Distortionverse: Extra - Frammenti dal Passato (2015)

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Tra il 2014 e il 2015 ho scritto sei romanzi brevi che assieme formano il ciclo di Distortionverse, raccogliendo storie, spunti e personaggi da giochi e altri racconti mai completati. Per molto tempo, questi romanzi brevi sono rimasti disponibili solo su Amazon Kindle e tramite Createspace come copie fisiche. Dieci anni dopo, voglio archiviarli sul mio sito personale per evitare che vengano perduti per sempre. "Frammenti" è una raccolta di quattro storie brevi pubblicate assieme alla raccolta Oltre la Maschera. Ognuna di loro è incentrata su Veckert Rainer, il segugio sfregiato di St. Patrick, e si concentra su aspetti diversi del suo passato.


 

**Spectrasoft Fujin Mail Access**

>You have a new mail!

>From: Heinz Harald Boost (hhboost@nsy.br)

>To: Werner Kroemer (wkroemer@shieldpd.br)

>Subject: il tuo miglior segugio



Caro Werner,

Qui a New Langdon circolano voci piuttosto interessanti su uno dei tuoi sottoposti: mi riferisco a quell'agente che hai inviato in città per risolvere il caso “Jack” alla fine dell'anno scorso.

Non dovrei dirtelo, ma dato che Yard è a corto di organico, stiamo valutando l'opportunità di assumere qualche collaboratore esterno... e il primo nome che è spuntato fuori è stato – per l'appunto – Veckert Rainer.

Io non conosco bene il tipo, ho solo qualche informazione generica e incompleta.

Saresti così gentile da inviarmi un resoconto della sua attività recente? Purtroppo, l'archivio centrale di St. Patrick è ancora in larga parte inaccessibile dall'esterno.

Fiducioso in una risposta positiva, ti saluto cordialmente.



H. H. Boost

Commissario capo

New Scotland Yard

 

1. Timori di un Padre

 

>2052

>Lin Collain College

>St. Patrick SHIELD

 

Lo squillo della campanella, un coro di sospiri di sollievo, il silenzio rotto dalle chiacchiere, le cartelle preparate in fretta e furia. Il buio fuori dalle finestre, lo SHIELD illuminato da centinaia, migliaia di riflettori.

La lavagna ancora ricolma di formule matematiche, piani inclinati e cilindri rotolanti.

Il professore in piedi, di fronte alla cattedra.

“Veckert, puoi fermarti un attimo? Avrei bisogno di parlarti.”

Vociare convulso, le ragazze abbandonano l'aula cinguettando. Una figura minuta chinata su uno zaino di jeans, riempito fino all'orlo di scritte a pennarello nero, disegni a mano libera di vari soggetti. Un cenno di assenso.

“Certo, professor Lyonell. Mio padre mi aspetta per il pranzo, ma se ritardo dieci minuti non succede nulla. Ci sono sempre nuovi lavori sulle strade... e i contrattempi sono all'ordine del giorno.”

Le frasi fluiscono con estrema naturalezza, un espediente utilizzato con consumata esperienza.

Lyonell spolvera il camice, si avvicina con calma,senza fretta.

Veckert ripone il tablet da appunti assieme al quadernone, stringe i lacci dello zaino. Gli occhi verdi sollevati, incrociano uno sguardo severo.

“Di cosa vuole discutere?”

“Vorrei sapere la verità, Veckert. La nuda verità.”

Un tremito, un brivido lungo la pelle diafana.

“R... riguardo a cosa?”

Lyonell appoggia la mano destra sul banco, serra le palpebre, per un solo secondo. La sinistra fruga nella tasca dei pantaloni, ne estrae una foto stampata su pellicola.

“Riguardo a questa.”

Veckert allunga le dita sottili, lambisce delicatamente la carta lucida, la ruota con timore.

Gli occhi sgranati, il cuore si tuffa dal trampolino più alto.

“C... come l'ha avuta?!”

“Era sotto il materasso di Nyu. Di solito, è lei a rassettare la sua camera, ma ieri ho deciso di farlo io, per gratitudine. Da quando sua madre ha levato le tende, lei mi è rimasta accanto, ha imparato a cucinare per me e... insomma, è tutta la mia vita. Volevo sdebitarmi, in qualche modo, così ho preso in mano la situazione e l'ho esentata dai lavori domestici della domenica.”

Un lungo sospiro.

“Puoi immaginare la mia faccia quando ho trovato quella foto.”

Le nocche contratte, le vene in rilievo.

“Quelle foto.”

Veckert si mette a sedere, le iridi incollate al ritratto, alle labbra intrecciate, i capelli sciolti, le palpebre chiuse nel sogno di un istante.

“Professore, io...”

“Non sono scherzi di cattivo gusto o fotomontaggi, dico bene? Voglio saperlo, Veckert. Devo saperlo.”

