Unreality (2015, incompleto)

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"Unreality", così come "Zener" è stato ispirato da un'immagine trovata su deviantArt (e ora non più disponibile), disegnata dall'artista Wataboku. Una ragazza in equilibrio sui cavi elettrici, con un ombrello aperto. Questa immagine, da sola, ha portato al concetto di "Unreality" - la storia di un'agenzia governativa con il compito di eliminare le deviazioni della matrice di realtà e tenere sotto controllo l'integrità strutturale del mondo. Il cast della storia comprendeva Juiro, un ragazzo capace di correggere gli errori nel tessuto della realt` ma incapace di riconoscersi allo specchio, e Noriko, una ragazza dalle gambe artificiali che lavora come supporto per Juiro. Una curiosità: il nome del capo dell'agenzia, Rayleigh Westfalen Charleston deriva dalla marca della mia prima bicicletta comprata in Germania. Charleston, la bicicletta, è andata incontro ad una morte prematura per colpa di un'auto che ha deciso di portarmela via. Riposa in pace, compagna di mille avventure in terra tedesca, il tuo nome non verrà dimenticato.


1.


Un passo. Un altro passo.

Suole leggere, di gomma consunta, scarpe da ginnastica da poco prezzo, di quelle che compri a dieci euro al mercato. Slacciate, per giunta.

Un passo. Un altro passo.

Il braccio destro sporge, mantiene l'equilibrio. Cadere da quassù potrebbe essere doloroso. Potrebbe. Non ne sono sicura, in verità. Non ho mai provato a lanciarmi da questa altezza. Non ne ho mai sentito il bisogno.

Un passo. Un altro passo.

Il mio corpo oscilla leggero, privo di preoccupazioni. Saluto con lo sguardo i colombi curiosi, i teneri pettirossi in volo. Mi osservano, certo. Sono preoccupati per me? No, non credo. Gli uccellini non hanno tempo di preoccuparsi, sono troppo impegnati a procacciarsi il cibo.

Sfioro lentamente il filo con la punta del piede. Una lenta vibrazione, moscia, molle. È come non avere peso.

Un passo, un altro passo. Con l'ombrello aperto.

L'ombrello arancione, uniforme. Nessun disegno stampato sopra. Solo tela, monocromatica. E le bolle. Le bolle di sapone che galleggiano nell'aria immobile, verso il cielo, verso l'azzurro infinito. Sfiorano il blu elettrico dei miei capelli, freschi di tinta. Sfiorano le mie dita, la mia camicetta bianca, la cravatta scura che sono costretta ad indossare quando vado a scuola. Quanto vorrei poter scegliere come vestirmi! E invece no! La società, questa società mi vincola, mi stringe tra le sue maglie, stritola il mio io. È per questo che mi sono tinta i capelli. È per questo che sono in equilibrio sul filo: voglio vedere il mondo da un'altra prospettiva, da più in alto.

Quanto?

Non abbastanza. Devo salire, salire ancora.

Ma come? Posso superare il traliccio dominarlo, raggiungerne la cima.

E dopo? Dopo cosa posso fare?

Ah, sì.

Come ho fatto a non pensarci prima?


**


Il guardrail vibra, crepe multiformi in perenne movimento, creste di pietra a squarciare la strada. Pozze di catrame, si generano ed assorbono, ad intervalli irregolari, il tempo s'infrange, lo spazio tentenna. Pinne frastagliate, cartelli stradali annodati, occhi come luci semaforiche.

Emergono, si tuffano, emergono ancora, saltando da una corsia all'altra, senza un preciso ordine. Le auto immobili, gli autisti attoniti, osservano con un misto di paura e curiosità. I bambini puntano il dito, ammirati, stupiti. Non comprendono il terrore, non capiscono il timore.

Semplicemente, gridano.

Gridano estasiati, urlano verso le creature.

In fondo, è comprensibile: non capita tutti i giorni di vedere due squali di asfalto nuotare tra gli scuolabus.


