Zener ○+☆≋□ (2016, incompleto)

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"Zener" è poco più di un concetto, ispirato dal tuffo nel paranormale di 999: Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors e da un'illustrazione di un angelo meccanico che ho trovato una volta su deviantArt (che per qualche motivo ora sembra essere disponibile solo su zerochan). Se non ricordo male, l'idea di base era che un CEO con una malattia grave avesse bisogno di trovare un vero psichico per curarla. Lilith, un "angelo", è una ragazza che lavora come prostituta e ha delle ali artificiali innestate sulla schiena. A sua insaputa, Lilith è una psichica e diventa il bersaglio di Stan Sebastian (il nome è sia un gioco di parole sull'attore Sebastian Stan, sia un'assonanza con la canzone dei Sonata Arctica San Sebastian), lacché del suddetto CEO. Purtroppo, non resta molto più di questo, ma l'immagine di Lilith e del mondo crudele in cui vive era troppo potente per non pubblicare questo minuscolo estratto di una storia mai neppure veramente iniziata.




1. Taxi driver


“Che cosa vedi?”

“Non so. Che cosa dovrei vedere?”

“Sono io che faccio le domande. Concentrati e rispondimi, per favore.”

“Poi mi paghi il conto del taxi?”

“Come promesso.”

La ragazza annuì con un cenno del capo, i capelli rossi arricciati attorno alle orecchie sporgenti.

“D'accordo.”

Le dita premute contro la fronte, le palpebre serrate.

“Sento qualcosa.”

“Cosa?”

“Uno scroscio. La risacca. Gabbiani. Non è chiaro. Solo una sensazione. Confusa.”

“Riassumila in una parola.”

“Onde.”

L'uomo massaggiò il mento irsuto, la barba appena accennata. Il pollice destro a premere su uno schermo, un'immagine visualizzata sul tablet.

“Va bene. Un'ultima domanda.”

“Ehi, hai detto così anche cinque minuti fa!”

“Vuoi che ti paghi la corsa? Vedi di guadagnartela.”

La ragazza sbuffò, le braccia protese in un gesto di stizza.

“Brutto...”

“Potevo lasciarti in strada a marcire.”

Il fumo denso di una sigaretta, lo sguardo attento dell'uomo. Occhi piccoli, pupille sottili affogate in una palude malsana ad incrociare iridi bizzose, multicolori. Artificiali.

“Questa è davvero l'ultima, okay? Non una di più.”

“Hai la mia parola.”

Le dita scorsero sullo schermo, allontanarono la figura precedente, senza mostrarla.

“Concentrati e dimmi cosa senti.”

Le palpebre serrate, ancora una volta.

“Il cielo notturno. Nuvole. Nero. Un solo punto luminoso.”

“In una parola?”

“Stella.”

Un tocco leggero, il tablet si illumina.

“Va bene. Basta così.”

Un passo, un altro passo, in direzione dell'autista.

“Eccoti cento sacchi. Porta la ragazza ovunque voglia. Dalle indietro il resto. Se la grana finisce prima, piantala lì.”

Il tassista sollevò il pollice, senza dire una parola. L'uomo abbozzò un tentativo di sorriso.

“La carrozza è pronta, Cenerentola.”

La ragazza rimase immobile, le mani strette attorno al tessuto pesante, al cappotto donatole solo qualche minuto prima.

“Davvero posso tenere la giacca?”

Nessuna risposta, la sigaretta gettata a terra, spenta con il tacco della scarpa. Un gesto eloquente della mano destra. Il fragile corpo della giovane si esibì in un inchino scomposto.

“... grazie.”

La ragazza aprì la porta della vettura, si accomodò sul sedile posteriore.

“... non credo che potrò mai ricambiare...”

“Non ce n'è bisogno.”

Il rombo del motore a scoppio, il taxi giallo procede sbuffando, una coltre di smog dal tubo di scappamento. Poi via, verso la notte, ingoiato dalle tenebre.

