resti degli specchi.
Una porta che il commissario non aveva mai notato prima.
“Cosa c'è là dietro?”
La ragazza scosse debolmente la testa.
“...n ne ho idea... forse c'è lei...”
“Lei?”
“...la ragazza dai capelli rossi, setosi, morbidi... con quel bel viso, quelle iridi verdi in cui mi sono persa... lo sai? Mi piace veramente. È tua... sorella?”
“Eva? Eva è veramente qui?”
“...ancesco l'ha rapita. So solo questo...”
Nethanienko la coprì con la giacca.
“Riposa, riposa un po'. Vado a controllare.”
Si avvicinò lentamente alla stanza, un passo alla volta, scricchiolio dopo scricchiolio. Afferrò la maniglia, indeciso sul da farsi. Respirò profondamente. Un tremore lungo tutto il corpo, una vibrazione, brividi di freddo lungo la schiena. Estrasse la sigaretta elettronica dall'astuccio, la portò alle labbra, un tiro e via. Una densa nube dolciastra, vapore condensato ad additivi. L'agitazione svanì, riacquistò la sua sicurezza. Si fece coraggio, strinse la maniglia con tutte le sue forze, la premette, iniziò a spingere la porta di legno, per entrare, per cercarla.
Fermati, ti prego!
Eva?
Sì, sono io.
Perché dovrei fermarmi? Finalmente posso incontrarti di nuovo, dopo... dopo quattro anni.
Non farlo! È per il tuo bene.
Spiegati meglio.
Non è rimasto molto di me, ormai. Ho iniziato a svanire circa un'ora fa. Non voglio... che tu mi veda in questo stato pietoso. Non... non sarei io, capisci? Preferisco che... che mi ricordi come in quella foto, in quella bella foto che hai sulla scrivania. Ero ancora una bambina, d'accordo... ma è sempre meglio di come sono adesso, credimi.
La mano si ferma, esitante, il movimento si interrompe.
Ti supplico, fermati.
Non puoi chiedermi questo! Tutto ma non questo!
Piangeresti, Andrea... e io non voglio vederti piangere.
Eva...
Non farlo, non varcare questa soglia! Parlami, piuttosto. Io ti risponderò, risponderò a qualunque tuo dubbio! Non mi è rimasto molto da vivere, fammi questo favore, ti prego!
O... okay, va bene. Sai, in tutto questo tempo ho pensato a cosa avrei potuto dirti, se ti avessi rivisto... solo che ora non mi viene in mente niente, se non una domanda estremamente stupida. È curioso, non trovi?
No, è normale. Dai, fammela lo stesso, prima che io svanisca del tutto. Manca poco, purtroppo.
Guarda che è veramente stupida, eh?
E qual è il problema? Dai, non farti pregare!
Perché il cappellaio matto? Tu, una ragazza così precisa, attenta alla simmetria, amante della perfezione... travestita da folle! Non l'ho mai capito, lo sai?
È molto semplice. Il cappellaio matto rappresenta ciò che non sono mai stata, che non sono mai potuta essere. È un simbolo, un simbolo di quello che avrei voluto fare, se non fossi stata Eva. Per questo sono rinata come Cassie, come altro da me, per poter vivere quel brivido di cambiamento! È stato bello, anche solo per tre mesi, dimenticarmi ciò che ero... ed essere ciò che sono. Spero tu possa provare la stessa esperienza, prima o poi.
Ora dovrei andarmene, senza poterti nemmeno vedere, giusto?
Sì, anche perché se tu varcassi quella soglia, svanirei del tutto prima che tu possa anche solo scorgermi con la coda dell'occhio. Sai, esaudiresti il mio più grande desiderio e...
Chiaro. Farò finta di niente. Ciao, Eva. Mi ha fatto piacere poterti parlare ancora un po'... per l'ultima volta.
La mano tremò, come attraversata da una scossa elettrica. Nethanienko cadde in ginocchio, in preda di un attacco epilettico, la voce esitante. Non lasciò la presa, non si allontanò di un centimetro.
