Distortionverse - Leviatano (2014, incompleto)

"Leviatano" (titolo finale mai deciso) è stato un tentativo di dare un proseguimento alle vicende di "Rosenmaester" e de "La Notte che Cammina". Questo abbozzo di storia mostra un Baal in comunione con la notte in modo atroce, capace di piegarla alla sua volontà, di comandarla, farle divorare persone innocenti. Allo stesso tempo, troviamo Vortag Schlieber e ONE, i villain protagonisti di "Rosenmaester" e il primo abbozzo di quello che nelle storie successive verranno chiamati "unblossomed" (infioriti). EiN avrebbe un ruolo centrale nella storia, se fosse continuata. Leggere il nome di Virkill Thomson alla fine (un altro relitto di "Neonlight"), mi ha strappato un sorriso. Bene o male, "Neonlight" ha continuato a vivere nella mia mente, aspettando il momento di fiorire. Cosa che per fortuna è successa, almeno in parte, in "Tales from Jackson's - No Good Deed" e "Tales from Crossbones - The Problem with Encorp". "Leviatano" non ha alcun fascino residuo per me, eccetto per la scena in cui la Notte divora i passeggeri del treno. Ho deciso di caricare questa storia solo per darvi una finestra sulla mia mente nel fu 2014, quando stavo ancora cercando una nuova direzione per Distortionverse, prima di trasferirmi in Germania.
2063 – Gunkragen, Concordato
1. Notturno
Una saetta oscura nelle tenebre, folle, inarrestabile. Luci al neon scintillanti, lungo tutta la fiancata, un metro di distanza tra le lampade ma la velocità annulla la percezione. Bagliori azzurrastri continui, un'unica banda senza fine a ravvivare le tinte cupe della notte. Uno spettacolo psichedelico di bagliori freddi.
E il rumore.
Un rombo assordante, dannatamente apocalittico. Ferro su ferro, ruote lucide, prive di copertoni.
D'altronde, che bisogno può averne un treno?
Scosse la testa.
Il momento adatto alle domande era già passato da un pezzo, ora aveva altre preoccupazioni, leggermente più urgenti. Per esempio, sopravvivere.
Un'ampia curva attorno ad un lago, le rotaie sferragliano al passaggio del leviatano, urlano dal dolore, si disperano per quel fugace, insopportabile contatto. Le barre si piegano sotto il peso del mostro, stridono in agonia, si scaldano fin quasi a fondersi, a trascinare il verme nell'abisso, precipitandolo nel vuoto. Una serpe nera abbarbicata ai binari, a due sottili guide di metallo che limitano le sue scelte, lo costringono a proseguire dritto, annullano la sua volontà.
Redini che domano la belva, la rendono docile.
Non che ora me ne importi qualcosa, comunque.
A che velocità stava correndo? Duecento chilometri all'ora?
Questo, invece, non è un dettaglio trascurabile.
Si concentrò sui pannelli distanziometrici, cento metri l'uno dall'altro. Eccone uno. Ora un secondo. Un terzo. Un quarto.
Quattrocento metri, dunque. Ma in quanto tempo?
Sei secondi circa. Nel migliore dei casi, siamo a cinquantasette metri al secondo. Nel peggiore dei casi, sessantasei, vale a dire duecentoquaranta chilometri all'ora
Duecentoquaranta chilometri all'ora. Un brivido gelido risalì lungo la schiena. No, non era la velocità ideale per viaggiare sul tetto. Decisamente no. Rimase appeso alla scaletta del vagone, nella commessura tra due segmenti della scolopendra d'acciaio.
Duecentoquaranta chilometri all'ora. L'impatto con l'aria lo avrebbe ribaltato, lanciandolo direttamente nel lago, qualche miglio più in basso. Un lago da cui non sarebbe mai riemerso.
No, dev'esserci un'alternativa.
Tempo. Tutta questione di tempo. Due minuti per rendersi conto della situazione. Un minuto per alzarsi dal proprio posto e raggiungere il punto di aggancio tra due carrozze. Trenta secondi per decidere di uscire dalla botola di emergenza. Quindici secondi per sigillarla dopo il suo passaggio. Meno di otto secondi per capire di aver fatto una cazzata.
Dovevo pur agire in qualche modo.
Gli agenti l'avrebbero presa, se non si fosse mosso, se non avesse estratto l'arma, se non avesse piantato un calibro nove in fronte al controllore.
“Cosa è successo? Perché ti sei fermato?”
“Se vado su, volo via. E senza bisogno di ali.”
Si grattò i capelli con poca convinzione. Alcune ciocche bianche minavano l'integrità di un nero corvino piuttosto folto e scarmigliato.
Quanto posso resistere, sul tetto? Cinque, dieci secondi. Al massimo, eh? Dunque?
Urla alle sue spalle, distinte. Toni di voci irati, carichi di risentimento. Forse erano amici del controllore. Forse.
“Abbiamo visite, uh?”
Uomini in divisa, affacciati al lunotto della botola. Sguardi nascosti da occhiali di protezione, quelli con il vetro piombato che resistono alle schegge delle granate.
Inutili. Io non miro agli occhi. Sono un bersaglio orribile.
La ragazza si aggrappa al suo braccio, lo stringe con tutte le sue forze residue.
“Non lasciarmi qui, ti prego...”
Annuisce digrignando i denti appuntiti, un perfetto sorriso da squalo bianco.
Gli uomini in nero premono, il calcio del fucile si infrange contro i cardini, invano. E la FrecciaNera non si ferma, continua a correre, a duecentoquaranta all'ora. Insulti e improperi, al di là del varco.
Le dita accarezzano le sottili paratie lucide, color ossidiana. Treni costruiti per durare, tecnologia tedesca. Un convoglio ad alta velocità che fa la spola tra il Benelance e il Concordato in meno di sei ore. Un gioiellino, dalla prima all'ultima vite.
Peccato non potersi godere il viaggio.
Cinque, dieci secondi al massimo. Se miro bene, posso farcela.
Una bugia, una orribile bugia. Solo nei film americani l'eroe riesce a restare in piedi sul tetto di un treno in corsa e centrare un bersaglio microscopico – il tutto senza perdere l'equilibrio.
No, impossibile. Chi voglio ingannare?
Ripassò mentalmente la scena.
Nascondo la ragazza nei pressi della porta, salgo i pioli, uno dopo l'altro, eccomi in cima al vagone. Mi isso in piedi, controvento, pronto ad essere sbalzato via, alzo il braccio, miro al traliccio elettrico, lo faccio saltare in aria, salto giù dalla scaletta mentre il treno comincia a deragliare, afferro la mano della ragazza, mi butto sul prato che costeggia il lago. Fine.
Un bel progettino, sulla carta. Solo sulla carta.
Ma perché non provarci lo stesso?
“Mani in alto, bastardo!”
Rumore di metallo accartocciato, il fucile sfonda la paratia. Un sospiro. Anche i metalli tedeschi hanno un limite di sopportazione.