**


Punto i piedi, l'ombrello ben chiuso, le braccia conserte. Ora è il momento, questo è l'istante. Io voglio sfiorare le nuvole... e questo posto è troppo basso. Osservo ancora i passerotti, gli uccelli in cielo. Voglio raggiungervi. Devo raggiungervi. E non posso farlo camminando, no!

Quindi, resta solo la seconda opzione.

Serro le palpebre, un lungo respiro.

Il filo è finito, la strada interrotta.

Un passo, un altro passo.

Tasto il terreno. È solido? Sicuro?

Non lo so. Però sono qui. Ferma. E questo è abbastanza.

Mi stabilizzo, ascolto il battito del mio cuore.

Apro gli occhi, osservo i miei piedi, le stringhe attratte irresistibilmente dalla massa primordiale del nostro minuscolo pianeta. Ma io sono qui.

Immobile.

Perfetto.

Posso proseguire.


**


Luci rosse, gialle, verdi. Il colore varia col tempo, pupille assenti in schermi di plastica e plexiglas. Segnali di pericolo come pinne frontali, una strada sdrucciolevole a destra, un caduta massi a sinistra, il senso unico come vertice caudale. Lo squalo balza fuori dall'oceano artificiale, piroetta in aria per un istante, sprofonda nella strada. L'altro lo segue a ruota, mima i movimenti, alcuni istanti di ritardo.

Il tempo di puntare una preda.

Il tempo di accerchiare il bersaglio.


**


“Sembra che abbiamo dei problemi a Janjira.”

“Janjira...”

Il cappello calato sulla fronte, occhialini neri, perfettamente circolari. Capelli biondo cenere, ciocche sparse sul viso appuntito. Due sigarette elettroniche tra le labbra.

Uno sbuffo di vapore da quella di sinistra.

“Di che rango è la violazione, questa volta?”

“Meno quattro.”

Led blu e rossi, differenziano i diffusori di finto tabacco. Uno spesso velo di fumo acido ad appannare le lenti. Una risatina acuta, quasi da bambino.

“Okay. Chi abbiamo in zona?”


**


E il tempo non basta, no. Non basta all'automobilista per rendersi conto del pericolo. È in coda da ore, sente le urla, ma perché farci caso? Quel che conta è arrivare in orario al lavoro. Se il capo lo becca in ritardo, gli fa pelo e contropelo. Ignora i passanti, ignora i volti stralunati. Non ha intenzione di rivolgere la propria preziosa attenzione altrove, non ne vale la pena. Troppe distrazioni, troppi problemi. E la separazione dalla moglie? Già, deve passare dall'avvocato per le pratiche. Poi, subito al supermercato, che è lì vicino e il frigorifero piange. Qualche confezione di confettura, un surrogato di pomodoro e via di corsa. Già, perché il tempo, il tempo non basta mai.

Un istante ti cambia la vita, sì, specie quando ti resta solo un secondo.

Un secondo per ascoltare il rumore della lamiera contorta.

Un secondo per osservare da vicino i catarifrangenti affilati.

Un secondo per urlare come un ossesso.

Un secondo per essere inghiottito.


**


Un passo.

Un altro passo.

Mi libro tranquilla, l'ombrello spalancato.

Sfioro i doccioni del palazzo, segue le loro curve aspre e sottili.

Un passo.

Un altro passo.

La meta è vicina.


**


“Juiro? Qui è Beckett. Abbiamo un meno quattro in piena tangenziale.”

“Un meno quattro...”

Il pennello stretto tra le dita sottili, il cappuccio della felpa a trattenere una chioma scarlatta scarmigliata e appuntita. Un luccichio di smeraldo nel buio del vicolo.

Un sospiro gracchiato dal ricevitore, interferenze multiple.

“Sì. E anche piuttosto grave.”

Tono piatto, calmo. Emotività nascosta, trattenuta.

“Cos'ha di tanto grave?”

“Abbiamo dei morti.”

Un'espressione indecifrabile sul viso.

“Ah.”

Il collo ruotato, senza apparente motivo.

“E quale sarebbe il problema?”


**


Ed eccomi qui.

Infine.