Non piangerò come un bambino. Devo mantenere un minimo di contegno. È lei che se ne sta andando, di nuovo... se ora piangessi, se ora sbraitassi, mi disperassi, la farei sentire peggio, no?
Non sai quanto.
Ancora tu? Perché ti intrometti nei miei pensieri con imbarazzante regolarità? Ti diverti a scavare nelle mie debolezze?
No, per niente, ma non posso spegnermi a mio piacimento. Io faccio parte di te, Andrea, sono una tua estensione. È vero, sono Eva, quello che resta di tua sorella... ma vedi, il nostro legame è ancora più profondo.
Cosa vuoi dirmi?
Prima o poi lo capirai.
“Andrea!”
Si voltò di scatto, la mano nella fondina, pronta ad impugnare la pistola. Una ragazza dai capelli neri, occhi scuri, invetrati – assenti? –, piuttosto alta, vestiti infangati, inzuppata dalla testa ai piedi. Abbassò l'arma.
“Arianna? Cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il permesso di superare il cordone di sicurezza?! Insomma, come...”
“Le spiegazioni a dopo.”
L'ho nascosta ai loro occhi.
“Adesso devo vederla.”
Adesso deve vedermi.
“Sono qui per lei.”
È qui per me.
“Mi ha guidato attraverso le mine.”
L'ho guidata attraverso le mine.
“Perché vuole parlarmi.”
Perché voglio parlarle.
“Perché con me non si dissolverà, non subito, almeno.”
Perché è solo un capriccio, non un desiderio vero.
“Lascia la maniglia, me ne occupo io.”
Fai quello che dice, o che dico – non cambia molto, ti sto parlando tramite lei.
“Un burattino? La stai... controllando?”
All'incirca sì. Dai, non fare il difficile e cedile il passo.
Nethanienko sospirò amareggiato, aprì la mano, fece due passi in avanti, fino a raggiungere l'uscio dello stabile.
“Fai come vuoi.”
La signorina era sdraiata per terra, adagiata in posizione fetale sulle assi del pavimento, leggermente assopita. Sarebbe stato meglio non disturbarla.
“Farò segno ai miei di raggiungermi.”
Aspetta ancora due minuti, dammi il tempo di sparire in pace.
Una boccata di fumo sintetico, una nube grigia nell'atmosfera densa del casolare. Un sorriso agrodolce, né divertito, né ironico.
“Come desideri.”
Dioalogo
Assi di legno bucherellate dai tarli, un filo elettrico collegato ad una lampadina ad incandescenza, nubi di pulviscolo, una sedia rovesciata, una catena assicurata al muro, una manetta chiusa.
“Dove... dove mi trovo? L'ultima cosa che ricordo... è il campo minato... come sono finita qui?”
Un paio di jeans strappati, una giacchetto di pelle, una t-shirt bianca, un paio di calze spaiate, una cintura chiusa, con un solo buco, un reggiseno, un paio di slip, tutto accatastato per terra, accanto al catenaccio.
“Questi vestiti...”
Arianna si chinò, cercando di capire, tentando di comprendere.
“Cassie?! Dove... dove sei? Sei qui, qui vicino, vero? Cassie!”
Non gridare. Ti sento benissimo.
La testa le ronzò per alcuni, interminabili secondi.
“Perché ti sento nella mia mente? Dove ti sei nascosta?!”
Guarda meglio, io sono qui, di fronte a te.
Aguzzò la vista, cercando di mettere a fuoco i dettagli.
Urlò di terrore, scattò all'indietro, appiccicò le spalle alla porta, ferendosi con le schegge di legno. Un fantasma, uno spettro impalpabile, una presenza eterea, una pallida immagine sfumata, riflesso dalle particelle di polvere sospese in aria.
D'accordo, ammetto di non essere nelle migliori condizioni, ma sono comunque io, no?
Pelle chiara, priva di lineamenti definiti, priva di dettagli anatomici. Capelli rossi, luci soffuse arcuate a coprire un volto vuoto, due bagliori verdi, scintillanti dove una volta si trovavano gli occhi.