Soldati schierati, un plotone di esecuzione.
“Non ricordavo che la polizia ferroviaria fosse dotata di armi da guerra.”
Una canna puntata al volto, fucile semiautomatico. Un meccanismo molto sensibile, forse anche troppo. Se una mosca sfiora il grilletto, partono venti proiettili, così, in un secondo.
Un sorriso strafottente stampato sul volto, denti aguzzi in fila per l'ispezione.
“Guarda che il biglietto ce l'ho. Vuoi vederlo?”
“Certo, come no? E la ragazza è venuta con te di sua spontanea volontà.”
“Che tu ci creda o no, è così.”
Un segno con la mano, preciso. Due uomini lo raggiungono attraverso il portellone, si piazzano ai lati per prevenire ogni via di fuga.
“Lasciala andare. Immediatamente.”
Scrolla le spalle, uno sguardo assente incrocia il vuoto, lo ferisce, lo umilia. Ed è un attimo. Afferra il braccio della giovane, la lancia contro la guardia armata.
“Ma cosa...?”
I militari la fermano, uno dei tre le blocca i polsi, li stringe fino alla soglia del dolore. Un altro le scannerizza le iridi.
“Identità confermata. È lei.”
Il comandante annuì soddisfatto. Un compito facile facile. Nessuna resistenza.
“Lo credevo più tosto, questo, dopo tutta la scena che ha fatto...”
Il tempo di voltarsi, di rendersi conto dell'enorme errore di valutazione. Ed eccolo, quasi sulla cima del vagone, abbarbicato ai pioli di metallo.
“Ehi! Cosa vuoi fare? Torna subito qui!”
Eccola, l'alternativa.
Il fucile spianato, a livello del soffitto, senza bisogno di sfidare le leggi della fisica. Proiettili esplosivi Sachson 78 da tredici millimetri.
“Semplice, comandante. Sto per sparare ad un traliccio dell'alta tensione, uno di quelli che alimenta questo treno. Una volta fatto saltare in aria, crollerà verso il lago, ci sarà un brusco calo di tensione sulla linea e il treno inizierà a rallentare.”
Una risata sguaiata, genuina, divertita.
“I treni del Concordato sono provvisti di un alimentatore di emergenza. I FrecciaNera, poi, hanno un'autonomia di venti ore, sganciati dalla rete elettrica. Sarebbe completamente inutile.”
Grida, il comandante, per coprire il rumore dell'acciaio, il lamento delle rotaie. Si abbassa la mascherina, alza gli occhiali protettivi.
“Avrei potuto stare zitto e godermi lo spettacolo, ma sai com'è... rimettere in piedi quel traliccio costerebbe parecchio.”
“Grazie dell'avvertimento.”
Un solo colpo, preciso, il carrello scorre all'indietro, libera il bossolo. Ed ecco la deflagrazione.
Bagliori elettrificati, frammenti di metallo e lamiera in volo, schegge impazzite. Il traliccio si piega su se stesso, crolla sulla sua stessa struttura, trascinando con sé i cavi della corrente, investendo in pieno la motrice robotizzata. Il freno di emergenza scatta, i vagoni si fermano, inchiodano, i sistemi di sicurezza impediscono il deragliamento, pendolari e uomini d'affari sbalzati in avanti, bagagli in volo. Il comandante non riesce a trattenersi, inciampa, cade dalla passerella, impatta rovinosamente col terreno.
Il FrecciaNera impreca, bestemmia contro il cielo, si contorce come un serpente a sonagli, grida come una bestia ferita. I grilli interrompono il loro incessante frinire – anche se solo per un attimo.
Le luci di emergenza si attivano all'unisono, un coro di sirene d'allarme incita all'evacuazione.
Poi il nulla.
E il silenzio.
2. Adagio
“Sì, ho capito. Certo che mi sto dirigendo lì. Un momento solo. Oh, sì, fidatevi. Arrivo. Mi annodo la cravatta e sono da voi.”
La cornetta vola all'interno della stanza, cade a terra, rimbalza.
EiN inarca un sopracciglio, rotea le pupille, lo sguardo al cielo.
Cordless con rivestimento gommoso. L'ultimo, inutile acquisto di Michelle.
Lo specchio rifletteva un viso provato, sottili occhiaie nere, il segno del cuscino sulla guancia destra. Uno sbadiglio rumoroso, prolungato. Morfeo reclama la sua parte.
Naturale, sono le tre di notte. Perché non posso spegnere il telefono di casa, almeno quando dormo?
Risposta banale e scontata.
Perché sei in servizio. Devi essere reperibile ventiquattr'ore su ventiquattro.
Si siede sul divano, allaccia le stringhe degli scarponi, sistema i guanti nero pece, indossa il giubbotto di pelle. Di cravatte, neanche l'ombra.
Un altro sbadiglio – l'ennesimo. Di noia, questa volta.
Ma guarda un po' te se un folle dato per morto deve decidere di tornare dalla tomba per dirottare un treno ad alta velocità. No, io queste cose proprio non le concepisco.
La luce invade la stanza, in un attimo. EiN stringe gli occhi, scuote la testa, grugnisce come una bestia ferita.
“Perché? Lo sai che la mia retina è sensibile a bruschi cambiamenti di luminosità!”
“Peccato che qualcuno abbia detto – testuali parole – non abbiamo bisogno di comprare lampade a diffusione controllata, costano troppo.”
“Un punto a tuo favore.”
Sempre la solita Michelle. Un minuscolo concentrato di energia sul punto di esplodere. Insegnarle l'autocontrollo era stato il passaggio più difficile della sua rieducazione. Un passaggio fondamentale.
“Cos'è successo, cette foi?”
“Un dirottamento sul confine col Concordato.”
Si siede accanto a lui, poco convinta.
“E chiamano te? Parbleau! Ma sono impazziti? Tu sei un detective della polizia locale, cosa c'entri con...”
“Credimi. La situazione è più strana di quanto non sembri. Dopo che il treno si è fermato, i sensori hanno registrato delle anomalie e...”
No, meglio fermarsi qui. La conosco troppo bene.
“Insomma, le circostanze sono ancora tutte da chiarire. Hanno pensato al miglior segugio in zona, tutto qui.”
“E, non trovandolo, hanno chiamato te.”
“Grazie per la considerazione, mogliettina adorata.”
Michelle sorride, gli occhi azzurri si specchiano nelle nere pupille di EiN.
“Ho capito. Vai pure, ma cerca di tornare intero... altrimenti che futuro potrai dare ai nostri figli?”
“Quali figli? Noi non abbiamo figli.”
Un bacio fugace sulle labbra.
“Non ancora, ma è solo questione di tempo.”
Si sottrae all'abbraccio, qualche passo indietro in direzione della camera da letto.
“Io torno a dormire. Quando rientri, cerca di non svegliarmi.”