Veckert inclina il capo, accarezza i capelli azzurri, sino alla base del collo. Sono ancora corti, non li taglia da mesi. Vuole che arrivino all'altezza dell'ombelico, una marea ondulata color dell'oceano a proteggere un corpo esile.

“L'abbiamo scattata... insieme. Eravamo a casa sua. So che per lei può essere difficile, ma...”

“Difficile? Difficile?”

Il capo scosso con violenza, un grugnito animalesco.

“Mia figlia, la mia Nyu... fotografata nuda, nella sua camera da letto, avvinghiata a... a te! Come... come dovrei reagire, me lo spieghi?”

“Mi... mi dispiace.”

La mano aperta, alzata in aria. L'inizio di uno schiaffo, trattenuto a fatica.

“No che non ti dispiace, Veckert.”

Afferra una sedia, si accomoda accanto a Veckert, la schiena piegata in avanti, le mani giunte.

“E non dispiace neppure a Nyu. È questo il problema. Per voi due è così... naturale.”

Lo sfogo di un genitore ferito, singhiozzi celati da colpi di tosse.

“Avete sedici anni, ormai. Se queste sono le vostre scelte... io non ho alcun diritto di interferire. Solo... solo non avrei voluto scoprirlo così, tutto qui.”

Veckert china il capo, ciuffi azzurri a coprire il viso, le mani strette sull'orlo della divisa scolastica.

“Non se la prenda con Nyu, la prego. Lei ha cercato di tenerglielo nascosto per non causarle dolore. Non voleva che lo sapesse, temeva che sarebbe rimasto... deluso, ecco.”

“Deluso...”

Un gemito sommesso.

“Deluso non è il termine corretto. O forse lo è, dipende dai punti di vista. Forse speravo che me ne parlasse, che fosse lei a dirmelo.”

Una mano sulla spalla, timorosa. Un tocco gentile, il camice sfiorato da dita longilinee.

“Non mi giudichi male. Anche per me è stato un colpo di fulmine, qualcosa di inatteso, inaspettato. Eravamo al Parco, stavamo scattando fotografie per una ricerca sulle opere d'arte di Ilianov Krage. Il gruppo era composto solo da noi due, perché Lianna si era sentita male proprio quella mattina.”

Lyonell alza gli occhi al cielo, focalizza l'immagine.

“L'anno scorso, quindi. In seconda superiore.”

La mano destra a massaggiare il mento, la corta barba castana di un uomo di quarantadue anni.

“Ricordo quel compito a casa, ricordo anche la strana eccitazione che pervadeva il suo corpo, il tremolio nella sua voce quando mi raccontava che sarebbe uscita con te. Avrei dovuto capirlo già allora.”

Lo sguardo distolto, Veckert fissa il pavimento.

“Per... per farla breve, durante la visita alla Sweet Nightmare Hall... oddio, non so come sia successo, forse perché le luci si erano spente, o perché non c'era nessun altro in gito, o l'insieme delle due cose... ma lei mi ha baciato. Nyu mi ha baciato e ha iniziato ad accarezzarmi i capelli, la pelle...”

I ricordi attraverso la mente, istantanee scattate in silenzio.

“... e poi... e poi, è finita come può immaginare, in uno sgabuzzino della Hall. Io la desideravo, ma non avevo il coraggio di confessarglielo, lei idem. È stato... strano. Bellissimo, ma strano.”

“Veckert...”

Un respiro profondo, privo di rancore.

“... tu sei una persona estremamente sensibile ed intelligente, il meglio che un padre potrebbe desiderare per una figlia. Solo che...”

“Non sono il tipo di genero che si aspettava, non è così?”

“No, infatti.”

Un pacchetto di sigarette estratto dalla tasca, con fare sospetto.

“Ti dispiace se ne accendo una? So che sono l'insegnante di scienze e che dovrei essere consapevole dei rischi per la mia salute, ma ne ho bisogno. Qui e ora.”

“No, faccia pure. Marca di contrabbando?”

Un sorriso sprezzante, mentre il pollice armeggia con l'accendino.

“Credi che solo il profumo francese di Nyu varchi lo SHIELD assieme agli uomini di don Chaddo?”

Una nuvola di fumo aspro, una boccata aspirata con tranquillità.

“Sai? Sono quasi sollevato. Dopotutto, meglio tu che qualcun altro. Ti conosco da quando sei qui dentro e... e, se proprio doveva andare così, non poteva finire in modo migliore.”

Parole sussurrate, a voce bassa, il battito del cuore indiavolato a farla da padrone.

“... grazie...”

“Tuo padre lo sa?”

Gli occhi strabuzzati, uno scatto della testa, le iridi verdi macchiate di tenebra.

“Non deve saperlo! Lui non deve saperlo! Mi prometta che non glielo dirà, la scongiuro!”

“Non ti seguo. Cosa...”