“Ca... Cassie?”
Quello che ne rimane. Ary, io sto svanendo, è per questo che ti ho guidato qui. Dovresti perdonarmi un paio di cose, sai? Ti ho fatto attraversare un campo minato contro la tua volontà, dopotutto. Ad ogni modo, per me era importante che tu arrivassi.
“Lo... lo sai che a momenti mandavi me all'altro mondo, vero?”
Un rischio trascurabile, dato che non esiste un altro mondo.
“Lo sai che sei nuda, vero?”
Sì, ma cosa me ne importa? Tanto non si distingue più nulla, solo il mio contorno esterno. Perdere il tatto è stato frustrante, mi sono dovuta ingegnare un po' per comunicare con l'ambiente.
“Cassie... questo è un addio, non è così? Te ne stai andando per sempre?”
La presenza chinò il capo.
Sì. Inutile nasconderlo.
“Andrai in Paradiso, vero?”
Ary, te l'ho già detto il Paradiso...
Si fermò, come per pesare le parole.
Sì, andrò in Paradiso. Continuerò a vegliare su di te, da lassù. Ehi, non fare quella faccia, vuol dire che alla tua morte ci rivedremo! Dai, ti aspetterò lassù.
“Stavi per dire che il Paradiso non esiste.”
Chi può dirlo? Non sarò certo io a distruggere ciò in cui credi! Perché dovrei risponderti? Dai, hai altro da chiedermi? Cose più normali, intendo.
“Sei veramente la sorella di Andrea Nethanienko? La ragazza che è morta quattro anni fa durante le riprese di Neonlight?”
Sì.
“Hai... hai veramente fatto l'amore con quella ragazza di là?”
Sì.
“Quelle note a margine su In Black'n'White... le hai lasciate per me? Per farmele leggere?”
Solo in parte. Erano il mio diario personale, prima del nostro ultimo pomeriggio insieme.
“Tu...”
Ingoiò la saliva.
“Tu sparirai per sempre? Non tornerai più...”
No. È troppo, troppo improbabile. Una cosa del genere capita una volta nella vita – e nella morte. Diciamo che per una fortunata serie di coincidenze non ero ancora stata sovrascritta, tutto qui. Non capiterà una seconda volta, non ci sperare.
“E ora sei incorporea.”
Non ho deciso io di esserlo. Pensi che mi abbia fatto piacere sentire gli abiti che mi attraversavano il corpo? È stata un'esperienza orribile!
Si protese in avanti, cercando di raggiungerla, di cingerla con le braccia. Passò oltre, senza poterla toccare.
“Non posso nemmeno abbracciarti... un ultima volta.”
Mi dispiace. Avrei voluto farlo anch'io, ma ormai...
Cassie alzò lo sguardo al cielo.
Hai sentito la pioggia? Senti come ticchetta, come scende giù, accarezzando il terreno, rendendolo gravido e fecondo, pronto a generare nuova vita. Secondo me, il torrente è in piena, in questo momento. Starà già portando via la mia roba, verso il mare. Un bel modo di finire, non trovi? Pensa che ridere, quando un pescatore troverà nelle sue reti un orologio con le lancette in moto contrario o una cassettiera da farmacia!
“Cassie...”
Arianna si sedette accanto al muro.
“Sono un po' gelosa, sai?”
Gelosa... di me? Ma cavolo, sto per lasciare questo mondo, come fai ad essere gelosa?
“Hai potuto essere diversa... anche se solo per poco. Non ti è importato nulla dei giudizi altrui, delle lusinghe, delle occhiatacce. Hai... hai fatto tutto quello che ti sei sentita di fare, senza limiti. Per questo provo invidia. E un pizzico di gelosia.”
Non mi dirai che...
Una risata limpida e cristallina, brevi impulsi nel tessuto della realtà, intervallati da scintille verdi, bizzose, sprizzate dai suoi occhi, in ogni direzione.