Un grugnito di risposta, un saluto appena accennato con la mano destra, poi via, di corsa verso il garage, verso l'automobile: una Kramers Lumina del 2064 – un affarone. Linea sportiva, carlinga con linea neon lungo tutte le fiancate, fari allungati collegati direttamente alla scia lucente – un'unica luce azzurra avvolta attorno alla macchina. Quattro posti, propulsore Koreon 196 da duecento cavalli, colore bianco perla. Al momento dell'acquisto, aveva pensato di dover contrattare con Michelle, che sicuramente avrebbe optato per una utilitaria ovoidale cinque posti ampio bagagliaio. Con sua enorme sorpresa, era stata sua moglie a pressarlo per comprare quel modello.
A ben vedere, lei la utilizzava quasi di più.
EiN tocca la fiancata, la luce al neon si spegne, due linee sottili fanno la loro comparsa sulla carlinga, una sezione della fiancata sparisce. Prende posto all'interno dell'abitacolo, impugna il volante mentre la portiera si ricostituisce. Un giro di chiave. I fari accecano il buio con violenza, un unico bagliore azzurro emanato da tutto il veicolo. Il rombo del Koreon 196, i cavalli imbizzarriti.
“Andiamo a farci un giro, piccola.”
EiN preme sull'acceleratore, l'auto si lascia tutto alle spalle. Il garage, la casa, la strada statale.
In un paio di minuti è sull'iperstrada di grande comunicazione, in direzione Monaco di Baviera.
Un panorama desolatamente piatto. Sei corsie per senso di marcia, pianure a destra e a sinistra. Velocità costante a centottanta chilometri all'ora – il massimo consentito. Nessuna curva per i successivi sessanta chilometri.
Un po' di tempo per pensare alla telefonata. Per analizzarla.
Sul FrecciaNera viaggiavano trecentosessantaquattro passeggeri. Uno di questi si alza, spara al controllore, prende in ostaggio una ragazza e si dirige verso la motrice. La polizia ferroviaria viene allertata, il corpo di protezione lo insegue. Il passeggero spara ad un traliccio elettrico, facendolo saltare in aria. I rottami cadono sulle rotaie, danneggiano la motrice, il freno d'emergenza scatta e il convoglio si ferma. Fin qui tutto a posto – o meglio, nella norma. È il seguito ad essere allucinante. Forse anche troppo.
Stringe gli occhi, si concentra sui led intermittenti in centro alla carreggiata.
“Inutile farsi troppi problemi, una volta arrivato a Gunkragen vedrò tutto di persona.”
Le dita serrate sul volante.
“O almeno lo spero.”
**
Il profumo dell'erba appena tagliata nelle narici, un vento leggero risveglia i sensi addormentati. Le pupille sollecitate dal flash intermittente delle luci di emergenza, i neon in preaccensione frammentano il buio, lo feriscono ad intervalli irregolari.
Un barlume di coscienza nella mente confusa, i collegamenti ripristinati. I ballerini svaniscono, il lampadario e il salone li seguono a breve distanza.
Un sogno. Uno stupido sogno.
Il comandante si issa sui gomiti, si mette a sedere sul terreno. Non è facile riprendersi, dopo essere stato sbalzato da un treno in corsa, dopo che un folle ha fatto saltare la linea elettrica per non pagare un biglietto. Cerca di rialzarsi, inciampa, cade. La testa gira, un vortice di pensieri, di percezioni sensoriali inesatte. Il cervello fatica ad abituarsi alla realtà, si adatta poco per volta.
Gattona come un bimbo, si mette in ginocchio. Ha il coraggio di alzare gli occhi, di osservare il leviatano spiaggiato, la bestia morente accasciata su un fianco.
I miei uomini... dove sono i miei uomini? Ritzer... Janetti...
Una presa di coscienza improvvisa.
Il bastardo! Dov'è il bastardo?
Una figura snella, asciutta. Completo nero, capelli neri appena brizzolati, denti bianchissimi, quasi scintillanti nel buio. La strana ragazza dai capelli blu elettrico, l'ostaggio, subito dietro.
La bocca non reagisce al pensiero, emette solo qualche balbettio strozzato.
Ma è abbastanza.
L'uomo si volta, si sistema gli occhiali, sorride divertito. Saluta con la mano destra, afferra il polso della ragazza, corre via, verso il lago, lasciandosi tutto alle spalle.
Maledizione!
Uno sparo. Un altro sparo. In aria.
Tutto inutile, solamente un modo per sfogare la frustrazione. Già, frustrazione. Perché quando rapiscono una innocente sotto i tuoi occhi e te la fanno sotto il naso, non puoi non provarne.
Ora cosa racconto ai piani alti? Che sono stato così stupido da lasciarlo scappare?
Preoccupazioni, certo. Molte preoccupazioni. Ma quanto importanti?
Più delle lamiere che si rianimano, oscillando in assenza di vento?
Più delle ruote che strisciano nei pressi dei binari?
Più dell'urlo agghiacciante del metallo frantumato?
“Ma che cavolo...”
L'agente si volta verso la motrice, un gesto meccanico, guidato dalle percezioni.
Il convoglio sussulta, una vibrazione collettiva, l'acciaio, il carbonio, il vetro dei cristalli.
L'uomo perde l'equilibrio, cade rovinosamente a terra.
“Mio Dio!”
Un centimetro. Un altro centimetro. Un altro ancora. Sempre più veloce, sempre più rapido, più rapido! La carcassa del leviatano si trascina lungo le rotaie, intrappola i passeggeri, i controllori, i macchinisti, li guida verso il grande attrattore, un punto nero nel buio.
“No, non è vero! Non è possibile!”
Il punto si allarga, si espande, un vortice scuro, tentacolare, fauci affilate nelle tenebre.
I rottami accelerano. Urla, urla di terrore, grida prive di coerenza, grida umane.
Una forma indistinta, sempre più nitida, marcata, indistinguibile. Una mandria di figure contorte, attorcigliate.
E il pastore, fermo, in attesa.
“Chi cazzo sei?”
L'agente alza la pistola, prende la mira, adrenalina a mille. Punta al volto, a quella singola luce giallastra evanescente, là dove dovrebbe esserci l'occhio sinistro. Un viso aviforme, grigio metallizzato. Una maschera di metallo?
“Rispondi! Cosa sta succedendo qui?”
L'occhio scintilla, le braccia si levano al cielo, la voce risuona.
“Non si parla a tavola! No, proprio no! E lei sta per mangiare. La mia amata, intendo. Ora zitto, zitto, zitto!”
Un urlo strozzato, l'arma cade, il corpo la segue a poca distanza.
Quando la Notte schiude le fauci non riesci a muoverti, non puoi fuggire. Però puoi svenire, sì.
Svenire e far finta che non sia successo nulla.
Almeno fino al tuo risveglio.
3. Interludio
“Direi che ce la siamo cavata, sì.”