“Mio padre è molto possessivo... e dopo la morte di mia madre è sprofondato in una tremenda depressione. La sola idea che io abbia legami con qualcuno che non sia lui potrebbe... potrebbe farlo impazzire! E poi... e poi... mio Dio, ho paura di quello che potrebbe succedere!”

Una lacrima di cristallo, riga la pelle bianca, scende lungo il collo. Veckert si rannicchia, si rannicchia tra le braccia di Lyonell.

“Non ti preoccupare, Veckert. Finché ci sarò io, nessuno vi farà del male, nessuno vi... dividerà. Lo... lo giuro.”

“Quanto le è costato pronunciare queste parole...?”

“Non puoi nemmeno immaginarlo.”

Un abbraccio, un lungo, interminabile abbraccio, istanti che scorrono al rallentatore. Poi, lo squillo, la seconda campanella.

“Fra poco ci chiudono dentro. Forse è meglio se torni a casa.”

Veckert si ricompone, il pianto asciugato in fretta e furia, afferra lo zaino, indossa la giacca.

“Grazie, professor Lyonell. Non dimenticherò mai... quello che ci siamo detti. Se avrà mai bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, conti pure su di me.”

Una boccata di nicotina, il pacchetto celato nuovamente nel camice.

“Spero di aver fatto la scelta giusta.”

“Non se ne pentirà...”

Un sorriso perfetto sul viso delicato, gli occhi ricolmi di speranza.

“... glielo prometto.”

 

2. La Strana Coppia

 

>2056

>distretto 5

>St. Patrick SHIELD

 

I gomiti puntati sulla scrivania, a sancire il dominio sul dipartimento. Un uomo robusto, capelli neri corti, occhi stretti.

“A quanto pare, abbiamo un nuovo detective.”

Giaccone nero lungo, pantaloni grigi, capelli azzurri, lunghi sino alla base della schiena. Iridi verdi intrise di determinazione.

“Veckert Rainer, matricola 3350151. Vent'anni compiuti il quattordici febbraio scorso.”

Il mento massaggiato con cura.

“Non male... giovane e brillante. Peccato per l'increscioso episodio che riguarda suo padre.”

Un rombo di tuono muto, la voce pacata ma decisa.

“Con rispetto parlando, ispettore Keane, io sono io, mio padre è mio padre.”

Un lampo irato nelle pupille scure.

Keane scuote il capo, un sospiro profondo.

“Non fraintendere. Intendevo solo dire che, dati i precedenti di Robert Rainer, devi aver conseguito dei risultati estremamente eccellenti per ottenere l'assunzione, tutto qui. Di norma, chi ha parenti pregiudicati non viene nemmeno preso in considerazione dalla commissione.”

Un'occhiata gelida, una lancia a perforare l'anima.

“Sì, in effetti li ho stupiti. Penso che non abbiano avuto alternative ad ammettermi.”

L'ispettore si ritrae, sprofonda nella sedia, rotea i pollici distratto.

“Uh?”

“Ho risolto il caso-test ricostruendo perfettamente profilo psicologico e movente dell'assassino. Ho portato in contraddizione gli altri candidati, costringendoli ad ammettere i loro errori di valutazione.”

Una pausa di qualche frazione di secondo, come a sottolineare la solennità delle affermazioni.

“Infine, ho smascherato un membro della commissione corrotto, pagato da un aspirante detective per garantirgli l'assunzione. Prove alla mano.”

I capelli smossi con un rapido scatto del collo.

“Mi creda, non potevano fare altrimenti.”

Un sorrisetto compiaciuto.

“Bene, bene. Posso aspettarmi grandi cose da te, scricciolo.”

“Scricciolo?”

Le spalle scrollate, le folte sopracciglia a formare un arco.

“Qui al dipartimento, dividiamo i detective in base all'esperienza. Tu sei uno scricciolo, Veckert. Piano piano, sempre che tu riesca a combinare qualcosa di buono, diventerai un cagnolino, un lupo e, infine, un segugio. I segugi sono molto apprezzati, specie all'esterno. Diventa un segugio e forse potrai uscire dallo SHIELD. Yard si affida spesso ai nostri cagnacci, come li chiamano loro.”

Keane incrocia le dita, le mani serrate in una presa reciproca.

“Il colloquio è terminato. L'agente Kroemer ti scorterà presso il laboratorio dodici.”

“Il laboratorio?”

“Hai fatto colpo, scricciolo. Ti hanno assegnato un'unità VORS di sostegno.”

L'ispettore si produce in un fischio di ammirazione, la mano a spazzolare i capelli neri.

“In confidenza, non è raro – anzi! – quindi non montarti troppo la testa. Se non ti assegnano un VORS, vuol dire che sei stato assunto per mancanza di candidati.”

Veckert porge la mano destra, Keane ricambia energicamente.

“Mostrami quello di cui sei capace, Veckert.”

