Storia di una Creatura da Incubo (2014, incompleto)

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Ah, questa storia, per quanto incompleta, ha un posto particolare nel mio cuore: è un'opera corale che segue cinque vicende distinte, collegate da un filo invisibile. Il titolo è riservato alla Creatura, l'unica è sopravvissuta alla guerra tra Paradiso e Inferno, e al suo incessante vegliare sullo Scricciolo, l'ultimo angelo rimasto, ancora un embrione che si sta sviluppando sul monte del Purgatorio. Altre quattro vicende si mescolano alla corcnice di cui sopra: La Città Senza Colori, ispirata dagli Elsen del videogioco OFF; il Pittore di Suoni e la sua società sinestetica; la Principessa Cervo, membro di una razza aliena che ha conquistato parte della Terra; due ragazze su un vagone del treno, dirette lontano dalla polizia che sta dando loro la caccia. Purtroppo, nessuna delle vicende ha raggiunto una conclusione, ma volevo preservare un buon ricordo delle immagini evocate da queste vignette. Chissà che un giorno non ritorni a far loro visita...


Scintilla di vita nel nulla,

dal vuoto soltanto un rumore.

Le palpebre aperte sul cielo, svanito il timore.


Le luci del giorno lontano

nell'aura di pace sospesa

salutan con ali di notte la stella soffusa.


Vagiti celati nel buio

ov'omo recarsi non puote

neonata nel nido, attende confusa

attende il ritorno del padre.

La creatura


La creatura inclinò il capo, sin quasi a sfiorare i capelli dorati. Un brivido antico, le orbite scure pervase dal vuoto di vertigine, l'urlo rauco di versi inumani.

L'unico modo per trasmettere il suo amore.

Il muso picchiettava sulla pelle candida, venata da striature color dell'ebano, la lingua a lambire con delicatezza quel rivestimento così fragile che da poco aveva sostituito una solida corazza chitinosa.

Inspiegabile, certo.

Ma la creatura non si poneva domande, non ambiva a risposte. Tutto ciò di cui aveva bisogno era prendersi cura di lei, permetterle di evolversi dal suo stato larvale.

Un bacio sgraziato, labbra progettate per tutto tranne che per esternare emozioni, sentimenti.

Labbra deformi, certo.

Ma per la creatura non era importante. Nulla era importante.

Solo il suo scricciolo.

Solo lei.

Gli occhi d'abisso ammiravano la figura rannicchiata, la osservavano con un misto di curiosità ed istinto materno, scrutavano nelle profondità di un'anima addormentata, ancora incapace di affacciarsi alla vita.

Si allontanò a malincuore, pochi centimetri alla volta, ogni istante lungo come un secolo.

Un ultimo sguardo al nido, le ali spiegate nel sottile tessuto del cielo notturno.

Poi, il salto.


**


Generico ufficio delle poste, generica città nel generico stato


“Cos'è questa roba? Non vi avevo detto di gettare le raccomandate nel forno?”

“Dovremmo spedirle al centro smistamento della Città Meno Generica.”

Uomini grigi, lo sfondo grigio, le pareti grigie. Grigia è la notte, filtrata dai finestroni grigi. Grigi sono i gatti sui davanzali, i piccioni sui cornicioni. Grigia la Luna, immersa nella cupa immensità della volta celeste. Ombre nere lungo la strada, ombre nere come la pece, prive di pace, ombre striscianti, struscianti, brutalmente brulicanti nel brullo paesaggio notturno. Una luce, grigia, nelle tenebre. Ricorda alla città che il dominio è dell'uomo e non dell'ombra.

“Perché dovremmo spedirle?”

“Perché la gente le spedisce. E vuole che noi le spediamo per loro.”

Impiegati al lavoro, in febbrile attesa. Nessuno si calma, si cerca la resa. E l'altro attende, quatto quatto, di risponder all'offesa.

“Ma noi non siamo loro. Se non siamo i destinatari, perché le conserviamo? Se non siamo i mittenti, perché le inviamo?”

“Giusta osservazione. Non ci avevo pensato.”