Non mi dirai che sei gelosa della ragazza dai capelli corvini che sta riposando di là! Ma dai, su! Mi sembra di aver fatto la stessa cosa con te, stupida! E le hai sentite le voci su noi due? Qualcuno ci ha pure visto! Se penso che fino a due giorni fa avresti vomitato solo all'idea...
“Sì, sono gelosa di lei, ma non per quello! A lei... hai raccontato quasi tutto, quasi subito! A me no! E mi conoscevi da più tempo! Quella l'hai vista una volta e ci sei pure andata a letto subito! Perché mi hai tenuto nascosto tutto questo... così a lungo?! Perché? Ma soprattutto... per quale motivo non mi hai detto chiaro e tondo che volevi vedermi? Perché hai controllato la mente di una di quelle poveracce rapite da quel pazzo per comunicarmi il tuo messaggio!”
Se te lo avessi detto direttamente, non avresti avuto almeno una domanda da pormi adesso. Ho solo giocato ancora un po'.
Arianna rimase ferma, immobile, spiazzata. Una risata liberatoria, priva di senso, priva di significato. Un lampo improvviso, Cassie perse ulteriormente visibilità.
Sai, vorrei dirti ancora molte cose, vorrei fare ancora molte cose, un altro pomeriggio di shopping con te, ad esempio... ma non ho più tempo. In questi ultimi giorni ho visto il mio mondo come un clessidra, hai presente? Quegli enormi, antichi orologi formati da due coni sovrapposti, pieni di sabbia? Ecco, la mia sabbia, la mia nuova vita è rimasta ferma quasi fino alla fine, poi, all'improvviso ha iniziato a scorrere tutta assieme, in un secondo... ed eccomi qui. Sono patetica, non trovi? Uno spettro che si compiange.
Scrollò le spalle – o la loro rappresentazione.
Pazienza, in fondo è stato bello. Io la mia vita l'ho vissuta, Ary.
Le si avvicinò, cercò di sfiorarla, di toccarla un ultima volta, senza successo. Un sospiro, un ultimo sospiro. Si sovrappose a lei, esattamente, nella stessa posizione.
Ora tocca a te.
Una sensazione celestiale pervase il suo corpo, asciugandolo, riscaldandolo, vaporizzando dubbi, ansie, sentimenti di paura, di inadeguatezza. I capelli si sollevarono, puntando verso il soffitto. Allargò le braccia, per raccogliere tutta la radiazione di esistenza che si stava sprigionando dentro di lei, un'onda di realtà, di vita che si spandeva, disperdendo la mente di Cassie, la sua intera essenza, le sue percezioni, i suoi ricordi, riportandola ad essere un tutt'uno con il mondo, con l'universo. Flussi di coscienza, di conoscenza allo stato puro entrarono in Arianna, la pervasero, la scombussolarono, giocarono con lei, ripulirono il suo io interiore dal guscio di spine creato per proteggersi, polverizzarono il super io, riducendolo in frammenti, presero per mano l'es e lo portarono a galla, rendendolo padrone del mondo, riportandolo alla luce, alla vita. Radiazione cosmica di fondo, calda, viva, vibrante. Un flash finale, una luce nel buio, la lampadina spenta, il filo a penzoloni.
Silenzio.
Arianna cadde come in trance, perse l'equilibrio, crollo al suolo. La pila di abiti attutì il colpo, lasciandola come addormentata. Aprì gli occhi, quasi all'istante, si mise a sedere sulla giacca di pelle, guardandosi attorno, senza un preciso motivo, ruotando la testa in senso orario e antiorario. Controllò i suoi abiti. Erano puliti, come usciti da una lavanderia a gettone. Nessuna traccia di fango, di sporco. Notò solo in quel momento di essere abbronzata, come se si fosse sottoposta ad una lampada integrale. Un effetto collaterale dell'esplosione?
Forse, ma non era importante.