“... ho già tutto quello che mi serve.”

Un icona verde lampeggiante sullo schermo, una percentuale. Una risata divertita. La mano raggiunge la tasca, estrae un cellulare. Movimento rapido, il numero composto, il tasto d'avvio premuto.

“Pronto? Sì, sono io. Non ci crederai mai: novantadue per cento.”

Voci concitate, alto volume. Calma innaturale dall'altro lato del ricevitore.

“Va bene, va bene, ti do un indizio. Ha le ali, ma non vola. Capito a cosa mi riferisco?

Il pollice ad inserire il vivavoce, le orecchie tese ad ascoltare.

... un angelo?!”

Un sorriso disteso si aprì sul volto dell'uomo.

Un angelo dai capelli rossi.”


Zener cards


2.The One Star


“Eccoci arrivati. Fanno sessantasette e mezzo.”

“Il resto?”

L'autista allungò la mano, porgendo tre banconote giallastre e qualche moneta. La ragazza le afferrò con uno strappo deciso, riponendole al sicuro tra le sue dita. L'autista la osservò con un misto di pietà e sdegno, poi si calò una coppola sugli occhi, sdraiandosi comodamente sul sedile.

“Buona serata, signorina. Se vuole, la prossima volta che passo di qui le porto gli avanzi della cena. Da quando mi è morto il cane, devo buttarli sempre via.”

“Non ne ho bisogno, grazie.”

La porta sbattuta, il rumore della chiusura automatica, la rabbia repressa sul nascere. Il tassista angolò leggermente le labbra, producendosi in un sorrisetto di scherno.

“Non ha bisogno nemmeno di orgoglio, eh? Ne è fin troppo piena.”

La ragazza si strinse nel giaccone beige, distolse lo sguardo dall'uomo alla guida.

“Buona notte.”

“Notte, signorina. Magari ci si rivede. Magari, la prossima volta mi paga direttamente lei. E sa cosa intendo.”

“Non ci sarà una prossima volta.”

L'autista sollevò leggermente il berretto.

“Come fa ad esserne così sicura?”

“Non lo sono, infatti.”

Una rapida rotazione su se stessa, passi pesanti verso il portone, senza fiatare. Un tuono in lontananza, la danza delle prime gocce di pioggia. Il tassista inserì la sicura, chiuse gli occhi per assaporare ogni istante di quella sinfonia naturale. Gli avrebbe conciliato quei pochi minuti di sonno che lo separavano dalla prossima chiamata.


**


Un trillo acuto, ripetuto.

Il citofono.

Amaranthe staccò gli occhi dal televisore, si stiracchiò per un istante. Le tre e ventisei.

“Dev'essere lei.”

Infilò le ciabatte, si alzò svogliatamente dal divano, raggiunse la parete, sollevò la cornetta.

“Ti sembra l'ora di tornare?”

“Ho avuto un contrattempo.”

“Sì, questo l'avevo capito. Sali su, forza.”

Amaranthe riagganciò, premette un pulsante sul dispositivo, aprì la serratura. Uno sbadiglio, la noia dell'attesa. Un'attesa breve.

“Amy?”

Una figura minuta attraversò la soglia, un lungo cappotto a fasciarne il corpo infreddolito, lo sguardo basso. Amaranthe la abbracciò forte, la strinse al petto per trasmetterle un po' di calore.

“Dove sei stata finora? Non sai quanto sono rimasta in pena per te!”

“Scusa.”

“Stai tremando dal freddo! E il tuo vestito...”

Le dita sfiorarono la pelle pallida, si spostarono sotto il giaccone senza incontrare alcuna resistenza.

“Oddio, che ti hanno fatto, Lily? Ti hanno gettato in strada nuda?”

“Cliente scontento. Avevo le tette troppo piccole per lui.”

“Schifoso pervertito!”

“Come tutti quelli che mi pagano.”

Amaranthe strinse ancora di più la presa, accarezzò la chioma ramata di Lily.