Volti grigi, piatti, occhi ridotti a punti farlocchi, la bocca che sbrocca, il naso non tocca. Naso? No, nessun naso. Solo una faccia piatta fatta solo per parlare, sbraitare, garrire.

Orecchie sì, belle sporgenti. Larghe, piatte, ascoltano bene. Capelli? Forse. Grigi, comunque. Come la pelle. E il pavimento. E le scrivanie. E le lettere.

“Io ci ho pensato. Quindi le buttiamo.”

“Ma perché la gente paga per imbucarle, se poi le buttiamo?”

“Proprio perché le buttiamo, la gente le imbuca. Altrimenti dovrebbe permettere ai propri pensieri di vagare senza meta. Scrivono le loro emozioni su carta per imbrigliarle, poi le sigillano e le indirizzano al bersaglio dei loro sentimenti. Così, si liberano di quel particolare stato d'animo e tutto resta così com'è: grigio e perfetto.”

La mano arriccia la cravatta sfatta, a righe un po' più grigie e un po' meno grigie, armonizzate perfettamente dalla camicia grigio chiaro e dai pantaloni grigio scuro.

“Quindi, scrivono per rimanere lindi e puliti?”

“Sì. Sei nuovo qui, quindi l'ignoranza è perdonata.”

L'uomo grigio osserva smarrito, osserva l'ombra intrisa nel muro, tra spenti quadretti raffiguranti il mare plumbeo (un bel grigio carico, quasi nero) e grigie montagne velate di nebbia.

“Le emozioni colorano l'anima. L'ira è rossa, la speranza è verde, l'invidia è gialla. Se un abitante della generica città provasse qualcosa, brillerebbe di tinta diversa e spiccherebbe nella nostra uniformità. Scrivendo su carta i pensieri, il colore si trasferisce sulla lettera e – per questo motivo – viene sigillata nella busta, così che nessuno possa vederlo. Poi, le raccomandate arrivano qui e noi le bruciamo. È così che funziona: aiutiamo la generica gente a mantenere la sua generica, rassicurante uniformità.”

“Capisco.”

Lettere afferrate in fretta e furia, sigilli apposti, malposti, timbri stampati con celebre celerità. L'uomo più anziano (e per questo più grigio) impila le buste, le lega per bene, accende il bruciatore, il gas aperto.

“Non appena avremo finito di raccoglierle, le buttiamo in questo forno isolato. Così, i colori non escono.”

“Perché dovrebbero uscire?”

“Ma è ovvio! Perché se bruci la carta, rompi la loro prigionia emotiva e lasci che imperversino per l'aria perfetta! Pensa che disastro, se un rosso iroso inzaccherasse un semaforo grigio! Le auto non saprebbero più se passare o meno, l'intera generica città si bloccherebbe! E tutto per una lettera aperta, per una singola emozione.”

“E dove vengono incanalati i colori?”

Un dito sollevato, un deposito indicato.

“Vedi quell'anonimo palazzo squadrato?”

“Quello grigio?”

“Sì, quello grigio. Lì ci sono le bombole che raccolgono i vapori di colore emessi dal forno. Le stocchiamo una sull'altra, in ordine perfetto.”

“E quando finisce lo spazio?”

“Aggiungiamo un piano.”

“Ma non possiamo aggiungere piani per sempre! Prima o poi, lo spazio finirà!”

“L'unico limite allo spazio è lo spazio. Se il palazzo raggiunge la Luna, qual è il problema? Si costruisce sulla Luna.”

Gli occhi alzati verso il nero cielo terso, cupe ombre ramificate, velate dalla pallida luce. Il casermone si erge titanico, migliaia, milioni di bombole bombate accatastate una accanto all'altra, in attesa.

L'impiegato più giovane (e per questo meno grigio) sospira in silenzio, in muto assenso.

“E cosa succederebbe se qualcuno aprisse una bombola?”