Si accarezzò i capelli, cercando di raccogliere le idee, li annodò, ci giocherellò un po', tenendoli davanti agli occhi. Si accorse che alcune ciocche qua e là avevano assunto un colore strano, una via di mezzo tra il castano e il biondo, donandole un aspetto bizzarro. Si chiese se anche i suoi occhi avessero cambiato colore, ma solo per un attimo.
Non le sarebbe importato molto.
Si mise in ginocchio, gattonando per alcuni metri, poi si alzò in piedi, in posizione eretta, alzò lo sguardo verso il cielo, verso l'infinito celato dal soffitto basso. Era in grado di vedere oltre, di osservare le stelle aldilà di quella cornice caduca ed immensamente ristretta. Una nuova consapevolezza si fece largo dentro di lei, la consapevolezza di essere, di esistere. Chiuse gli occhi più volte, aprì le palpebre una volta in più.
Mosse le labbra, come per articolare un suono, senza emetterlo, lasciando tutto in sospeso.
Dopo un paio di tentativi, una voce dolce, delicata, decisa, risuonò nell'aria, permeò l'atmosfera, vibrò nell'etere, illuminando la sua mente, il suo cuore, la sua anima. Una nuova Arianna nata dalle ceneri di quella vecchia, un nuovo ente, conscio di se stesso, delle sue esperienze, della sua vita.
Inspirò profondamente, fino ad avvertire l'odore pungente del fumo, una sigaretta elettronica appena accesa, il suo proprietario dall'altra parte della porta, una ragazza sdraiata sul pavimento, assopita, coperta da un impermeabile beige.
Cantò una canzone, note invisibili, impercettibili, solo accennate, si sciolse i capelli, buttò via il fermaglio, afferrò la manica destra del suo abito, la strappò di netto, lasciando la pelle a vista, accarezzando quella strana, enigmatica abbronzatura. Senza smettere di cantare si diresse verso la porta, strinse la maniglia, la girò, lentamente, attimo dopo attimo. E pronunciò quella parola, quella stessa parola che aveva pervaso il campo di realtà solo un minuto prima.
“Eccomi.”
Finestra su un mondo perduto
Nethanienko emerse dalle tenebre, tossendo ripetutamente. Un volto deluso, segnato dalla fatica.
“Ho ispezionato tutto il tunnel. Non è rimasto niente. La casa di Eva è finita in bocca ai pesci.”
Si appoggiò alla parete del ponte, respirando a fatica.
“La piena ha travolto tutto, si è portata via ogni cosa. È un peccato sai? Mi sarebbe piaciuto vedere come si era sistemata. Da come me l'hai descritto, sembrava un posto accogliente. Chissà come le è saltato in mente di arredare un ponte su un torrente?”
Scosse la testa.
“La signorina sarà molto delusa. Non potrò portarle neppure un ricordino. Ha patito molto quando ha scoperto che Eva non sarebbe più tornata da lei. Avresti dovuto vederla, sembrava seriamente innamorata.”
Alzò lo sguardo, verso una direzione ignota.
“Ma perché te lo dico? Dopotutto c'eri anche tu, là al casolare. Certo, se ti degnassi di rispondere...”
Una grossa bolla di gomma rosa esplose senza preavviso, risuonando all'interno del condotto cavo.
“Stavo masticando. Non è bene parlare con la bocca piena.”
“Certo, certo, hai ragione... però non ti ho portata qui per fare tappezzeria. Volevo che mi raccontassi qualcosa di più su questo posto.”
La ragazza si staccò dalla parete, un occhio verde, uno azzurro, capelli biondi lunghi, pelle leggermente abbronzata, dorata, top bianco decorato da scritte in corsivo, una minigonna nera, una giacca senza maniche di pelle dello stesso colore, guanti senza dita, stivaletti scuri, fin sopra la caviglia. Sistemò con cura la cicca all'interno di un fazzoletto e la ripose in tasca, in attesa di trovare un bidone.
“Ti ho già raccontato tutto quello che potevo, non so cos'altro dirti. Cassie abitava qui, non c'è dubbio. Vedi? Questo chiodo reggeva l'amaca, quest'altro teneva ferma la cassettiera. E qui... io e lei...”