 

**

Tubi, condotti metallici, cavi dell'alta tensione. Uno stuolo di scienziati in camice bianco, poliziotti sparsi per il perimetro, le divise blu impeccabili. Un agente avanza, l'uniforme dei corpi di difesa, le placche grigie corazzate svettano sulla tinta scura.

“Come puoi vedere, qui modifichiamo i gingilli della SPECTRA.”

Veckert esamina l'ambiente, gli occhi vagano per la struttura.

“Li modificate? In che senso?”

“Nel senso che le attrezzature militari devono essere potenziate per risultare efficienti. I mitra da sette millimetri montati di serie sugli Onirazor sono roba da bambini. Qui li sostituiamo con armi un po' più avanzate. Vedi?”

Un cenno della mano destra, ad indicare un robot. Gambe ad articolazione inversa, carlinga bianca, un occhio rosso sul lato sinistro del torace. Nessuna testa visibile.

“Quell'unità verrà mandata nel distretto sette entro domani. Ultimamente, ci sono state alcune incursioni di emofagi. I tecnici stanno lavorando per identificare la faglia, ma credo che ci vorrà ancora un po' di tempo.”

Lo sguardo fisso sull'orecchio sinistro, sull'impianto meccanico seminascosto dalle ciocche bionde. Kroemer se ne accorge, ruota il capo.

“Prima che tu me lo chieda, è un apparecchio acustico. Sono diventato sordo da un orecchio per colpa di una granata. Dicono che non esiste ancora la tecnologia per costruire un impianto interno, ma io ci credo poco.”

“Capisco...”

Gli scienziati superati di gran carriera, Kroemer scorta Veckert attraverso il fiume di persone.

“Ecco, ci siamo.”

Un portello segnato dal numero dodici, neon bianchi ad illuminare la struttura, un tastierino numerico sul lato destro. L'agente inserisce il codice, cifra dopo cifra. Uno sbuffo di vapore, la porta si spalanca sulle tenebre.

“Seguimi.”

Kroemer fa un passo in avanti, varca la soglia. Veckert subito dietro, a pochi centimetri di distanza.

Un flash improvviso, lampade ad incandescenza a trafiggere il buio. Veckert copre gli occhi con la mano, li protegge dal lampo imprevisto.

“Qui teniamo i VORS in attesa di assegnazione. Scegline uno, ce ne sono parecchi a disposizione.”

Le pupille ristrette, abituate all'eccesso di luce, intente a focalizzare i dettagli. Una fila di robot umanoidi, seduti accanto alla parete. Testa a forma di cupola, allungata, antenne da insetto, un singolo occhio centrale. Rollbar posteriore, simile a quello delle formula uno, spalle semisferiche, braccia a tronco di cono munite di artigli.

“Cosa significa esattamente... VORS?”

“Versatile Operating Robotic System – Sistema Operativo Robotico Versatile. In pratica, sono robot muniti di un AI meno scema dei loro simili: in confronto ad un Onirazor, hanno una logica deduttiva tra le sedici e le ventidue volte più precisa ed acuta. Possono anche simulare una personalità, all'occorrenza. A conti fatti, non è molto diverso dal trovarsi di fronte una persona.”

Veckert si avvicina ai corpi di metallo, li passa in rassegna, uno ad uno.

Il terzo attira l'attenzione, diverse ammaccature sulla corazza lucida, un braccio mancante.

“E questo?”

Kroemer si gratta il capo, gli occhi rivolti al cielo, per pensare meglio.

“Dunque... ah, sì. Lui è Blame. Era il VORS del detective Ellmast Ganz. Un ottimo segugio.”

Le dita accarezzano il metallo scintillante, scorrono lungo le imperfezioni, tastano le disomogeneità.

“Che fine ha fatto?”

“Combustibile per i biogeneratori elettrici. È stato ucciso il mese scorso, durante un conflitto a fuoco. Un proiettile Sachson da nove millimetri, sparato da un fucile Atlassian 767. Non abbiamo identificato l'assassino, sappiamo solo che faceva parte della cricca di Chad d'Orsale, quel grasso maiale che gestisce il contrabbando da e verso St. Patrick. Ad ogni modo, Blame ha cercato di proteggerlo... senza riuscirci.”

Kroemer dà una pacca sul capo inanimato, Veckert arretra di un paio di metri.

L'agente sorride divertito.

“Non è rotto, è stato solo disattivato per rimuovere il dato del suo fallimento dalla memoria. Non vogliamo che ricordi qualcosa del suo precedente proprietario, potrebbe interferire con...”

“Voglio lui.”

“Eh?”

“Voglio Blame, così com'è adesso. Riparate la sua scocca, ma non rimuovetegli i ricordi. Lo prendo.”

Kroemer scuote il capo, tocca due volte l'apparecchio acustico, si sincera del suo funzionamento.

“Forse ho capito male...”