“Il colore vagherebbe per la nostra perfetta città, insudiciando i perfetti muri grigi. E l'osservatorio del Generico Stato se ne accorgerebbe subito (perché il colore spicca sul grigio e sul nero), quindi la nostra generica città sarebbe rasa al suolo per preservare la perfezione del mondo.”

Un fremito puro nell'aria disfatta, vibrazion d'etere che tutto pervade.

Ali di nebbia, di luce lucente, fregi pastello – non grigi, non neri.

Volo costante, membrane eleganti, copron le stelle e pianeti interi.

Una fugace visione, una visione fugace.

E i due uomini – il più grigio e il meno grigio – osservano la sagoma, la sagoma strana che si erge sui generici tetti della città generica.

“E quello cos'è?”

“Non è grigio, quindi non è importante.”

Un sospiro di sollievo, gli occhi abbassati.

“Meglio così.”

“Scusa?”

“Se fosse importante, avremmo dovuto preoccuparci. E la preoccupazione è nera, nera come la pece, l'unico colore che non si appiccica alle lettere, l'unico che non sappiamo come gestire. Quando ci preoccupiamo, il nero ci macchia, macchia i muri, i pavimenti, la strada, il cielo. E non c'è verso di lavarlo via, no.”

Uno sguardo alle ombre rampicanti, alle radici di tenebra intrise.

“Non trovi che di nero ce ne sia già fin troppo, nella nostra città? Il Sole non sorge da anni e della Luna è rimasta metà. La nostra generica, pacifica esistenza è oramai sospesa tra il rassicurante grigio e il nero del buio. Se non ci preoccupiamo, non altro nero verrà prodotto – e questo è un buon motivo per non curarsi di quell'ente bizzarro.”

Un occhio alle buste, l'altro al forno.

“Ora, cosa ne dici se torniamo al lavoro? Abbiamo ancora molte buste da bruciare.”

I generici impiegati del generico ufficio postale tornarono al lavoro, come genericamente loro ordinato.

E nessuno più si curò della creatura, né del suo passaggio sul generico ufficio postale della generica città nel generico stato.


**


Lo scricciolo


Grigio.

Nero.

Ombre sul suolo.

Lotta intestina, nessuno prevale

ognuno ha il suo ruolo.

Nero.

Grigio.

Ramificazioni.

Le bombole piene di smorti colori

si appropriano delle emozioni.

Ma è grigio.

E nero.

Non vedo nient'altro.

Non odo nient'altro.

Nient'altro conosco.


**


La creatura


Superata la città, superate le tenebre, la creatura riprese il suo volo.

Nemmai si curò delle misere pene di grigi impiegati con buste già piene. Tentò solamente, col cuore esitante, di coglier con l'alma l'essenza: la vita fluttuante in frasi e parole che diedero ad ella coscienza.

Sicura e contrita, tra ombre e rigore, riprese il suo volo notturno. Le stelle accarezzano l'ali di pece, un soffio d'etereo fulgore. E già la sua meta, la prossima meta, persegue con lieto candore.

Lo scricciolo attende, protetto dal nido, attende che il padre ritorni.

E il padre mostruoso, seppur solo in parte, ascolta il richiamo con gli occhi serrati.

Planando per una, mezz'ora o tre ore, infine virò sulla mesa.

Un'altra città, bagliore nel buio, emerse dalla sabbia rosa.

Tinte ormai spente nel cupo tramonto, bagliori corruschi, biancastri.

Neon.

Lampioni.

Fatue scintille.

La Notte rifugge, si acquatta e rintana.

L'enorme creatura rimase in silenzio, con gli occhi protesi in avanti.

E l'ali spiegate, raccolgono vita, raccolgono l'informazione.

La mente si sveglia, da dolce assopita, e assume una nuova funzione.

Riceve i segnali, riceve l'amore che un padre sì strano può dare.


**


Il pittore di suoni


Un gesto meccanico, secco. La mano corre, fende l'aria, traccia segni di fumo e vapore. Un flash vermiglio, abbacinante, multiforme, frastagliato, una nuvola rossa immersa nella pesante atmosfera della stanza. Il ritmo martellante della sintobatteria, i timpani come sinfonia infernale. Ad ogni colpo, un gesto. Ad ogni gesto, un colore. Una nuvola bizzarra, dai contorni vaporosi e indefiniti, un gioco di forme esplosive, sensazioni in movimento, stelle accese per un singolo istante.