Una lacrima le scese lungo la guancia. La ragazza scrollò la testa con forza, tentando di riprendersi. Nethanienko le porse un fazzoletto. Una timida risposta.
“Grazie.”
“Fammi indovinare: non erano pantegane troppo cresciute, giusto?”
Un sorriso fugace in risposta.
“No, non lo erano.”
“Avrei dovuto immaginarlo.”
Nethanienko tastò il terriccio arido, seguì il profilo del pilone, osservò tutto con calma innaturale.
“Quindi è scomparso tutto. Trascinato in mare dalla piena.”
“Mi dispiace.”
“Non fa niente, capita. Mi ero già rassegnato. Piuttosto...”
Si avvicinò alla ragazza, abbassando lo sguardo per poterla fissare negli occhi.
“Da quand'è che ci mettiamo le lenti a contatto colorate e ci tingiamo i capelli? È una nuova moda? Sai che sembri il personaggio di un manga, sì?”
La ragazza allungò la mano, sfiorandogli le labbra chiuse con l'indice destro.
“Sì, e non me ne importa assolutamente niente, okay? Semplicemente, desidero vestirmi così! E domani vado ad una gara di cosplay con il mio ragazzo, quindi non provare a rovinarmi il momento!”
Un fischio compiaciuto, di ammirazione.
“Una gara di cosplay? Con il tuo ragazzo? E tu saresti la stessa Arianna che ho conosciuto tre settimane fa? Dio mio, cosa non ti ha fatto mia sorella!”
Arianna sbuffò con irritazione.
“Questo. Era. Un colpo. Basso.”
Nethanienko le premette l'indice sul naso affusolato.
“Devo ammettere che mi hai stupito, comunque. Una che fino a venti giorni fa aveva paura di farsi vedere in giro con un uomo di dieci anni più vecchio non solo chiede espressamente di tornare con me in macchina dalla catapecchia, ma – udite, udite – mi propone di imboscarmi con lei lungo il tragitto!”
Arianna arrossì leggermente, ma non troppo.
“È stato... un momento di debolezza, okay?”
Nethanienko scrollò il capo.
“Onestamente, ero lì per aprire la porta e prenderti a calci nel culo. Dico, dopo tutto quel casino, la prima cosa che mi chiedi è di fare sesso? Non so quanti neuroni tu abbia perso in quella baracca, ma decisamente qualcuno in più di me.”
Arianna lo schiaffeggiò sul collo con la mano aperta.
“Cretino!”
Nethanienko accusò il colpo, si rialzò velocemente, massaggiandosi la nuca.
“Sei diventata pure manesca. Non so cosa diavolo sia successo alla baracca, ma – giuro – ti preferisco così. Ti ho vista entrare con i capelli scuri e la pelle chiara, un vestito integro, umido e pieno di fango, sei uscita con una leggera abbronzatura, dozzine di capelli biondi nascosti tra le ciocche, nessuna traccia d'acqua o di terra, una manica in meno. Bizzarro, no?”
La ragazza scrollò le spalle.
“È stato l'ultimo dono di Cassie. Non ho ancora ben capito cosa sia successo... ma è come se parte di lei fosse diventata... parte di me.”
Arianna si strinse tra le braccia, il tono di voce sommesso.
“E di questo le sono enormemente grata.”
“Cosa ne hanno pensato i tuoi?”
“Ti sembrerà impossibile, ma l'hanno accettato di buon grado. Mio padre, almeno. Forse ha apprezzato il fatto che gli ho raccontato tutto. Di quale fosse il mio vero rapporto con Cassie, di cosa abbiamo fatto... insieme. Di quanto avrei voluto... potergliela presentare. Sai, ero cotta persa, ma non me n'ero mai resa conto... fin quando non è stato troppo tardi. Ho pianto come una fontana, arrivata a casa, ho raccontato l'intera storia, senza censure, senza nascondere nulla. Ho solo eliminato i dettagli sovrannaturali e ho detto loro... che quel maniaco l'ha uccisa.”