“Un po' di riposo e passa tutto.”

“Come al solito?”

“Come al solito.”

Amaranthe la trascinò in direzione del divano, invitandola a sdraiarsi.

“Come si chiamava, il porco?”

“Miles Meyer. È uno coi soldi. Abita nel distretto tre.”

Il cappotto scivolò giù dalle spalle, raggiungendo sulla moquette con un tonfo. Lily si lasciò cadere in avanti a peso morto, sprofondando col viso nel cuscino. Amaranthe si sedette sul bracciolo del divano, fissandola con i suoi occhi azzurro ghiaccio. Allungò la mano fino a raccogliere il pesante indumento, ne tastò la consistenza con curiosità. Portò il tessuto alle narici, fino ad avvertire l'odore pungente del tabacco sintetico.

“Chi ti ha dato questo?”

“... un passante...”

Lily chiuse gli occhi, la voce ridotta ad un sussurro.

“... mi ha pagato il taxi... senza chiedere niente in cambio...”

Amaranthe intrecciò i lunghi capelli biondi, senza distogliere lo sguardo.

“Una persona gentile, eh? Allora esistono ancora.”

“... un angelo...”

Le parole di Lily si trasformarono in una litania biascicata, sempre più vicina ad un lamento indistinto.

“... un angelo vero...”

Amaranthe le accarezzò la schiena, fino sotto le scapole, poi risalì, su per gli inserti di metallo. Fino alla punta delle ali.

“Non preoccuparti, Lily...”

Un soffio d'ira nella voce, gli occhi iniettati di sangue.

“Quel bastardo avrà ciò che si merita.”


3. 92%


“L'agenda di oggi?”

Un cenno del capo in risposta, gesti silenziosi e aggraziati, un foglio stampato consegnato con tranquillità.

“Grazie, Vallantin.”

Vallantin abbozzò un inchino, senza aprire bocca. Un ragazzo alto, dalla corporatura slanciata, i lineamenti estremamente delicati. La lunga coda bionda ricadeva con eleganza sul completo blu scuro, evidenziando un fascino quasi femminile. Miles Meyer lo osservò con la consueta curiosità, tentando di indovinare cosa si nascondesse dietro quelle iridi glaciali.

Invano.

Le dita scorsero lungo la lista di appuntamenti, sino ad evidenziare un nome.

Stan Sebastian.

Meyer distolse lo sguardo dal foglio, fissò nuovamente il suo segretario.

“Quando arriva il signor Sebastian, fallo entrare immediatamente.”

“Non ce n'è bisogno, Miley. Sono già qui.”

Vallantin ruotò su se stesso, tentando di inquadrare il nuovo arrivato. Voce roca, da fumatore incallito, viso affilato, spalle da pugile, capelli castani mossi, occhi verde palude. Giacca rattoppata e jeans neri a completare il quadro.

“Accomodati, Stan. Vallantin, puoi congedarti. Se qualcuna delle persone sulla lista arriva in ufficio, lasciale in attesa fino a nuovo ordine. Non entrare o interrompermi per alcun motivo, okay?”

Vallantin si esibì in una riverenza, prima di scomparire aldilà dell'uscio.

Stan ne ammirò la figura ancora per qualche istante, poi la porta si richiuse, sigillandolo all'interno.

“Il tuo sguattero spende lo stipendio dall'estetista?”

“Cosa ne fa dei soldi che gli do, non sono affari miei. A me basta che svolga bene i suoi compiti...”

Un lampo d'ira nelle iridi violacee.

“... e questo vale anche per te.”

Stan incrociò le mani dietro la nuca.

“Rilassati, Miley. Ho una pista.”

“Novantadue per cento, lo so. Qualche possibilità di manipolazione?”

“Direi zero. Ho preso tutte le precauzioni possibili. Non le ho neanche dato una lista dei simboli.”

“Stai scherzando, vero?”

“No, per niente. Inoltre, ho attivato lo schermo solo dopo aver ricevuto la risposta. Possiamo escludere completamente un sensory leakage.