Nessuna luce, nessuna torcia, nessuna voce. Neppure il latrato dei cani.
“Avranno altro a cui pensare. Raddrizzare il treno e soccorrere tutti porterà via loro un po' di tempo. Poco forse. Ma per me è abbastanza.”
“Parli da solo?”
“Dici? Sì, forse qualche volta mi capita di farlo. Anche adesso? Non me n'ero accorto. Mi perdo spesso. Dicono che non sono capace di formulare pensieri complessi.”
“Ed è vero?”
“Se sapessi rispondere, sarei capace di formulare pensieri complessi. Non lo so.”
La ragazza si rannicchia in un angolo, il giaccone sulle spalle.
“Perché lo hai fatto?”
“Lavoro. Me lo hanno ordinato. Tempo fa. Tanto tempo fa.”
“Ho capito. Con te non si può parlare.”
“Non te l'ho proibito.”
“No, ma non sei capace di rispondere.”
“Non è così. Forse non sono capace di formulare pensieri complessi. Nulla di più.”
“E ce l'hai un nome?”
“Sì, ce l'ho.”
L'uomo si siede, si sistema i capelli con cura, smonta gli occhiali da vista, sostituisce le lenti.
“Mi chiamano Rosenmaester.”
“Ah.”
L'erba danza in silenzio, fragranze eteree si diffondono tutt'intorno, fiori estinti dall'essenza eterna.
“E tu? Tu ce l'hai un nome? O devo chiamarti con una sigla? Decidi in fretta che poi mi spazientisco e ti faccio fuori. Non mi interessa tutto di te. Solo una parte.”
La giovane socchiude le palpebre, scuote la testa.
“E io che pensavo che fossi venuto a salvarmi...”
“Non l'ho mai detto. Ho solo steso i medici che viaggiavano con te. Di loro non avevo mica bisogno. Tutto qui.”
“Ah.”
Inforca gli occhiali modificati, ripone le lenti nella tasca destra.
“Comunque, quale sarebbe?”
“Neve.”
“Neve... come la neve? Quella roba bianca che scende dal cielo in inverno.”
“Esatto.”
“È il tuo nome?”
“Mi chiamano così.”
“Per il colore della pelle?”
“Anche.”
Neve si alza in piedi, lo sguardo rivolto verso le stelle.
“Perché ti chiamano Rosenmaester? Non hai niente a che fare con i fiori. Proprio niente.”
“Non è vero. Ho avuto molto a che fare con i fiori. I crisantemi, soprattutto. Ne ho visti tanti. Troppi. E sbucavano tutti dalle vene. Proprio come i tuoi.”
**
Gli idioti io non posso proprio sopportarli. Ti esasperano con le loro inutili, futili richieste. Ma no, signor Kristhhoffer! Non è il caso di torchiare i testimoni in questo modo brutale! Non ha senso arrestare dei morti di paura per confessioni strappate con la violenza!
Certo, certo. Tutte belle parole. Intanto, io li catturo e loro se li lasciano scappare. Avrei perso ogni fiducia nel sistema giudiziario, in tutto il sistema... se non avessi conosciuto Veckert.
Il caso Tryadine Effect, lo scandalo, l'ergastolo per Laurent Fourier e la sua cricca di accoliti. La prima volta in vita mia che ho assistito al trionfo del Bene con la B maiuscola. Veckert Rainer, il segugio sfregiato, lo spaventapasseri, la maschera dai capelli azzurri. Tanti, troppi nomignoli. Non le rendono giustizia. Proprio per nulla.
Bé, se non ci fosse stata lei, io non mi sarei mai sognato di entrare a New Scotland Yard.
Per superarla, ma questo è ovvio.
Per anni mi hanno pompato in modo inverosimile, mi hanno paragonato al non plus ultra degli investigatori... ma è facile vincere se non hai avversari, se gareggi da solo.
I miei metodi possono essere – diciamo – poco ortodossi, ma quel che conta è il risultato, no? Non ho mai arrestato un innocente, mai. I cani rognosi li fiuto ad anni luce di distanza, non posso confondermi con i barboncini. Ad ogni modo, anche a me capita di sbagliare – anche se può sembrare impossibile.
Nella mia vita ho commesso solo cinque errori.
Primo: ho deciso di esplorare un bunker antiatomico abbandonato nei pressi della centrale, quando avevo sei anni.
Secondo: non mi sono assicurato che una mia preda fosse effettivamente morta – questo una volta sola.
Terzo: ho sottovalutato lo spaventapasseri quando mi sono trovato ad averci a che fare – complesso di superiorità, ma che volete che vi dica? Sono fatto così.
Quarto: mi sono innamorato di Michelle.
Cinque: ho ammesso di aver sbagliato.
No, questo non è proprio un errore, ma ci si avvicina. Mi sto ammorbidendo, è questa la dura verità. Quattro anni di matrimonio. Quattro, eh? Non ci avrei scommesso un centesimo, all'inizio.
Ad ogni modo, tutto questo non è che una premessa ad un ragionamento semplice. Un ragionamento che sicuramente non avreste capito, se non avessi anticipato qualcosa.
Tre degli errori precedenti mi hanno fatto diventare quello che sono.
Uno posso risolverlo semplicemente negando di avervene parlato.
L'ultimo voglio cancellarlo dalla mia vita.
A modo mio.
Perché se è vero che la mia preda è sfuggita per tre volte alla morte, non riuscirà a sopravvivermi ancora a lungo.
Ci potete giurare.
**
“Posso sapere dove stiamo andando?”
“Certo.”
Passi lunghi e ben distesi, gambe quasi tese ad ogni movimento. Neve lo segue a stento, in silenzio, in attesa di una risposta. Una risposta che non arriva.
Punta i piedi. Si ferma, strattona il braccio del suo accompagnatore.
“Allora? Perché non rispondi?”
Si volta, un'espressione indecifrabile sul viso, quasi impaurita.
“Io ho risposto.”
“Prego?”
“Tu hai chiesto posso sapere dove stiamo andando? E io ho risposto che puoi saperlo. Cos'è che ho sbagliato?”
Neve impallidisce, balbetta qualcosa di incomprensibile.
“N... niente.”
Incapace di formulare pensieri complessi, eh?
Prende coraggio, rielabora la domanda.
“Dove stiamo andando?”
“In città.”
Allunga il braccio, il dito indice steso in direzione di luci corrusche, lontane.
“Quella città.”
**
Sirene lampeggianti, le autoambulanze della croce rossa, un coro di sirene nella fredda notte di Gunkragen. La Kramers parcheggiata con noncuranza nei pressi della scena del crimine.
“Interessante.”
Segni di trascinamento, lamiere contorte sparse per un paio di miglia, frammenti di vetro, sinistre macchie scure di sostanze viscose. Un agente vestito di un giaccone pesante, divisa invernale, una borsa piuttosto capiente a tracolla. Occhi stanchi, vitrei. Voglia di lavorare zero.