In cima.

Osservo la città dall'alto, dalla sommità del grattacielo.

Sono qui.

Da sola.

Contemplo l'infinito.

Il caos urbano.

I tentacoli della metropoli, spire che ghermiscono ogni animo, ogni spirito libero, lo imprigionano, lo soffocano, lo schiacciano sotto il loro peso.

Ma non ha importanza.

Ora sono lontana.

Ora sono io a schiacciare loro.


**


Le auto squartate, un folla in fuga in preda al panico. Gli scuolabus ululano, le ruote aggrediscono il terreno, lo feriscono con vigore, vi si aggrappano con forza. Una manovra azzardata, devo salvare i bambini. Un proposito nobile, certo. Ma difficile da mettere in atto.

Specie gli squali strappano gli pneumatici.

E non lasciano scampo al motore.


**


Passi rapidi tra la gente, il pennello stretto tra l'indice e il medio. Non capisce, Juiro, ma esegue. L'esplosione non lo preoccupa, è lontano. E la carcassa del bus non vola, è troppo pesante. Magari chi c'è dentro se fatto male, magari è pure schiattato, ma Juiro non se ne cura. Non è qui per questo. Il pennello rotea come il bastone di una majorette, la mano destra fasciata, tenuta in disparte, il cappuccio a trattenere i capelli. Le carcasse delle macchine, il cadavere giallognolo dello scuolabus, i pescecani a spartirsi le prede sfigurate. Un quadro perfetto. Due calcoli a mente, rapidi, fulminei.

E tutto è chiaro.


**


Da oggi, comincia la mia nuova esistenza.

Da oggi, sono libera.

Non avrò rimpianti.

Non avrò timori.

Non avrò premure né aspettative.

Sarò solo me stessa.

Questo è tutto ciò che conta.


**


Il crine scatta, disegna cerchi, numeri, lettere nell'aria immobile, senza inchiostro, senza colore. Due gesti ben assestati, un segno preciso, nella posizione giusta.

La strada oscilla, i palazzi oscillano, il mondo oscilla.

Ma solo per un attimo.

E l'istante successivo, tutto è come prima.

Come prima che apparissero gli squali.


**


Strappo la manica con vigore, il tessuto si sfilaccia, la mia divisa protesta. Si lamenta perché ho rotto la simmetria, l'ordine. Ora, non sono più perfetta.

Sfilo il moncherino bianco, lo lancio al vento, lo ammiro cadere, come un fiocco di neve fuori stagione, una candida, inutile, vomitevole piuma di cigno.

E contemplo il silenzio, mentre i raggi d'argento della seconda Luna illuminano a notte il giorno.

2.


“... Corretto. E questo chi è?”

“Raleigh.”

“Perfetto.”

Una serie di foto tra le esili dita. Volti noti, ritratti con espressioni differenti. Smorfie divertite, occhiolini, serietà, malinconia. Una serie interminabile di visi da digerire con estrema calma.

“E questo?”

“Beckett.”

Un sorriso si fa strade tra le labbra sottili, sulla pelle diafana contornata da ciocche smeraldine.

“Ottimo! Finora li hai riconosciuti tutti!”

Juiro scuote il capo, seduto sul letto, la schiena perfettamente dritta.

“Me li mostri ogni giorno. E ogni giorno associo il nome corretto ad ogni foto. Non capisco il motivo di questo interrogatorio continuo.”

Iridi di zaffiro ricolme di speranza, i capelli scintillanti arricciati con noncuranza.

“Non è vero, e lo sai benissimo anche tu: ne sbagli sempre uno, l'ultimo. Finché non avrai riconosciuto anche quello, dovrai ripetere il test. Tutto qui.”

Un sospiro rassegnato.

“D'accordo, andiamo avanti.”


**


“Okay, che elementi abbiamo? Hai analizzato l'intervento di Juiro?”

L'operatore ruota sulla sedia, le mani strette dietro al capo. Capelli azzurri disordinati, cerotti sulle guance, sul naso, occhi di fiamma, persi nel vuoto. Cuffie appariscenti, una t-shirt bianca e blu stropicciata, pantaloni rappezzati, polsini vermigli di tessuto elastico, scarpe fluorescenti.