Meyer intrecciò le dita poco sotto il mento.

“Interessante. Sapresti rintracciarla?”

“Non so il suo nome, né dove viva, ma non sarà difficile.”

“Uh?”

“Voglio dire, è un angelo. Se non cambia zona spesso, magari la ritrovo già domani sera. Mi fingo un cliente ed è fatta. Se invece accetta solo prenotazioni e ingaggi privati, potrebbe essere più complicato. Ma non tanto. Conosco il suo aspetto, mi basta fare due domande per ritrovarla.”

“Non sarà necessario. Segnalo come soggetto interessante, ma procedi con la ricerca. Non me ne faccio nulla di una sola ragazz...”

Meyer sgranò gli occhi, le pupille dilatate. Contrasse i denti per un istante, un ringhio gutturale emerso dalle profondità della gola.

“Ehi, tutto a posto?”

“S... sì. Solo un malore passeggero. P... puoi andare, ora.”

Stan lo fissò perplesso, scrollò le spalle, si alzò in piedi.

“D'accordo. Ti farò sapere se ci sono novità.”

Meyer mosse la mano destra di scatto, invitandolo ad affrettarsi. Stan accelerò il passo, lasciò l'ufficio, afferrò la maniglia.

“Riguardati, mi raccomando. Se ti senti male, puoi sempre chiamare il centododici.”

Chiuse la porta con un colpo secco, lasciando Meyer da solo all'interno.


**


Lilith aprì gli occhi.

Era sdraiata su un divano morbido, la testa adagiata su un cuscino imbottito. Ruotò leggermente il capo, cercando di vincere il torpore. Nessun movimento, nessun rumore. Solo il ronzio costante, ripetuto delle ventole di aerazione.

Amaranthe era già uscita.

Spostò lo sguardo sulla radiosveglia.

Le tre e ventisei. Di pomeriggio.

“... ho dormito per dodici ore...?”

Si mise a sedere, stiracchiandosi e allungando uno alla volta tutti i muscoli. Inforcò un paio di ciabatte, lasciò il suo giaciglio improvvisato, si diresse in camera da letto. Le lenzuola disfatte, l'armadio socchiuso. Un post-it appiccicato sul truciolare laccato.

Sono da mio fratello. Ci vediamo a cena.

Lilith spalancò le ante, estrasse un abito corto con motivi floreali.

“Questo dovrebbe andare.”

Si mise in posa di fronte allo specchio, lasciando aderire il tessuto alla pelle. Sussultò alla vista delle proprie ali. Erano rimaste attive tutta la notte.

Abbassò lo sguardo, schifata.

Le strutture di titanio cavo si ripiegarono dietro la schiena, scomparendo alla vista.

Trovò il coraggio di sollevare nuovamente il capo, di guardare negli occhi il proprio riflesso.

“Così va meglio.”

Indossò il vestito in fretta, tornò all'armadio, prese un paio di slip e delle calze pulite. Afferrò una mantellina dal ripiano superiore, la sistemò con cura in modo da coprire completamente i supporti artificiali.

Osservò ancora una volta lo specchio. Una ragazza di diciotto, diciannove anni dal volto pulito e sorridente, i capelli di fuoco e le iridi ambrate. Il ritratto perfetto della normalità.

Nessuno avrebbe mai potuto indovinare quale fosse il suo lavoro.

Trotterellò fino al cucinino, ansiosa di mettere qualcosa sotto i denti. La tavola era già apparecchiata e ricoperta di piccole scodelle etichettate con precisione maniacale. Ogni etichetta conteneva una serie di punti di domanda e faccine sorridenti.

Lilith accarezzò uno dei contenitori di plastica, si concentrò per un istante, percepì il vero contenuto del messaggio.

Pollo ai germogli di soya – cinque minuti al microonde.

“Oh, Amy...”

Aprì il fornetto, impostò il timer e rimase in attesa.

(Non) fine