Un lungo respiro, il cuore aperto.

“Sono i traumi subiti a fare di noi ciò che siamo. Se mio padre non avesse... agito in un certo modo, io non avrei mai scelto di entrare in polizia. Allo stesso modo, se questo VORS non avesse subito la perdita del suo precedente proprietario... non sarebbe più Blame.”

Kroemer sgrana gli occhi, incredulo.

“Non dirai sul serio! Se non lo riprogrammiamo, il suo database mnemonico sovraccaricherà le routine neurali e...”

“No, per niente. Io credo che il suo sistema non tollererebbe un altro fallimento e si adopererebbe per scongiurare in qualunque modo la mia dipartita. Probabilmente, arriverà a rischiare la sua vita per me, piuttosto che lasciarmi morire. Cos'altro potrei chiedere ad un compagno fidato?”

“Non so se è molto regolare...”

“Oh, ma tu lo renderai regolare, dico bene?”

Uno sbuffo di rassegnazione, la sconfitta negli occhi.

“D'accordo. Ci metterò una buona parola – ma non ti prometto niente, eh? Non sono un pezzo grosso...”

“Non importa. Grazie lo stesso.”

Un tocco leggero a sfiorare il viso del robot.

“Blame, eh?”

Veckert si accuccia, fissa l'iride spenta con un misto di curiosità e ammirazione. Un sorriso allegro tra i capelli cerulei.

“Una recluta dal passato scabroso e un VORS minato dai sensi di colpa...”

Si accomoda accanto al corpo imponente, la schiena appoggiata alla parete, le mani dietro la nuca.

“Eh, sì. Saremo proprio una bella coppia.”

 

3. Abbandono

 

>2060

>distretto 7

>St. Patrick SHIELD

 

“C... come sarebbe a dire ti lascio?”

“Né più né meno di quanto ti ho detto.”

Capelli rosso fuoco, iridi azzurre celate da un basco nero come la notte. Resti di una divisa militare a fasciare un corpo snello e ben formato.

Due figure, sedute ad un tavolo in un bar di periferia. Agitazione palpabile, nervosismo, incredulità a permeare l'aria.

“Mi sono stancata, Veckert. Lo sai, a me piace cambiare: due anni con la stessa persona sono addirittura troppi. Dopo un po', subentra la noia.”

I pugni stretti, i denti digrignati, la mandibola trema.

“Laese... non... non puoi farmi questo! Non puoi abbandonarmi... così!”

“Hai sempre il tuo amico VORS. Fatti consolare da lui.”

Uno sguardo teso all'orologio, l'indice di Laese picchietta sul quadrante.

“Ora devo andare. Paghi tu il conto, vero? Ci si rivede, Vicky. Stammi bene.”

Gli occhi inumiditi, un guizzo imprecisato. Poi, il gelo.

La ragazza abbandona il tavolo, lascia la sedia, diretta verso l'uscita. Veckert scatta in piedi, la raggiunge, le afferra il braccio.

“Esigo una spiegazione! Non puoi esserti – per così dire – annoiata da un giorno all'altro! Ieri...”

“Lasciami. Andare.”

Veckert allenta leggermente la presa, la mano ancora serrata attorno alla manica scura.

“Dico sul serio, Vicky. Lasciami o ti denuncio per violenze e tentato stupro. Lo so, non è vero, ma cosa succederebbe se trovassi un magistrato desideroso di fare facilmente carriera? La tua reputazione sarebbe rovinata.”

“A... aspetta!”

“Ho già aspettato abbastanza.”

Laese si divincola, il braccio libero, il passo svelto verso i vicoli. Veckert la insegue, dimentica il conto, l'oste bestemmia, lancia insulti a destra e a manca. Parole perse nel vuoto, inascoltate.

Due Onirazor di guardia, i mitra da nove millimetri carichi. Pattugliano la strada, in cerca di emofagi. Laese passa davanti, osserva il duo meccanico con indifferenza.

Il primo si ferma per un istante, barcolla, riprende posizione.

Un'interferenza, l'occhio oscilla per un secondo. Rosso, giallo, di nuovo rosso. Il programma di riconoscimento saltato, nuovi bersagli acquisiti.

Il secondo Onirazor non fa in tempo a voltarsi. Una raffica di proiettili, il rivestimento salta in aria, i motori esplodono all'unisono.

“Che diavolo...”

Veckert ha solo il tempo di comprendere, di capire. Non di scansarsi.

E la seconda raffica trafigge il suo viso con violenza brutale.

 

**

 

“Mio Dio! Resisti, Vicky! Ci siamo quasi, forza!”

La barella, gli infermieri, la sala operatoria. Laese ulula, grida in italiano. Nessuno comprende, nessuno può capirla a St. Patrick.

“Codice rosso! Centri vitali lesionati! Non possiamo perdere altro tempo!”

Una lampada rossa accesa sulla parete, intermittente.