“Detective Kristhhoffer?”
“Prova a chiamarmi così ancora una volta e ti stacco la testa a morsi.”
“Uhm... detective... EiN?”
“Così ragioniamo.”
Due passi nell'inferno, tra detriti e lenzuola bianche. Molte lenzuola bianche. Forse troppe. O troppo poche. Dipende tutto dai punti di vista. E dai numeri, certo.
“Quanti corpi avete recuperato?”
“Una dozzina. Tutti irriconoscibili. Sembrano come... carbonizzati. Nel senso... non presentano ferite, non visibili perlomeno, ma...”
“Basta con le parole. Fammi vedere.”
“C... come vuole lei.”
Afferra un drappo, lo strattona con violenza, pronto a tutto.
Ma tutto non è abbastanza.
Un corpo completamente nero, privo di lineamenti, come un pupazzo di scena, liscio, nessun taglio, nessuna contusione.
“Ma che diavolo...”
EiN arretra di colpo.
Un nero uniforme, dal capo alla punta dei piedi. Assenza di capelli, occhi, bocca, orecchie. Una perfezione inumana.
EiN ricopre il cadavere, lo nasconde sotto il telo, libera lo sguardo da quello spettacolo.
“È uno scherzo, non è vero?”
L'agente scuote il capo, intimorito.
“No. Questi sono i corpi che abbiamo rinvenuto. Esattamente nello stesso stato in cui li abbiamo trovati. Non riusciamo nemmeno più a distinguere gli uomini dalle donne.”
“Test del DNA ne avete fatti?”
“Le siringhe non riescono ad attraversare la pelle... o quello che è. Mi dispiace.”
“Capisco.”
No, che non capisco. Cosa significa? Calma, non puoi mostrarti spaventato. Non ancora, perlomeno.
Stringe il pugno, le dita serrate, i nervi tesi.
“Potete ripetermi quanti... quanti ne avete recuperati?”
“Quattordici.”
“Su quel treno viaggiavano almeno duecento persone. Che fine hanno fatto?”
L'agente si frega le mani per il freddo, estrae un thermos dalla borsa, ne versa il contenuto nel tappo.
“Un caffè? Io senza non riesco a stare sveglio. A quest'ora potrebbe servire...”
“Non ha risposto alla mia domanda.”
Una sorsata di bevanda nera, il calore si espande nel corpo raggelato.
“Abbiamo un testimone, detective. Un uomo ha visto tutto... solo che non è nelle condizioni di poter rispondere. È ancora in stato di shock.”
“Shock, dici...”
Scariche elettriche violacee attorno alla giacca di pelle. Le frequenze oscillano a gran velocità, il leone azzurro si sovrappone all'esile corporatura di EiN. Denti digrignati, artigli snudati, scintillanti, voce sdoppiata.
“Se non vuoi che mandi te in stato di shock, vedi di portarmelo qui. E in fretta.”
“Non... non è molto regolare e...”
Tempesta magnetica, vibrazioni nell'aria.
“Esegui gli ordini... o rimpiangerai di non essere stato carbonizzato anche tu!”
4. Andante
“Il rendiconto dell'ultimo trimestre segna un aumento positivo del...”
I consigli di amministrazione sono infiniti, sembrano non terminare mai. Io non ne posso più, sul serio. La prossima volta mi prendo due giorni di ferie, le faccio coincidere con la riunione. Un assenza non giustificata, nulla di grave. Sì, non ci sarebbero problemi, se non fossi il CEO dell'azienda.
Se non fossi il capo, qui alla Sandigger LTD. La società fondata da mio padre. La mia società.
Sfruttamento dei giacimenti di yrite, estrazione e trasporto del materiale, redistribuzione alle grandi aziende. Gestiamo tutto noi. Gestisco tutto io.
Ma non è stato sempre così semplice. Fino a sei anni fa lavoravo in un altro settore, per colpa di un rognoso bastardo che ha falsificato due carte per estromettermi dall'eredità. Ora sono tornata.
Il mio posto è questo.
“L'estrazione dal giacimento di Phaingraw è stata incrementata del sei punto due percento. Contiamo di migliorare ancora, l'obiettivo è raggiungere il sette punto cinque nell'arco di due mesi.”
“E come la mettiamo con gli stipendi? Un aumento della produzione si traduce in...”
So già cosa vogliono dire. Stacco la mente, il cervello. Non ho voglia di sorbirmi i litigi dei miei sottoposti, come ogni volta. Volgo lo sguardo alla finestra. Fuori nevica. Parecchio. Non è raro in questa stagione, ma fa sempre un certo effetto. Mi ricorda il periodo in cui giravo per Nothern Algol coperta di stracci. Avevo venduto quasi tutti i miei abiti per comprarmi una pistola. Avevo freddo.
Molto freddo. Troppo freddo! Ah! Basta, basta! Il passato è passato! È solo un incubo, uno stupido incubo! Non sono più costretta ad uccidere per sopravvivere.
“Riteniamo che chiudere lo stabilimento di Greyhaven causerebbe una perdita alla società di diversi milioni di ecu.”
“Ma che milioni e milioni! Se mandiamo a casa i minatori con un arrivederci è stato bello, grazie per aver lavorato con noi, che perdite vuoi avere? Ci sarà pure un cavillo sul contratto per...”
Certo, qualche volta il brivido ritorna, la tentazione di afferrare una sputafuoco e premere il grilletto. Un modo elegante per terminare una riunione.
Mi piacerebbe poterlo fare, ma credo che sia un tantinello illegale.
Peccato.
“Le Kreen Industries hanno incrementato le loro richieste di materiale del tre percento. Il nostro miglior cliente ha fornito alcun dati di...”
Già. Cosa succederebbe se piantassi un calibro sette e sessantacinque in testa ad ogni membro del consiglio e poi fuggissi a gambe levate, come una volta? Sarebbe divertente.
Per poco, però.
“Cosa ne pensa, presidente?”
Cado dalle nuvole. Annuisco, fingo di ascoltare con estrema maestria. In realtà sto osservando la neve. I fiocchi volteggiano leggeri, scendono sulla città, imbiancano i davanzali e i tetti. Do una risposta generica, mirata a far tacere l'intero consiglio. Che lo voglia o no, le decisioni finali spettano a me, per cui dovrò sopportarli ancora per un paio d'ore. Almeno credo.
Non è che possiamo fare una pausa? Che ne so, per ascoltare le ultime notizie? Sembra che sia accaduto qualcosa di grosso, a pochi chilometri da qui.
Prendo il telefonino, apro la pagina delle news – tanto nessuno sta facendo caso a me, sono troppo occupati a litigare del più e del meno. Spesso ho l'impressione che si divertano a scannarsi l'un l'altro, senza particolare motivo. Lasciamoli fare, non è di loro che voglio occuparmi. Non adesso.
“Ma...”
Non posso – non voglio – credere a quello che ho letto!