Le dita oscillano, trascinano linee iridescenti, arcobaleniche. Flash ad ogni colpo di doppio pedale, l'intensità in accordo con la potenza della vibrazione. Una raffica di lumini abbaglianti, il tocco della bacchetta sulla cerchio del tamburo. Una cascata di note scivolose, strali violacee a formare rette spezzate, intervallati da sanguigne sinusoidi eleganti. L'ultimo assolo di chitarpa, tra blu elettrico distorto e azzurro ghiaccio tintinnante.

Poi, il silenzio.

E il buio.

Un applauso in sottofondo, mani battute con energia, un sorriso a trentadue denti.

“Sei stato bravissimo!”

Il giovane sorride a sua volta, ricambia lo sguardo.

“Non è niente di speciale, Rea.”

I guanti abbassati, residui di colore appiccicati ai polpastrelli.

“Non ho ancora capito come fai...”

Le spalle scrollate con noncuranza, gli occhi bicromatici in continuo scambio di tonalità, i capelli seguono il ritmo dei pensieri, la tinta varia rapidamente, dal verde acceso al biondo dorato. Gli abiti spenti contrastano con lo spettro cangiante del corpo, con le fibre ottiche innestate nei bulbi piliferi.

Rea si avvicina, il pavimento scintilla ad ogni passo, luci celesti, accecanti, la scacchiera delle piastrelle irrorata dalle retrolampade.

“Be', non è facile da spiegare, ma – davvero – non è neanche così difficile!”

La ragazza inclina il capo verso destra, arriccia i capelli notturni, le iridi oscillano tra il violetto e lo scarlatto.

“Provaci!”

Un lungo respiro, la mente in moto, si tuffa nell'abisso della ragione, emerge dal mare di sentimenti.

“Le emozioni sono colori, giusto? Ogni volta che proviamo qualcosa, i nostri corpi lo riflettono modificando la tinta dei capelli, degli occhi. Se siamo tristi, saremo dominati da tonalità opache e fosche; se siamo su di giri, il nostro animo brillerà di tenui bagliori solari, pieni di vita. Fin qui mi segui?”

Una risata argentea, un lampo dorato ad illuminare – letteralmente – il viso.

“Dovrei essere scema per non capirlo! È il primo articolo della costituzione di Anakyu, quella che dobbiamo imparare a memoria da bambini!”

La mano destra massaggia il capo, le parole scorrono come un fiume in piena.

“Ma ai bambini insegniamo a materializzare i suoni?”

Rea accorcia le distanze, i pugni chiusi in posa plateale sui fianchi.

“Materializzare i suoni?”

Koeru preme un interruttore, le casse si spengono, i fari indeboliti sbiadiscono nel vento.

“Dato che ogni emozione prende forma fisica attraverso i colori, non abbiamo quasi bisogno di esprimere a parole i nostri pensieri: lasciamo che sia il nostro corpo a comunicare per noi. Abbiamo sviluppato il linguaggio solamente per discutere di ciò che non ci riguarda in modo diretto.”

Rea modifica l'inclinazione del capo, l'abito bianco corto oscilla tra diversi pattern ideografici, simboli vergati da mano esperta. Scritte irreali campeggiano sul tessuto, mimando fini caratteri giapponesi senza veicolarne il significato.

“Continua.”

Le dita di Koeru fremono, le falangi articolate con delicatezza, in modo continuo.

“Io sono sicuro che anche i suoni possano trasmettere sensazioni... e quindi colori. Tutto sta a saperli interpretare.”

Un colpo con la nocca, le casse vibrano per un istante.