“Non può entrare, signorina Riccati. Mi dispiace.”

L'indice puntato verso la luce scintillante.

“Se si spegne, vuol dire che non c'è più nulla da fare. Se diventa verde, non è più in pericolo di vita. Se ha bisogno di qualcosa, si rivolga al resto del personale medico.”

Il medico chiude la porta alle spalle, lascia Laese fuori, in sala d'attesa.

“D'accordo. G... grazie di tutto.”

Laese si accomoda su una seggiola di plastica fissata al muro, controlla le fasciature di garza. Pochi graffi, qualche taglio per l'esplosione del secondo Onirazor. Non era stato difficile fermarlo, dopotutto: un coltello piantato nella schiena, nel centro di controllo e via, saltato in aria prima che potesse uccidere Veckert.

Poi, il sangue. Fiotti di sangue caldo sul volto, sulla gola, impastato tra i bei capelli azzurri, rivoli ematici a rigare la pelle.

Un urlo di terrore respira ancora! Respira ancora!

Il cellulare estratto, chiamata al pronto soccorso, l'ambulanza, le urla concitate dei volontari.

Il caos.

Passi pesanti nella stanza, i pensieri interrotti dal rumore. Un carrarmato in movimento, la stazza colossale.

Un VORS.

Blame.

“>Veckert è qui?”

Laese annuisce, un cenno del capo.

“In sala operatoria. È grave.”

Una lacrima lungo la guancia.

“Non... non riuscivo quasi a riconoscer...”

Un grumo di saliva, ingoiato a fatica.

Blame trema per un secondo, i servomeccanismi cigolano, si contorcono.

“>Se Veckert muore, mi disattiverò.

>Perdere due compagni è inaccettabile.”

“Non è colpa tua. Non... non dovevi stargli vicino... ventiquattr'ore al giorno. Nessuno poteva immaginare che un Onirazor...”

La luce lampeggia, un rosso acceso, il colore del sangue, ritmico, ripetuto.

“Non credevo... che sarebbe finita così. Non riesco... non riesco a dimenticare il suo volto, Blame. Non ci riesco! Era orribile, solo gli occhi erano intatti... e forse è stato proprio questo a spaventarmi di più. Gli occhi, Blame! Il suo sguardo implorante! Mio Dio, ho quasi avuto un mancamento...”

“>Ho acquisito la cartella clinica.

>Le corde vocali sono danneggiate in modo grave;

>Trachea e faringe devono subire un'operazione d'urgenza;

>Nessun danno al cervello, i proiettili non hanno intaccato la scatola cranica.”

Nessuna risposta.

Solo uno sguardo fisso, diretto al pavimento.

 

**

 

Altre due ore, trascorse in silenzio.

La lampada continua imperterrita ad oscillare, bagliori riflessi sull'intonaco candido.

Blame immobile a fissare l'ingresso della sala operatoria.

Laese stringe il basco tra le mani, lo stropiccia, lo arrotola.

“È solo colpa mia. Se non fossi uscita dal locale, Veckert non mi avrebbe inseguito, non avrebbe incontrato quell'Onirazor pazzo da legare e... e...”

Luce verde.

L'uscio si spalanca, il medico emerge dalla massa indistinta di infermieri, la mascherina ancora indossata, i guanti di plastica sfilata con fare nervoso.

“Veckert Rainer non è più in pericolo di vita. Le sue condizioni sono stabili.”

Blame annuisce con un cenno del capo metallico, Laese scatta in piedi.

“Come sta? Posso entrare?”

Il chirurgo deterge il sudore con un fazzoletto, gli occhi stanchi, stravolti dalla fatica.

“... diciamo di sì. Adesso è sotto sedativi, abbiamo dovuto applicare una tracheotomia per evitare il peggio. La bocca è seriamente lesionata, non sarà in grado di parlare... beh, non so dire per quanto. Il volto ha subito ferite molto profonde, una plastica facciale ordinaria non migliorerebbe molto la situazione.”

Laese non ascolta, entra nella stanza, varca la soglia senza attendere il permesso.

Le lenzuola bianche a proteggere il corpo sottile, miriadi di strumenti e attrezzature dall'uso sconosciuto. Alcuni infermieri attorno al letto, alcuni imprecano, altri ridono, scherzano, sciolgono la tensione.

Veckert immobile, la testa sul cuscino, i capelli azzurri sparpagliati dietro la testiera, l'intera faccia ricoperta di bende e garze, il profilo del naso appena accennato.

Gli occhi chiusi, le palpebre calate.

Intatte.

Un tremito lungo il corpo, Laese tentenna, rischia di cadere.

“Non... non tornerà mai più come prima?”

“Non ne ho idea. L'unica soluzione potrebbe essere questa, al momento.”

Un paio di clic, l'immagine prende forma sul monitor.

“E... e questa cosa dovrebbe essere?”