“Tutta quella storia sui ritornati era decisamente troppo complicata da accettare. Io, che l'ho vissuta in prima persona, faccio ancora fatica a crederci.”
“Mi manca, Andrea. M... mi manca troppo. Come amica, come confidente... come tutto.”
Nethanienko la strinse in un abbraccio. Arianna lo lasciò fare, senza indugiare, senza opporsi. Quell'uomo dal look trasandato era diventato come un fratello maggiore, lo percepiva come tale. Era come se si conoscessero da sempre.
“Tu almeno hai potuto salutarla... un'ultima volta.”
L'uomo appoggiò la schiena al muro, scese fino a toccare terra. Arianna lo raggiunse e gli si sedette accanto.
“Sai, è stato difficile abituarmi al silenzio. Quella vocina nella mia testa, la voce che mi guidava, mi consolava, mi dava consigli... era mia sorella. Anche se l'ho ignorato quasi fino alla fine. Svanita lei, ha smesso di parlarmi. Un vuoto tremendo, un vuoto che, in qualche modo, ho dovuto colmare. È come essere abituato ad ascoltare la radio per venti ore al giorno e all'improvviso trovarsi senza la possibilità di sentirla.”
Arianna appoggiò la testa sulla sua spalla.
“Non è l'unica cosa a cui ti sei dovuto abituare. Cosa mi dici dell'occhio di vetro?”
“Scomodo, ma almeno non sembro più un pirata. Alla fine ho deciso di comprarlo, me lo hanno costruito a tempo di record. Sembro quasi una persona normale, ora.”
“Già, già, un novello tenente Colombo! Non so perché, ma in questo momento sto vedendo Cassie mentre alza il pollice in segno di approvazione. Sarebbe stata felicissima del tuo nuovo look.”
“Buffo, è la stessa cosa che stavo pensando. Così finalmente sei di nuovo simmetrico, Andrea, perché ci hai messo così tanto? direbbe. E credo sarebbe contenta di vederti conciata così.”
Arianna sospirò, accoccolandosi accanto a lui.
“Quella che sto vivendo è più una specie di... sbronza di vita. Sì, sono ebbra, un po' ciucca forse. Può darsi che quando la carica si sarà esaurita, tornerò ad essere l'Arianna di prima, timorosa, chiusa in se stessa, incapace di rompere la sua routine. Comunque, non rinnegherò nulla di questo periodo, poco ma sicuro.”
Un velo di malinconia nelle sue iridi bicolori.
“Sai? Temo che il super io non sia così facile da sopprimere. Prima o poi tornerà alla carica, ricordandomi chi sono e cosa devo fare. Però ci sarà una differenza, una differenza importante.”
Prese la mano di Nethanienko, si alzò, lui la seguì a ruota.
“Io sarò in grado di dire no, di oppormi, insomma. Qualunque siano le convenzioni.”
“Quindi, non tornerai ad essere una bambolina di gesso incapace di esprimersi liberamente solo perché non è consono al suo status sociale?”
Arianna abbozzò un sorriso.
“Non posso permettermelo. Devo vivere la mia vita. Non voglio più sprecare tempo con milioni di problemi inutili. Non voglio che l'ultimo regalo di Cassie vada sprecato.”
“A proposito di regali...”
Estrasse una busta bianca dalla tasca.
“Prima di venire qui per il sopralluogo, sono passato un attimo in commissariato per verificare che il letto del torrente fosse agibile. Quel maledetto nubifragio l'ha reso impraticabile per più di venti giorni, così ho preferito controllare.”
Incominciò ad aprirla, lentamente.
“Insomma, per farla breve, il giorno in cui è successo tutto il casino della catapecchia, mi è arrivata una lettera priva di mittente. L'avevo mandata ad analizzare – chi lo sa, magari conteneva del veleno – e, tra una cosa e l'altra, mi sono dimenticato di andarmela a riprendere. Oggi, Angelo mi ferma e mi dice abbiamo trovato questa sul banco della scientifica, penso sia la busta che le è arrivata il mese scorso. Non so perché nessuno gliel'abbia riportata ma...”