Un treno FrecciaNera deragliato nei pressi di Gunkragen, questa notte è... sparito nel nulla, assieme a tutti i passeggeri. Nessun testimone, nessun dettaglio dalla polizia?!
Che diavolo significa?
Aspetta, leggiamo un attimo i dettagli...
Il convoglio è stato danneggiato dalla caduta di un traliccio. Un passeggero ha sparato al controllore, rapito una ragazza e fatto deragliare il treno. Non ci sono foto, solo un identikit trasmesso dal macchinista alla centrale di polizia ferroviaria durante il trambusto. Dalla descrizione sono risaliti all'identità del criminale, che si è verificato essere il noto serial killer noto come...
No! Non ha assolutamente senso!
Hanno pubblicato una foto? Devo controllare, devo esserne sicura! Eccola, era nella seconda pagina!
“Rosenmaester?!”
“Signorina Herzog?”
“Niente, niente. Ero sovrappensiero. Continuate pure.”
Aspetto che quei pagliacci incravattati tornino a concentrarsi sui loro fogli, che non badino a me insomma. Ingrandisco la foto sul cellulare, la analizzo nei dettagli.
È lui, al di fuori di ogni ragionevole dubbio... anche se l'ultima volta che l'ho visto è stato sei anni fa. Sei anni... un tempo infinito. Ma i ricordi non sbiadiscono – non quelli dolorosi, perlomeno. Sei anni fa, è morta la mia sorellina meccanica. Sei anni fa, Northern Algol è sparita dalla cartina geografica.
E tutto per colpa di una persona.
Silman Simmerik.
**
Bozzoli di tenebra nel nulla, fasci di nervi oscuri, epilettici, contorti. Il profumo dell'erba è solo un ricordo, un ricordo lontano, perso nelle nebbie del tempo. Ma i fiori no, non li ha dimenticati. I suoi fiori. Bei fiori, davvero belli. Un frammento di memoria fratturato e scomposto, amalgamato dai tentacoli avvizziti della Notte. Pezzo dopo pezzo, frattaglia dopo frattaglia, il mosaico torna completo. O quasi. E la coscienza si risveglia, ti libera da te stesso, ti riporta alla vita, all'esistenza vera. Ma perché agire in quel modo? Difficile capirlo.
Un istinto, forse. Già...
La tentazione di riprendere possesso di ciò che è tuo, del frutto del sudore della tua fronte, di un lavoro certosino, preciso fino allo spasmo, interrotto per cause di forza maggiore.
Ma perché non riprenderlo? E migliorarlo? Già, già... migliorarlo!
Renderlo eterno.
Un dono prezioso, prezioso! Ah, una manna dal cielo! Per tutti, per chiunque! Che rivelazione, eh? Mi piace, mi piace! E piace anche a lei! Sì, soprattutto a lei!
Ora pazienza, devo esaminare, devo controllare. So che c'è, lo sento, so che era lì, nella pancia del leviatano.
Se controllo tutto con calma, la troverò, ah se la troverò!
È solo questione di tempo!
**
“Ripetimelo ancora una volta.”
EiN mescola il caffè con noncuranza, il cucchiaino di plastica rovista il fondo del bicchiere, rimuove lo strato di zucchero appiccicoso.
“Dopo che avete – per così dire – intrappolato Rosenmaester, cosa è successo?”
Porta il liquido scuro alle labbra, lo ingurgita con poca convinzione. Sapore orribile, ma non è un problema. Un caffè offerto non si rifiuta mai, neppure se è pessimo.
“Il bastardo ha sparato al traliccio, al traliccio, sì. E il treno? Il treno! Dov'è il treno? Dove sono Spitzer e Janeri? Ah, ma lei vuole sapere del treno? Sì, sì! La preda ha sparato – bello forte, eh? - e BUM! La torre è crollata sui binari! Io sono stato sbalzato a terra, devo aver volato per una ventina di metri – eh, sì! Una ventina! Che volo, che volo! Ma il treno? Sì, il treno! Il treno morto, accasciato sulle rotaie! Ed è comparso un uomo, dal nulla!. E il FrecciaNera è stato trascinato via da... qualcosa. Sparito! Masticato! Sì, sì! Masticato!”
“Uh, uh.”
Accartoccia il bicchierino, lo lancia alle spalle.
“Divertente, ma sa di già sentito. Non se ne potrebbe ricavare una buona sceneggiatura. Piuttosto...”
Annusa l'aria, l'orecchio teso a percepire il minimo sussulto.
“...hai visto in faccia il tizio di cui mi ha parlato? Aveva qualche segno particolare?”
“L'uomo? Lo spauracchio? Sì. Forse. O forse no. Non so bene, ricordo qualche dettaglio confuso. I suoi occhi scintillavano – anzi, no! L'occhio, un occhio solo. Già, ora lo vedo, come se ce l'avessi davanti. Non riesco a rammentare se il destro o il sinistro, comunque gliene mancava uno. E la maschera! Aveva una maschera! So che può sembrare stupido ma... ma assomigliava a lei!”
“Lei?”
“Ma sì! Il segugio sfregiato! Quella donna famosa per lo scandalo di St. Patrick! Sembrava la stessa maschera, identica! Ma lei, il segugio, non la indossa più da quattro o cinque anni... non capisco, dev'essere uno scherzo della mia mente – eh, eh!”
Il comandante si sdraia sulla branda, gli occhi sbarrati diretti verso il cielo.
“Dio solo sa cos'ho visto! Forse neanche lui! Ed io? Io cosa so?”
“Ancora una domanda e poi ti lascio riposare.”
EiN affonda le mani nelle tasche della giacca, inclina il collo a destra e a sinistra, come per svegliare un muscolo addormentato.
“Come fai a bere quella brodaglia che hanno il coraggio di chiamare caffè?”
5. Eine kleine nachtmusic
La guardia del corpo a terra, stesa. Un colpo alla testa? Probabile. Opera di un professionista, comunque.
L'hanno assalito da dietro. Non può aver visto chi l'ha colpito.
Quindi non ha senso rianimarlo. Non ancora, perlomeno.
Pensavo di aver chiuso con il crimine...
La porta aperta, la serratura esplosa. Un proiettile di grosso calibro, detonante. Solo un folle ne sparerebbe uno da una distanza così ridotta. O un idiota. O entrambe le cose. Meglio essere cauti, comunque.
Respiro affannato, tachicardia. Difficile trattenersi. Impugna la pistola dell'agente, rimuove la sicura. Passi lenti verso l'ingresso, esitanti, a ritmo incostante. Una gamba meccanica non è il massimo, quando ci si vuole muovere in silenzio.
Pazienza, non importa.
Sposta con decisione i capelli biondi dagli occhi, amplia il campo visivo. Quello del solo occhio destro, l'unico rimasto.
Una situazione grottesca.