“Una chitarpa – da sola – non prova emozioni. È solo un mezzo inanimato, un tramite. Il chitarpista, invece, si lascia sopraffare dai sentimenti mentre suona il suo strumento, la chitarpa stessa diventa un'estensione del suo io. La musica generata dalla risonanza della sua anima acquisisce un significato profondo, raccoglie le sue sensazioni, le incanala nelle note e permette loro di assumere consistenza fisica. Purtroppo, quando il suono viene registrato, questa informazione viene persa.”

“E si può recuperare?”

Gli occhi di Rea scintillano, brillano di luce celeste, l'interesse alle stelle. Koeru impugna una pistola immaginaria, l'indice puntato sulla giovane, uno scatto del pollice.

“BUM! Centro! Sì che si può recuperare! È esattamente quello che faccio!”

Un attimo di silenzio per trovare le parole giuste, Koeru chiude le palpebre in contemplazione, i capelli oscillano tra varie tonalità di blu.

“Lascio che le strofe, i ritmi, i ritornelli entrino nella mia mente e generino sensazioni, emozioni, stati d'animo! Spengo il cervello, la mia parte irrazionale prende il sopravvento... e la musica prende forma, si manifesta come nuvole policrome, pastellate, nelle forme più varie!”

Rea si mette a sedere sulla cassa acustica, gli stivaletti leggeri oscillano in aria.

“Mi hai detto una bugia. Tu non recuperi le emozioni. Ne crei di nuove.”

Il pollice scatta all'indietro.

“BUM! Altro centro! Ed è per questo che mi definisco un pittore di suoni!”

“Eh?”

Il giovane in posa trionfante, le mani serrate dietro al capo.

“Io interpreto ciò che ascolto a modo mio, generando un mio personale pattern di sensazioni – mio e di nessun altro. È la mia visione di ciò che quella canzone trasmette: non è universale, né condivisibile. Una goccia nell'Oceano delle opinioni!”

Rea scuote il capo, incerta.

“Non capisco...”

Un lungo sospiro.

“Lo immaginavo. Sai, Rea? Vedere le emozioni è bello, ma soffoca l'arte. Per non staccarti dal coro, cerchi in ogni modo di pensarla come gli altri, perché il tuo dissenso sarebbe subito palese. Questo genera monocorrenti emotive che portano la gente a vivere in una specie di stasi: le persone diventano incapaci di prendere una decisione per il timore di essere disapprovate. Ormai, è diffusa l'idea che un determinato evento susciti sempre le stesse sensazioni in chiunque...”

“Perché? Non è così?”

Koeru sputa per terra, una vena di disgusto nella voce aspra.

“Niente di più falso. Anche il rosso più uniforme ha le sue sfaccettature di azzurro. Semplicemente, non vogliono capirlo. O non possono.”

Una lama di ghiaccio, l'iride bianca, gelida.

“Tu che cosa hai provato ascoltando la canzone? Non parlo della mia performance, solo delle note.”

Il viso pensoso, Rea si raccoglie in se stessa, analizza la propria mente, incapace di accettare la realtà. Le parole sgorgano schive, si infrangono sulle labbra cupe.

“Nulla. Assolutamente... nulla.”

I colori sostituiti dal nero, l'abito si scurisce, si crepa, strappi e crepitii, i capelli assumono tinte corvine, gli occhi spenti. La preoccupazione, la disperazione, l'inadeguatezza. La consapevolezza del torto. Di essere diversa da Koeru. Di non condividerne la stessa sostanza. Di non avere la sua stessa anima.

Koeru scrolla le spalle, accarezza la zazzera di Rea con dolcezza.

“Non abbatterti! Anch'io ero come te. Poi, ho imparato.”

Un barlume di speranza.

“Come?”

“Sono entrato in contatto... con un elemento di disturbo. E questo ha cambiato la mia visione della vita.”

“Elemento... di disturbo?”

Koeru annuisce, ammira il ritorno graduale delle tinte, la fosca tenebra scivola via come un serpente, si acquatta nel buio, arretra per ora.

“È una storia lunga, non posso raccontartela ora. Ma aiutarti sì.”