“Sì, capo. Ho lanciato una scansione completa sulla matrice di realtà prima e dopo la violazione. Sembra che sia stata tutta colpa di uno stupido scambio di ennuple.”

Beckett inspira profondamente, assorbe da entrambe le sigarette. Una nuvola dolciastra a colmare l'atmosfera stantia della sala di controllo.

“Quindi, vuoi dirmi che da qualche parte nell'oceano è comparso un paracarro?”

“No. È stata una modifica più... complessa. Non riesco a spiegarmi meglio, devo ancora controllare i dettagli fini e il bilancio energetico.”

“Allora fallo, Jaycee. Cosa aspetti, che te lo dica io? Forza!”


**


Spalanco gli occhi.

Sono a casa mia, nel letto.

Sdraiata.

Sopra le coperte.

Cosa succede?

L'ultimo ricordo... è così confuso.

Ero seduta, sì. Seduta su un... su un tetto?!

E osservavo il cielo.

Sì, sì, ne sono sicura. Ammiravo il cielo, il cielo ancora assopito della mattina.

E ho desiderato che divenisse sera, tutto ad un tratto.

Volevo saltare il giorno a piè pari, tornare a dormire un sonno ristoratore.

Le luci hanno perse vigore, le stelle sono comparse come se un misterioso burattinaio le avesse calate dall'alto agitando le corde.

Infine, è comparsa.

La seconda regina, la regina più bella.

Un'altra Luna, solo per me.

Solo per specchiarmi, per poter riflettere il mio volto.

Uno... uno strano ricordo, in effetti.

Sembra tutto così... vivo, così vero.

Però... perché sono ancora a letto? Perché sono già vestita per uscire?

Non capisco.

Forse ho solo bisogno di schiarirmi le idee.

Magari se accendo la TV, c'è qualche notizia.

E, magari, scopro che la mia fantasia è divenuta realtà.


**


“Chi è questa?”

Juiro afferra la sottile pellicola, la osserva con calma.

Una ragazza. Giovane. Occhi azzurri, capelli verdi, pelle color del latte. Abito grigio, corto, smanicato. Solo il busto, nell'immagine. Ma è sufficiente.

“Sei tu, Noriko.”

Un buffetto amichevole sulla guancia.

“Esatto! Non era così difficile, però!”

Juiro non reagisce, rimane impassibile. Noriko gli si siede accanto, estrae l'ultima immagine.

“Dai, devi solo dirmi chi è questo e poi è finita! Coraggio!”


**


“Uh-oh.”

Uh-oh cosa?”

“Gli squali non erano l'unica violazione. Se ne sono verificate due. Contemporaneamente.”

“Di che rango era la seconda?”

Jaycee fischietta ammirato, un incendio indomabile divampa nello sguardo assorto.

“Sai dirmi che ora è?”

“Cosa c'entra, adesso?”

“Ne ho bisogno per assegnare il grado.”

Un'occhiata distratta agli orologi sul polso sinistro, perfettamente sincronizzati.

“Le undici e quaranta.”

Jaycee inclina la testa, osserva il soffitto, le dita massaggiano il mento.

“Okay. Allora è meglio se chiami il corpo direttivo. Abbiamo un problema.”


**


Niente. Nessuna notizia degna di nota. L'andamento dei mercati, i problemi economici, alcuni casi giudiziari.

Nessun riferimento a fenomeni sovrannaturali.

Nessuna assurdità, solo banali fatti di cronaca.

Mi accoccolo sul letto, le braccia strette attorno al mio corpo, come per darmi forza.

Solo così mi rendo conto che c'è qualcosa che manca.


**


Il solito volto.

Sempre lo stesso.

L'unico che non riesce ad identificare.

Un perfetto sconosciuto, l'uomo silenzioso. Una figura che incontra da anni, in stanze e luoghi differenti. Non parla, si limita ad osservare e muoversi. Non risponde se interpellato, non inizia mai alcun discorso.