Un'espressione grave sul viso del medico, un sospiro rassegnato.

“Una maschera.”

 

4. Quando Sorgerà il Sole

 

>2061

>A-Gate Ovest

>St. Patrick SHIELD

 

“Sei proprio sicuro di volerlo fare?”

“Non provare a fermarmi, Veckert. Ho deciso e ho già pagato. Punto.”

Il cranio lucido, minuscoli occhialini da vista in stile subacqueo, enormi baffoni neri, fisico da culturista.

“Scusa se provo a non perdere un amico, eh?”

Voce metallica, sintetizzata. Una vecchia radio gracchiante, priva di tonalità. Una maschera scintillante, allungata, ciocche cerulee a ricoprirne la superficie.

“Vecchia cagna isterica! Pensi che me ne vada per colpa tua? Ma figurati! Il buon Moe mica è un tipo da mezzi termini. Se non mi andavi a genio, te lo dicevo prima!”

Moe ridacchia, la valigia in mano, lo zaino sulle spalle. Inspira profondamente, inspira il profumo della libertà.

“Una volta fuori, non potrò più tornare indietro... quindi vedi di riuscire a far aprire questo maledetto scudo una volta per tutte, Veckert! Inchiodali, inventa qualcuna delle tue obiezioni e dimostra che è tutto un inganno del governo, che gli emofagi non esistono!”

Una serie di ritmi convulsi, privi di coerenza, il sintetizzatore perde la traccia, non riesce a tradurre una risata.

“Non esistono? E quello a cui hai spaccato il cranio con un piede di porco cos'era?”

“Un teppista travestito da mostro?”

Il capo scosso con forza, senza smettere di ridere – la voce atona del sintetizzatore a trafiggere l'aria con la sua monotonia.

“No, direi di no! Moe...”

Bagliori smeraldini celati dall'acciaio, parole sincere imbastardite dal meccanismo.

“... come farò senza di te? Anche Cybil vorrebbe che tu restassi... e Laese?”

“Quella puttana di mia sorella può anche andare a farsi scopare da un emofago, per quanto me ne può fregare di lei!”

“Ma come? Non avevi appena detto che gli emofagi non esistono?”

“Esistono quando devono scoparsi mia sorella. Solo in quel momento.”

Veckert non trattiene un sussulto, un coro di singhiozzi gutturali trasmesso come schiocchi privi di significato.

Moe ride a sua volta, una risata possente, argentea, di tutto cuore.

“No, Veckert. La verità è che mi mancherete tutti. Tu, Cybil... persino Laese... ma non posso fare altrimenti: io voglio un futuro... e il futuro è la fuori, capisci? Non voglio vivere in un acquario per il resto della mia vita! Voglio girare il mondo, vedere il Sole con i miei occhi, conoscere gente, donne magari! Molte donne!”

“Non ti bastano le ragazze di St. Patrick?”

Un gesto eloquente, un vai a quel paese scaturito dall'anima.

“Adelmo Riccati?”

Una voce sgradevole, un forte accento tedesco, inglese sputato con brutalità.

Un tizio alto, secco, vestito di nero, camicia e cravatta. Gemelli orribili ai polsi, a forma di fauci di squalo. Occhiali da Sole triangolari calati su un naso allungato, capelli scuri sparati in aria, denti aguzzi contornati da labbra sottili. Uno strano bastone in mano, impugnato come un fucile.

Moe incrocia le braccia, squadra il nuovo arrivato.

“Sono io. Posso sapere con chi sto parlando?”

“Sì.”

Il ronzio sordo dei ventilatori, il cigolio dei vettori di trasporto. Nessun'altra parola. Moe corruga la fronte, reagisce infastidito.

“Ebbene?”

“Ho risposto, no? Mi ha chiesto se può sapere con chi sta parlando. La risposta è sì.”

Uno sguardo sospetto, Veckert analizza la figura sgraziata, i tic nervosi, il sorriso perenne.

Moe rotea il polso, mostra il pugno, le nocche spesse.

“Dimmi chi sei, forza! Nome, cognome, stato sociale, codice fiscale...”

La mano stesa in avanti, in segno di saluto.

“Vortag Alexiei Schlieber. Celibe. Codice fiscale...”

“Mi prendi in giro?”

Moe alza il braccio come per sfondargli la faccia.

“Non è il caso, Moe. Non lo sta facendo apposta. È un ritardato.”

Il tipo bizzarro inclina il collo, sistema gli occhiali con un gesto automatico.

“Dicono che non sono in grado di elaborare concetti complessi.”

Una punta di sospetto nello sguardo di Moe.

“Cosa significa?”

Vortag scrolla le spalle.

“Non ne ho idea. Forse, se lo sapessi, sarei in grado di elaborare concetti complessi.”

Veckert arretra di qualche passo, analizza la situazione con occhio critico.