Un occhio al cielo, oscurato dalle troppe luci artificiali, uno sguardo alla lontana Luna. Una Luna completamente grigia, intessuta in un drappo di tenebra. Un battito d'ali nel buio, una sagoma a celarla agli occhi – per un istante solo. Rea non lo nota, Koeru lo ignora: rovinerebbe la solennità del momento. Un tono a metà tra il provocante e il sicuro, i capelli di fiamma a sottolineare il concetto, le mani strette attorno a quella di Rea, quasi giunte in preghiera.

“Verresti con me in un posto, stasera?”


**


Lo scricciolo


Colori.

Rosso. Verde. Blu.

Colori.

Giallo. Ciano. Magenta.

Tinte mischiate, unite, abbracciate.

L'iride emerge dall'arcobaleno.

Bianco che abbaglia, bagliori corruschi.

Finisce la pioggia, tornato il sereno.

Pioggia...

Cos'è la pioggia, papà?

Me lo spieghi, papà?

Vorrei tanto saperlo...


**


La creatura


Lasciati da parte i neon, i lampioni, la creatura planò sulla piana distante. Rovine diffuse, frammenti di antiche, o moderne, civiltà decadute. Un'ombra maestosa, al chiaro di Luna, membrane spiegate a coglierne i raggi. Timide nubi, nel cielo infinito, plumbee, feconde, scroscianti. Un volo più in basso, a tastarne l'essenza, carpirne il muto fulgore. Limpide gocce, xilofono d'oro, ticchettano su polvere e sassi. Un treno sperduto si muove tra i massi, serpente nel triste deserto. La volta s'infonde d'un fresco acquazzone, che l'anime vive ora allieta.

Con curiosità e rinnovato vigore, la creatura si lanciò sul percorso.

E inseguì il vagone sperduto, nel vuoto infinito.


**


Due sconosciute


Cigolii sommessi, rantoli meccanici. I perni di congiunzione scricchiolano tesi, smorzati dalla ruggine e dai segni del tempo. Un gioiello, all'inaugurazione. Il treno merci più rapido dello stato, del mondo. Questo, vent'anni prima. Ora, un rudere su rotaie, il baluardo di un passato estinto che si trascina pigramente da un giorno a quello successivo, incapace di porsi domande. Incapace di rispondere.

Casse di componenti per l'industria robotica di Clerghant, cingoli, arti artificiali, cuscinetti, motori ancora imballati in rigidi container. Una ragazza sdraiata, assopita, nera di fuliggine, i vestiti strappati in più punti. Ferite da taglio, da arma da fuoco, tamponate con garze e cerotti, bende piazzate alla meno peggio sul corpo esile. I capelli castani bruciacchiati, segnati dal trauma, le palpebre chiuse in un sonno liberatorio. C'è un'altra ragazza sul treno, seduta accanto alla prima. Minuta, sottile – malnutrita, forse. Mostra meno anni di quelli che ha, fasciata com'è nella sua felpa di due taglie più grande e in quei jeans troppo larghi e rattoppati. Un pulcino negli abiti di un'aquila, l'impressione che dà. Un caschetto biondo cenere, ciuffi ribelli sulle spalle, lungo il collo, occhi azzurri – ma non di ghiaccio. Desiderio di vita, di esistenza, solenne, immutabile. E le cuffie. Due enormi cuffie blu, di quelle per sentire meglio la musica. A ben vedere, le cuffie sono scollegate. Nessun apparecchio, nessun lettore multimediale, nessun oggetto di qualsivoglia forma o funzione che riceva lo spinotto. Solo le cuffie.

Per ascoltare la realtà.

Un ticchettio insistente, una cascata di perle.

Piove, fuori dal vagone, sul vagone. E le gocce rintoccano, come minuscoli orologi.

La ragazza sdraiata geme, si dimena. Si sta risvegliando, ne siamo sicuri. Ed ecco che la mano destra si schiude, le palpebre lentamente si aprono, lasciando che il mondo torni in contatto con lei. Uno strano sorriso ad accoglierlo, il sorriso di una persona non abituata a sorridere, a rapportarsi con gli altri. Più che un sorriso, un tentativo di sorriso. La buona volontà non manca, sono i risultati ad essere insoddisfacenti.