“Non lo so, Noriko. Non riesco a capire chi sia. Lo vedo spesso, ma non so nulla di lui.”

Un velo di tristezza sul viso della ragazza.

“Sforzati un po', ti prego! Non noti proprio nulla di strano? Niente? Zero?”

“Cosa dovrei notare?”

Noriko si accoccola in se stessa, uno sbuffo travestito da sbadiglio.

“Juiro, io...”

Lacrime amare, trattenute a fatica. L'orgoglio prende il sopravvento, la manica a ripulire il viso. Noriko salta in piedi, rinfrancata nello spirito.

Non posso arrendermi!

“Va bene. Riprenderemo domani, alla stessa ora.”

“Dobbiamo proprio?”

Un lampo azzurro ad incrociare l'espressione annoiata.

“Sì, dobbiamo proprio.”



**


Purtroppo, la seconda Luna non è sorta. La notte non è calata.

Ed è un peccato.

Per un attimo, ho seriamente pensato di aver modificato il mondo, di aver vinto la mia routine, sognando ad occhi aperti.

Per un attimo, ho creduto di essere in cima al grattacielo più alto, di poter volare con i gabbiani.

E i miei ricordi sfocano in immagini indistinte.

È stata solo una fantasia? Un'illusione?

Non lo so.

Non capisco.

Ma qualcosa deve essere accaduto.

Altrimenti, la mia divisa avrebbe ancora entrambe le maniche.


**


Noriko chiude sconsolata la porta alle sue spalle.

Un sospiro lungo un'era, lo sconforto palpabile, solidificato nelle pupille sottili.

“Perché insisti? Il referto dello psichiatra è piuttosto chiaro.”

Un uomo in piedi, di fronte a lei, vestito di scuro, il cappello calato sulla fronte.

Noriko solleva il viso, iridi piene di odio si infrangono sugli occhiali neri.

“Io non sono per niente d'accordo con la diagnosi. Secondo me...”

Una boccata di fumo esalata, il respiro mozzato da un colpo di tosse.

“Mia cara, è solo una perdita di tempo, tempo che potresti sfruttare in modo più intelligente...”

La mano destra sistema le lenti con un gesto automatico.

“... per esempio, per curare un po' di più il tuo aspetto. Vestita così, sembri un vocaloid.”

Un ringhio a squarciare la finezza del viso, un rigurgito d'ira trattenuto troppo a lungo.

“Almeno io ho la decenza di cambiare abito ogni tanto!”

Passi rapidi nel corridoio, senza una direzione precisa.

“Con permesso.”

Beckett osserva indifferente, porta le sigarette alla bocca. Una frase sottovoce, come per giustificarsi, senza che Noriko possa sentirlo.

“... non è colpa mia se ho venti copie dello stesso giaccone.”


**


Piove. Piove fuori dalla finestra.

E io sono qui, sola, a contemplare una camicetta monca.

Ero seduta lassù, tra i gargoyle del palazzo.

E ho strappato la manica con forza.

Subito dopo, mi sono ritrovata a terra, alla base del traliccio.

Al punto di partenza.

Un sogno forse.

Uno stupido sogno.

Forse è meglio uscire e fare due passi.

Almeno, potrò controllare se fuori piove davvero.

3.


I mattoni sporcati, imbrattati con foga. Pennellate rapide, la pittura si schianta addosso al rossore polveroso del muro. Movimenti nervosi, innaturali, vernice sparsa per metri quadri. Tumulto interiore, rabbia, collera. Un sentimento forte, potente. Energia allo stato puro.

Juiro si ferma, si ferma per rifiatare.

Il cappuccio grigio calato, i capelli liberi, gli occhi attraversati da un dolore lancinante.

“Perché?”

Il pennello rotea tra l'indice e il medio, affonda nel barattolo, si spiaccica sulla superficie ruvida. Disegna, Juiro. Disegna per sfogarsi.

“Perché?!”

Figure prive di volto, rivoli di vernice stagnante.