“È questo il tizio che ti porterà fuori dallo SHIELD?!”

“Vorrei dirti che non è così, ma...”

Un lungo sospiro.

“Sì, temo che sia proprio lui. Il mio intermediario me lo ha descritto bene.”

Un abbraccio possente, Moe stringe a sé il corpicino di Veckert.

“Grazie per tutto quello che hai fatto per me, Veck. Non lo dimenticherò mai.”

Gli occhi umidi, il gigante piegato dai rimorsi, dai se, dai ma, dai dubbi dell'ultimo secondo, dubbi ricacciati nelle profondità dell'animo.

Veckert non risponde, si limita ad attendere, ad aspettare. Aspettare che il cuore rallenti, che la tachicardia si esaurisca. Vorrebbe poter parlare, parlare con la sua voce, il tono rotto dall'emozione.

Ma non può farlo.

E il dolore represso sfocia in un pianto istintivo, il pianto di un bambino spaventato.

“Mi raccomando, Moe... tieniti... tieniti lontano dai guai, okay? E fatti sentire, in qualche modo, in qualunque modo!”

“Ci proverò, Veck.”

L'abbraccio sciolto, Moe si allontana con lentezza esasperante, segue l'uomo-squalo verso la porta d'uscita. Il pessimo inglese di Vortag rompe la magia del silenzio.

“Dobbiamo andare, sbrigati. Mi hanno ordinato di portarti via entro le quattro. Sono le tre e cinquantasette, tre minuti e non eseguo l'ordine. E io non posso non eseguirlo, quindi vedi di sbrigarti o ti porto via con la forza.”

Moe annuisce, tiene stretto lo zaino.

“Va bene. Fammi strada.”

Veckert osserva malinconicamente Moe, il suo lento incedere verso il gate di uscita. Un timido cenno di saluto, la mano oscilla nel vuoto, fin quando l'omone non sparisce al di là del cancello.

 

**

 

Passi lenti, incostanti, privi di direzione. L'asfalto dissestato del distretto sette, un cuore di tenebra nella caotica megalopoli, celato dalla tetra cupola nera. Palazzi di grigio cemento, inserti neri, anonimi, graffiti e scritte a spray sui muri, caricature di emofagi e personaggi di spicco del governo. Veckert rallenta, osserva i fregi, i disegni, nota una versione deformata della sua maschera, la scritta di pece come contorno.

Uno stupido gioco di parole.

Beware the scarred-crow.

Attenti allo spaventapasseri sfregiato.

Il sangue ribolle, risale lungo le arterie, raggiunge il volto. Una vampata di calore, gli occhi si infiammano, le dita serrate, i polsi tremanti.

“Ehi, Veckert! Tutto a posto?”

Una voce nota, amichevole. Il tempo di tornare in sé, di allontanare la rabbia.

E Veckert incontra il suo sguardo.

Una ragazza, snella, mediamente alta. Occhi scuri, capelli neri a caschetto, un'aura di pace serena sul viso.

“Ciao, Cybil. No, non è tutto a posto. Per niente.”

Una rapida occhiata al muro, l'indice della ragazza segue il profilo ad aerografo.

“Da quando te la prendi così tanto per un insulto?”

“Non so, a te farebbe piacere se appendessero una tua foto ad un lampione e vi scrivessero a penna piatta come una tavola?

Cybil arrossisce, chiude le palpebre per un istante, le riapre.

“Vedi, Vicky... so che le ragazze ti interessano solo dalla terza in su, ma sottolineare la mia... ehm, mancanza di spessore non mi sembra molto gentile da parte tua.”

Veckert scuote il capo, si morderebbe la lingua – se avesse ancora una lingua.

“Scusa, ero fuori di me. Fai finta che non abbia detto niente, okay? Non è stata una buona giornata.”

Cybil scrolla le spalle, i palmi al cielo.

“Neanche per me. Sono passata dalla taverna di Moe, ma l'ho trovata chiusa. Era l'unico posto decente in cui mangiare qualcosa che non sembri un budino di alghe. Ora ho fame... e alle quattro di notte non c'è un locale aperto.”

Le spalle accostate al cemento, lo sguardo rivolto allo SHIELD. Cybil riprende il discorso, fissando la superficie lontana che separa la città dalle stelle.

“Sai? È strano. Moe ha sempre chiuso verso le cinque di mattina. In questi anni, non mi è mai capitato che cambiasse l'orario. Non sai quanti chili di stuzzichini ho divorato, seduta al tavolino tre!”

Una mano posata delicatamente sulla spalla, un singhiozzo tradotto in sussulti gracchianti.

“Credo che per un po' non potrai ordinarne, mi dispiace.”

“Per un po'... quanto?”

Le iridi verdi puntate al cielo, all'immensa massa di tenebra che offusca e protegge la metropoli celata.

“Finché il Sole non sorgerà di nuovo su St. Patrick.”

Fine