Impronte polverose lungo le scale, dirette verso il basso, verso la cantina. Seguirle non è un'opzione. Un passo. Un altro passo. Un centimetro dopo l'altro verso il cuore, verso l'inferno. Tracce di dimensioni diverse. Scarpe e scarponi, affiancate. Due intrusi? Probabile.
Calma e sangue freddo. Qui non c'è più nulla di compromettente, ho sgombrato il laboratorio due anni fa. Nessun dannatissimo indizio, oggetto, frammento che possa ricondurre questo scantinato a me. Sarà un ladro, uno stupido ladruncolo curioso.
L'indice freme sul grilletto, pronto al peggio. L'occhio scandaglia i muri, le crepe, i pertugi, le fenditure. Ammassi di ragnatele traslucide, particelle di pulviscolo sospese. Una mosca vaga pigramente senza meta. Vasi di fiori appassiti, rose perlopiù. Nessuna traccia di esseri umani.
Come se ce ne fossero, a Northern Algol.
Aveva vagato per ore tra le vie della città morta, anche solo per ricordare. Perdersi, ritrovare la strada, perdersi di nuovo. Un gioco di memoria, in un atmosfera surreale, popolata da calcinacci e polvere rossa, mattoni sbriciolati, parietaria tra le commensure delle piastrelle. La metropoli del silenzio, l'Ultima Necropoli per molti.
Poi, la vista della guardia del corpo tramortita, di fronte ad un edificio. Quell'edificio. Uno dei covi di ONE.
Scuote la testa, si concentra sul momento, sui rumori. Non deve aspettare molto.
Una voce. Aspra, quasi gracchiante. Un uomo.
La mano si stringe attorno all'impugnatura.
Un controcanto più sottile, tenue. Una ragazza.
Un uomo adulto. Una ragazza. In un posto del genere.
Pochi metri di distanza, una ventina appena. Un sorriso si apre sul suo volto.
Non esistono alternative. Devo fare qualcosa.
Si appiattisce alla parete, la porta sfasciata ai suoi piedi. La seconda voce diventa più acuta, supplica l'uomo, con parole incomprensibili.
I ragni sembrano interrompere il loro lavoro, si fermano ad ascoltare. Un respiro, un profondo respiro. Le gambe si flettono, due molle pronte a scattare.
Ora!
Sapphire si lancia in avanti, oltrepassa l'uscio con la pistola in mano, la punta verso il bersaglio.
“Porco schifoso, toglile le mani di dosso o ti faccio saltare in aria il cervello!”
“Ciao ONE. Era ora che arrivassi. Sono due ore che aspetto.”
Un istante per rendersi conto di aver già osservato quel volto. Un secondo per ricordarsi della notizia sbirciata alla riunione. Un attimo per collegare le due immagini.
Un momento di terrore, nel rendersi conto della realtà.
“Tu... tu saresti Rosenmaester?!”
**
Devo riprendere fiato, mi bruciano i polmoni. Sono allenato, certo, ma non riesco a rimanere in risonanza per più di una decina di minuti. Dopo un po', il leone perde consistenza, si indebolisce, diventa un pallido simulacro diafano. Quante belle parole, eh? È solo che non riesco a darmi pace, è come se il maledetto deficiente mascherato mi avesse battuto su tutta la linea. Tutta, eh? È riuscito a mettermi nel sacco, me e gli agenti di polizia di Gunkragen. Che quel tipo avesse in mente un piano contorto, potevo anche immaginarlo... ma una sorpresa del genere!
Lo stramaledetto spaventapasseri sa giocare bene le sue carte, giuro che lo credevo pazzo o incapace di intendere e volere. E invece no! Dire che mi ha fregato è poco! E ora? Come devo, come posso agire, come trovare una soluzione? Esiste una soluzione?
No, calma, solo un attimo di riposo, solo un secondo, poi riprendo, devo farlo, anche solo per due motivi. Il primo è che voglio sopravvivere.
Il secondo è che non ho più chiamato mia moglie. Sarebbe scortese andarsene all'altro mondo senza avvertirla, no?
**
“ONE! Perché non eri qui? Ti ho cercato per tutta la città, in tutte le tue case!”
Scarpe di pelle, pantaloni neri lunghi, completo di sartoria rappezzato, camicia bianca con cravatta scura. Sorriso a trentadue denti.
“Cosa ci fai qui?! Chi è lei?!”
Una ragazza, circa quindici anni. Capelli blu elettrico, lunghi, disordinati. T-shirt arancione col logo della Eve, jeans lunghi, scarpe con lucine a led. Iridi quasi bianche. Un braccialetto al polso destro. Un fiore sul polso sinistro. Un fiore vivo.
Un crisantemo di bell'aspetto, le radici vigorosamente conficcate nelle vene.
“Mio Dio...”
“Bello, vero? L'ho pensato anch'io! Ho capito che era la mia occasione di aiutarti! I semi, capisci? Da questo puoi ancora ricavare i semi!”
“Cosa ti fa pensare che io li desideri?”
“Ma come? Non me li hai chiesti tu, sei anni fa? I semi! Eh?”
Sapphire abbassa la pistola, lo sguardo fisso sull'individuo. L'uomo aveva assunto una posa di trionfo, dando libero sfogo al suo narcisismo represso.
Un colpo di tosse, il braccio destro si porta al livello dell'addome, le caviglie tremano mentre la ragazzina tenta di vincere la forza di gravità.
“Quando l'ho vista sul FrecciaNera, ho capito che era arrivata la mia occasione! Potevo portare a termine il mio compito!”
Un lungo respiro, un tentativo inutile di scaricare la tensione.
“Innanzitutto, come hai fatto a salire su quel treno? La tua foto segnaletica è appesa praticamente ovunque.”
“Mi sottovaluti. Ho i miei mezzi per viaggiare in incognito. Ho un cappello nero ed una sciarpa che uso apposta per camuffarmi. O meglio, li avevo. Devono essere rimasti nel vagone, dopo che ho estratto la pistola e ho sparato al controllore. Lui mi aveva riconosciuto.”
“Chissà perché non ne sono sorpresa. Hai qualche capello grigio di troppo, ma è impossibile non capire chi sei.”
Un mugolio di dolore. La ragazzina cade in ginocchio, porta le mani all'addome, la cassa toracica si espande, si contrae a ritmo serrato, le pupille si dilatano.
“Ah, scusami solo un secondo.”
L'uomo si china, apre una valigia, ne estrae una sacca morbida corredata da un ugello di plastica arancione. Rovista nel suo bagaglio, estrae un tubo flessibile trasparente, lo connette al contenitore. Svita un capo del condotto, lo sostituisce con un ago cavo, afferra il braccio della giovane, lo conficca in una delle vene, apre il rubinetto.
Un gemito strozzato, urla acute, lacrime.
Un liquido scarlatto si fa strada attraverso le spire diafane, fino a raggiungere la sua meta.
Pochi istanti di agonia, di lamenti inumani.
Poi il nulla.