“Ben svegliata.”

La bella addormentata si stropiccia gli occhi, il viso lordato da nere chiazze di carbone.

“Quanto... quanto ho dormito?”

“Non troppo, per fortuna. Fra un'ora dovremmo essere a Clerghant.”

Capelli castani mossi, iridi marroni intenso. Un solo colore, non cambia col tempo. Ma non è neanche atono. Non è come ad Anakyu, non è la generica grigia città – anche se non siamo così distanti, sulla carta geografica.

CHI – è questo il nome della seconda ragazza, quella con le cuffie per intenderci – siede per terra, la schiena adagiata pigramente ad una cassa di metallo.

“Dobbiamo prepararci. Non sarà facile evadere i controlli all'arrivo: sembro una disadattata con questo felpone.”

L'altra ragazza gattona, si siede anch'essa, tenta di raccogliere le frange in cui la gonna è stata ridotta.

“Ma no! Sei... sei tenera. Cioè, fa tenerezza vederti così... fragile! Piuttosto...”

Le dita scorrono tra gli strappi del tessuto, sfiorano la pelle bianca.

“... io sembro una vagabonda, conciata in questo modo. È più probabile che fermino me.”

CHI non risponde, si limita a squadrarla da capo a piedi. I suoi occhi sembrano scrutare aldilà delle pieghe, della seta raffinata – i poveri resti di un completo da figlia di papà – sbirciare il candore celato.

CHI respira piano, prende coraggio, tenta di superare i suoi limiti – di interagire, forse.

“Prima di conoscerti, non avevo mai visto un altro essere umano da così vicino. Sul serio. Ho sempre vissuto ai margini della strada, rubacchiando cibo qua e là, sfilando qualche portafoglio ad abbienti sconosciuti.”

“Eh? Stai scherzando, vero?”

“Perché dovrei, E... Elany, giusto? È così che ti chiami?”

Elany annuisce con un cenno del capo, il corpo scosso da un primitivo terrore.

CHI si rannicchia nell'angolo, chiude gli occhi, lascia riposare la vista.

“Sei... sei una ladra?”

Nessuna risposta, la domanda ignorata. Sembra quasi che CHI non se ne sia nemmeno accorta.

“CHI, voglio una risposta. Sei davvero una ladra? Una borseggiatrice?”

Silenzio, ancora silenzio.

Elany si alza in piedi, l'andatura malferma, le gambe protestano. Le mani cingono le spalle dell'altra ragazza, la scuotono con vigore.

“Rispondimi! Voglio sapere!”

CHI apre le palpebre di soprassalto, come se non si fosse accorta di nulla.

“Che...”

“Tu rubi per vivere? Sei una ricercata?! Dimmi di no, ti prego! Dimmi che non ho messo a repentaglio tutto ciò che avevo per...”

Elany scoppia in lacrime, un pianto disperato, abbracciata a CHI, alla sua felpa troppo larga.

“... anche se è una bugia, anche se non è vero, dimmi che siamo dalla parte della ragione! Dimmi che non sei una sovversiva, che quegli agenti ti inseguivano perché erano cattivi, che sei la vittima!”

Una breve pausa per riprendere fiato.

“Ti prego, ti scongiuro! Dimmi che ho fatto la cosa giusta ad aiutarti!”

Non esiste giusto o sbagliato, torto o ragione assoluti. Bene o male sfumano l'uno nell'altro. Bianco e nero si mescolano nel grigio.

CHI vorrebbe rispondere in uno di questi modi, esprimere il suo punto di vista con franchezza.

Io voglio vivere. Voler vivere è bene, non è così? La Polizia per la Perfezione vuole arrestarmi, incarcerarmi. Togliere la libertà è male, non è forse vero? Ma la Polizia è la personificazione del bene, della rettitudine. Quindi è la mia libertà ad essere sbagliata. Quindi sono io ad essere sbagliata. Quindi sono nel torto. E tu hai impedito l'arresto. Quindi anche tu sei nel torto. A conti fatti, siamo due criminali, ora.