Un palazzo di periferia, divorato dall'edera.

Il luogo ideale per i suoi graffiti.


**


“Dov'è finito Juiro?”

Lampade al neon azzurre riflesse sugli abiti, passo lento, insicuro nel corridoio. Noriko incede, metro dopo metro, le calzature nere inclinate, tremiti ad ogni movimento.

Vestito corto, grigio metallizzato, calze di pece lunghe sin sopra il ginocchio, gonna dello stesso colore. Non è una divisa, non è adatta al lavoro. Ma a Noriko non importa.

Un fischio d'ammirazione, Jaycee in avvicinamento, il sacchetto di popcorn tra le mani.

“Penso sia uscito, Norichan.”

Sgranocchio confuso, l'indice ad appiattire i cerotti sulle guance.

Noriko punta i piedi, l'esplosione azzurra nelle iridi.

“Cosa? Chi gli ha dato l'autorizzazione?!”

Le spalle scrollate con calma, Jaycee estrae altri popcorn.

“Raleigh, forse. Sai, dopo ogni intervento, Juiro ha diritto di...”

“Non mi interessa...”

Un frammento di tessuto bianco racchiuso tra i palmi, brandelli di una camicetta da poco prezzo.

“Devo trovarlo.”


**


Perché?

Perché devo agire così?

Io dovrei costruire, non disfare.

Io dovrei creare, non distruggere.

Quegli squali, quelle creature d'asfalto, erano un dono. Erano un miracolo della vita, la materia inanimata che genera spontaneamente creature senzienti!

Che diritto avevo di annullarne l'esistenza?

No, non ha senso.

Ogni volta, ogni santa volta, il mio unico compito è quello di eliminare le irregolarità.

È per questo che sono qui, ora.

È per questo che sto dipingendo.

Per non dimenticare ciò che è morto prima ancora di iniziare a vivere.


**


“... come sarebbe a dire non sono andata alla svendita?”

“Non mi interessano i saldi.”

Le gocce sono reali, minuscoli agglomerati d'acqua pura, in caduta libera. Posso sentirle sulla pelle, ascoltare il loro rimbalzo sulle stecche dell'ombrello, sulla tela ben tesa. Vorrei capirle, comprenderle, ascoltare la loro voce.

Peccato che Riselle abbia altri piani per me.

“Va bene, come preferisci. È impossibile parlare di shopping con te. Che ragazza sei, se non ti piace girare per negozi?”

“Una ragazza normale, forse?”

Riselel abbozza un sorriso divertito. Sa che siamo diverse. Sa che non abbiamo nulla in comune. Credo sia proprio per questo che siamo amiche: riusciamo a giudicarci oggettivamente a vicenda, nel modo più sincero possibile, senza falsità o ipocrisie.

Un passo.

Un altro passo.

Sono a terra, purtroppo. Non in equilibrio su un cavo dell'alta tensione.

“Perché ci siamo allontanate così tanto dal centro?”

Già, perché?

Non lo so con precisione, è come se stessi rispondendo ad un bisogno del mio animo. Questa è la zona dei graffitari, il loro paradiso personale. Palazzi in rovina nella periferia degradata, centinaia di metri quadri di pareti diroccate da dipingere. Ultimamente, vengo spesso qui.

“Voglio vedere se ci sono nuove figure.”

Non lo ammetterò mai, ma questo tipo di pittura mi affascina. E c'è un artista che sembra leggermi dentro. Ogni volta che ammiro una sua opera, la mia essenza scintilla, come se risuonasse con i suoi disegni.

Non l'ho mai incontrato, ma forse è meglio così.

Potrebbe essere troppo diverso da come lo immagino.


**


Gli squali tracciati con precisione maniacale, la granularità dell'asfalto, le crepe, i segnali stradali, le luci semaforiche. Tutto riprodotto nei minimi dettagli, la pittura ancora fresca. Juiro osserva il risultato, malinconico. Non riesce a provare soddisfazione, solo pena, solo pietà per quelle creature mai nate a causa delle sue correzioni.

Non ho finito. Non. Ancora.