“E? Cosa c'era dentro?”
“Nessuna scritta, neppure un nome, solo tre oggetti.”
Inserì la mano all'interno.
“Ecco il primo. Un paio di occhiali riposanti per la lettura. Devo ammetterlo, ho pensato ad uno scherzo di cattivo gusto, ho anche imprecato.”
“Mio Dio...”
Arianna glieli strappò di mano.
“Questi sono... sì, diciamo che... oh, cavolo! Io li avevo regalati a... a...”
“Sul serio? Questo spiegherebbe molte cose. Ad ogni modo, ecco il secondo oggetto.”
Una carta, un asso di quadri rosso brillante su sfondo nero, decorato da serpenti intenti a mangiare una mela disegnata nell'angolo in alto a destra.
“No, non è possibile...”
“Curioso, eh? Aspetta, ora ti mostro l'ultimo.”
Un'immagine, una foto.
Il letto del torrente, asciutto, arido, illuminato dal sole, un sole silenzioso, caldo, onnipresente; pozzanghere umide, qua e là tra la polvere, riflessi di luce, riflessi del cielo.
Il ponte, cemento grigio, grigiastro, crepato, riscaldato da un dolce tepore primaverile.
Una cassettiera da farmacia arrugginita, piena di oggetti difettosi, un microcosmo di vita e curiosità, una vecchia amaca sfilacciata, assicurata ad un arbusto ed un chiodo sporgente, un comodino, un paio di mensole, libracci consunti, malandati, dai titoli illeggibili, intrisi di ricordi e conoscenza.
Una ragazza, in piedi, sorridente, in posa, fa l'occhiolino.
Capelli rossi, ribelli, mossi da un venticello dispettoso, occhi verdi, di un verde profondo, un verde in cui perdersi, scintillante, una corporatura esile fasciata in un giaccone con le maniche troppo lunghe, maniche che sbordavano, comprendo completamente le mani, un cappello a cilindro rattoppato, arlecchinesco, una carta da gioco fissata alla tesa.
E una scritta.
Ti sono mancata?
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Assi di legno marce, rischiarate dal pallore lunare, assi tarlate, vecchie, sconnesse. Resti di un parquet, di un pavimento, chiodi a vista, sporgenti, incurvati. Uno specchio, uno specchio rovinato, frammentato, la cornice sporca, annerita dalla fuliggine, dai resti cinerei di un'anima nera. Filamenti di tessuto bruciato, bottoni, una scarpa lucida, di pelle scura. Macchie rosse, di un rosso cupo, funebre, macchie vermiglie, ovunque, come ruggine sui vetri, sulle superfici.
Un'ombra, stampata sullo specchio, un riflesso immortale, una sagoma dipinta dall'esplosione di un essere non più vivente. Una rappresentazione di ciò che era stato un essere umano, una presenza immemore, nell'aria, nel buio, nella tenebra. Una mano ad accarezzarla, a delinearne i contorni, a sfiorarla con delicatezza. Una mano affusolata, dita non abituate a lavorare. Occhi azzurri, occhi di ghiaccio, riflessi sulla lastra lucida, accanto all'ombra. Capelli corvini, più neri dell'oscurità stessa. Labbra sottili in avvicinamento, come a baciare quella traccia, quel rimasuglio. Il viso si allontana, la ragazza si alza, l'ombrellino in mano. Fuori piove, piove ancora, proprio come allora.
Apre l'ombrellino, esce dalla stanza, si dirige verso l'uscio.
Si volta indietro, ancora una volta. Una lacrima sulla pelle di porcellana, scorre lungo le guance, lungo il collo, scende senza essere vista, raggiunge il terreno.
Pioggia dolorosa, incerta, l'incertezza di un momento, di un attimo.
Poi via, senza rimpianti.
Senza rimorsi.