**
La Notte, già, la Notte... la mia unica ragione di vita. Per troppo, troppo tempo. Perché rinunciare a me stesso per la Notte? Solo perché lei è la Madre ed io il Figlio? No, non ha senso, proprio no! Servire la Notte fino al Tramonto. Bella, bella immagine poetica... ma proprio non mi va! No, no! Io non sono solo un'immagine, un simulacro che vaga per le strade accudendoLa! Io ho un nome, avevo un nome! Ma ce l'ho ancora? Anche se ho perso un occhio? Anche se il mio volto è una maschera di metallo, rubata al segugio? Sì, sì! Io sono io! Io ho un nome. Ma qual è? Qual è? Ah! Saperlo! Poco per volta torno padrone di me stesso, poco per volta, frammento dopo frammento, un battito di vita alla volta. Perché Baal mi sta stretto! Eh, eh! Eh, già! Io non sono Baal! Io non sono solo Baal! Ero qualcun altro, prima... e tornerò ad esserlo.
Poco ma sicuro.
**
Neve torna padrona delle sue emozioni, si sdraia per terra, gli occhi sbarrati. Il respiro regolare, gocce di sudore ne imperlano la fronte.
La sostanza calda e viscosa scorre, si trascina svogliata all'interno del tubo fino a raggiungere la sua destinazione finale.
Neve sorride debolmente, il tempo di accennare un grazie, poi cede di schianto, si addormenta.
“Perfetto. Ora sta meglio. Se muore lei, anche il fiore appassisce. E non posso portarti i semi.”
Sapphire si appoggia al muro, lo osserva con curiosità, un pizzico di rimprovero nelle sue iridi.
“Perché non ti siedi e mi spieghi tutto dall'inizio, mio caro Vortag Schlieber?”
6. Toccata e fuga
Arti color pece in volo, strappati da corpi di tenebra. Artigli azzurri, una scarica ad ogni colpo. Il leone si contorce, gli artigli squarciano la notte, la fanno a brandelli.
Un vortice di lame affilate, al limite dell'inumano. Ma in fondo, cosa c'è di umano in un essere capace di modulare la propria frequenza?
I corpi neri esplodono, si frammentano, spazzati via con ferocia brutale. Urla sdoppiate, un'eco di rabbia repressa. EiN ulula, ruggisce, tenta di spaventarli, di paralizzare i loro centri nervosi. Invano.
Le marionette non producono ormoni, non provano emozioni, non temono nulla.
Un salto all'indietro, le zampe si conficcano nel terreno, solcano le zolle, estirpano l'erba umida.
Quanti ne restano?
Una trappola, una maledetta trappola. E c'era cascato in pieno. Non erano corpi umani, no! Solo finzione! Una vera fregatura!
I burattini si lanciano senza pensare, mulinano gli arti rimanenti, ignari delle mutilazioni subite.
Il leone sussulta, snuda le zanne, si prepara all'assalto finale. Il corpo accumula tensione, scintilla nel buio, una stella scesa a terra.
**
“Da dove devo iniziare?”
“Dall'inizio. Tu non eri morto in un carcere federale due anni fa?”
“Se sono qui, no. Comunque, in quella prigione non ci sono mai entrato. Hanno catturato un poveraccio e lo hanno spacciato per Vortag Schlieber. Non so perché.”
Sapphire scuote la testa, sconsolata.
“Purtroppo è una pratica comune. Il tuo uomo è latitante da anni? L'opinione pubblica lo vuole morto? Arresta un criminale da quattro soldi che non c'entri nulla, spaccialo per il furfante in questione e dagli la pena di morte. Nello Czarato non sono nuovi a questo genere di provvedimenti.”
“Ah. Comunque ho passato il tempo spostandomi da una villa all'altra. Don Chaddo ne aveva parecchie, oltre a quella di Carthias. Sono stato anche a New Langdon. Bel posto, bei locali. Sono stato all'Happy Cock. Ne valeva la pena.”
“Dal punto di vista esclusivamente maschile.”
“Dal punto di vista di un uomo braccato, desideroso di un certo tipo di svago.”
Sapphire distoglie lo sguardo per un attimo, un turbine di pensieri senza capo né coda, il sospetto nei suoi occhi. Ma solo per un istante.
“Okay. Ti va se tralasciamo questi dettagli? Cosa ne dici se mi racconti di lei?”
Vortag accenna uno sguardo verso la ragazza sdraiata alle sue spalle.
“Si chiama Neve. Era scortata da due o tre scienziati. Nessuno di loro portava un'arma. Io sì. Non ho dovuto faticare troppo per portarla via con me, mi ha seguito da sola.”
“Fammi indovinare. Tu hai visto il fiore, lo hai collegato ai fatti di Northern Algol e hai deciso di portarmene i semi? Vuoi dirmi che in sei – dico sei – anni sei rimasto mentalmente fermo al mio ultimo ordine?”
“Non ne ho ricevuti altri, nel frattempo.”
“Ah.”
“Però c'è una domanda a cui non so rispondere.”
“Quale?”
Vortag si accomoda su una sedia scalcinata, affiancata al tavolo da lavoro. Gli occhiali da sole riflettono la luce al neon, nascondono le pupille. I denti affilati si riorganizzano in un sorriso forzato.
“Perché tutti mi chiamano Rosenmaester?”
**
La moltitudine senza volto si raggruppa, si avvicina, chi ha perso un braccio, chi una gamba, chi la testa. Avanza lenta, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, guidata da una mano invisibile.
Ancora un secondo...
La massa si compatta, una sorta di testuggine, formazione difensiva. Vogliono sopraffarlo, proprio come hanno fatto con gli agenti di polizia.
Ci siamo quasi...
Le braccia protese in avanti, pronte ad afferrarlo, a trascinarlo nell'incubo. A sgozzarlo, forse.
Ora!
Un groviglio di lame cariche, scariche di elettricità statica nel vuoto. Il leone balza in cielo, circondato da un'aura diafana, fulmini azzurri attorno al suo corpo. Un ruggito possente, la struttura dei manichini trema, si contorce, cerca di mantenere consistenza.
EiN si avventa sulle marionette inermi, ne lacera i corpi, sventrandone l'essenza.
E quando la luce si spegne, l'ombra è svanita.
Definitivamente.
**
“Ma che diavolo sta succedendo? Come sarebbe a dire l'abbiamo persa? Siete veramente dei deficienti!”
La cornetta sferza rovinosamente le piastrelle, si frantuma in mille pezzi. Il moncherino resiste, appeso come un macabro impiccato, oscilla a dieci centimetri dal pavimento.
Pazienza. Tanto non aspettavo altre chiamate.
Virkill Thomson si alza dalla scrivania, il respiro affannato, i nervi tesi fino allo spasimo.
Calmo. Devo stare calmo. Alla mia età, un eccesso d'ira può essermi fatale.
I suoi settantasei anni si riversano sul corpo indebolito.