Una vampata di energia fredda, la mente rielabora gli eventi della mattina. I denti digrignati, una sorta di risata malata stampata sul viso.

Chissà quando se ne accorgeranno...

Il pennello rotea, sfiora la latta del barattolo. La punta immersa nella vernice blu, blu elettrico, un urlo animalesco. I crini sfiorano i mattoni, macchiano la superficie, la annegano nel colore dell'oceano.

Juiro ansima, respira a fatica, raccoglie le forze, risveglia la calma, la pace interiore.

Non può lasciarsi andare.

Non prima di aver terminato il dipinto.


**


Passi lenti, incostanti, trascinati, andatura claudicante. Noriko si fa largo tra i corridoi, stringe la balaustra, misura ogni centimetro. Un incedere insicuro, ostacolato dal suo stesso corpo.

Mi dispiace, non ho idea di dove si trovi.

Aspetta un attimo che controllo...

L'utilità di Jaycee era stata pressoché nulla, prossima allo zero assoluto. L'unica informazione decente annegata in un mare di stupidaggini e nel tanfo di popcorn andati a male.

Juiro era in periferia.

Ed era da solo.

Un po' più lontano no, eh?

Un passo, un altro passo. Perdita di equilibrio, controllo, ritorno alla normalità. Articolazioni stanche, muscoli in rotta di collisione col pavimento, energia insufficiente per proseguire.

Noriko crolla in ginocchio, si rialza, cade nuovamente, i palmi delle mani a tastare il terreno ruvido. Un drappo bianco stretto tra le dita in uno sforzo sovrumano.

“Stupide... gambe.”

La mano sinistra afferra il corrimano, tira con forza, il corpo guadagna posizione eretta.

Ma è solo l'illusione di un istante.


**


“Ehi! Guarda! La ragazza in quel murales sembri tu!”

Mi volto di scatto seguendo le parole di Riselle, ruoto su me stessa di centottanta gradi.

Il primo dettaglio a colpirmi sono gli squali. Squali d'asfalto che nuotano tra le automobili in coda. Poi, sollevo lo sguardo. E non riesco a trattenere un sussulto.

Vedo un traliccio, un traliccio elettrico. E i cavi, cavi spessi. E una giovane dai capelli blu, vestita della sua candida divisa scolastica. Indossa una cravatta, calza scarpe slacciate. In mano, un ombrello, il braccio teso per mantenere l'equilibrio.

“Non è possibile...”

Corro a perdifiato verso l'immagine, verso la parete ruvida di mattoni rossicci annegati nella vernice. Sfioro la superficie, le dita inzaccherate, la pittura ancora fresca.

Il mio sogno. La mia fantasia. La Luna – la seconda Luna – svetta oltre i palazzi, sorge nel timido chiarore della mattina, mentre cala la notte.

Allora... non era solo un'illusione? Qualcuno ha visto, ha registrato nella sua memoria.

Lascio cadere l'ombrello, incurante della pioggia. Guardo a destra, a sinistra, cerco di identificare l'autore. Dev'essere ancora qui. Devo trovarlo!

Una figura incappucciata, in lontananza. Cento, duecento metri più in là.

“Ehi! Tutto a posto? Guarda che...”

“Ci vediamo dopo, Rise! Non ho tempo per spiegarti!”

Corro a perdifiato, lascio indietro la mia amica.

Corro, corro come se non esistesse un domani.

Ora posso sapere.

Ora posso capire.


**


Un lungo sospiro, lacrime amare. Noriko è seduta per terra, le gambe incrociate. Non può rialzarsi. Non in quello stato.

“Aspetterò... aspetterò che ritorni. Non ho alternative.”

Il drappo bianco stropicciato, stretto tra le dita diafane. Un frammento di tessuto, qualcosa che non dovrebbe esistere.

“Juiro...”

Un flebile lamento, prima di accovacciarsi, di raggomitolarsi in posizione fetale.

Il modo migliore per recuperare energia.


**


Movimenti lenti, le suole incedono sul terriccio umido.


(Non) fine