Vorrebbe aggiungere le sue considerazioni personali, esternarle a quella fragile creatura incrinata, abbarbicata al suo corpo, in cerca di calore, di comprensione. CHI non sa relazionarsi col mondo, non ha idea di come si faccia. Allora estende i sensi, chiede alla realtà come comportarsi.

Il ticchettio della pioggia.

L'epifania.

“Hai sentito, Elany? Fuori piove.”

“Oh?”

“La pioggia... milioni di gocce armoniose che vibrano all'unisono, raggiungono l'arido suolo e donano nuova vita ai semi celati dalla rena rossastra. Riesci a percepirne la bellezza?”

“Cosa... cosa c'entra, adesso?”

CHI tenta di ricambiare l'abbraccio, in modo goffo, impacciato, le maniche esageratamente lunghe rendono i suoi movimenti ancora più bizzarri.

“Quando ero piccola, ero incuriosita dalla pioggia. Una cascata di dardi d'acqua che cadono dal cielo e impattano sui marciapiedi, sull'asfalto rigato. Non capivo, non riuscivo a comprendere il significato di quel fenomeno. Perché piove – mi chiedevo – a cosa serve la pioggia?

Un momento di esitazione, come per collegare meglio le parole.

“Sai? Questo maglione mi accompagna da quando ho tre anni... e per molto tempo è stato il mio unico capo di abbigliamento. Quando pioveva, mi ritrovavo inzuppata, intrisa d'umidità fino al midollo... e ci volevano giorni per asciugarmi, dato che non possedevo altro per proteggermi dal freddo. In quei momenti, odiavo la pioggia. La odiavo con tutta me stessa, perché ogni volta rischiavo di ammalarmi, di prendermi un raffreddore ed essere trovata più facilmente.”

Le dita sfiorano il tessuto grigiastro, sformato dal tempo.

“Pensa ad una bimba di tre-quattro anni intabarrata in questa stessa felpa, completamente fradicia. E considera che quella bimba non può toglierla perché è tutto ciò che ha. Riesci ad immaginarla?”

Un cenno nervoso del capo, un cenno di assenso.

“Credo... credo di sì. In pratica, dovrei pensare a te in formato mignon, giusto?”

“S... sì, più o meno.”

CHI porta lo sguardo al cielo, in cerca di ispirazione.

“Per la bimba, la pioggia è un bene o un male?”

“Un... un male, direi.”

“Okay, ora senti come continua la storia: in quel momento, due agenti la notano ed iniziano ad inseguirla. È tutto tranne che perfetta, un pulcino bagnato vestito in modo indegno. Gli agenti sono adulti, atletici, hanno anni di esperienza sul campo. Impossibile per loro farsi mancare l'occasione. In un attimo, la raggiungono e la afferrano. In quell'esatto istante, una donna di passaggio assiste alla scena: un minuscolo esserino tremante dal freddo bloccato dalle mani di due omaccioni armati. La donna si intenerisce, non riesce a rimanere indifferente. Quella bimba le ricorda la sua figlia piccola e – nel vederla così intirizzita e indifesa – l'istinto materno ha il sopravvento. Va dalle guardie e dice loro che è sua nipote, che stava giocando ed è finita in una pozzanghera. Gli agenti borbottano, ma alla fine si scusano e la lasciano andare.”

“Cosa significa?”

“Se la bimba non fosse stata infradiciata dalla pioggia, forse la donna non si sarebbe mossa: avrebbe visto una piccola peste urlante trattenuta a stento da due validi tutori dell'ordine. Possiamo dire che la pioggia ha mosso a compassione il suo animo, salvando di fatto la vita alla bambina.”

Elany si siede sul fondo metallico del vagone, lo sguardo smarrito.

CHI sistema le cuffie con calma, una pausa scenografica prima della domanda finale del quiz.

“In quel caso, la pioggia è stata un bene o un male?”

“Un... un bene?”

CHI abbozza un tentativo di sorriso.

“Vedi, Elany... prima mi hai chiesto se sono nella ragione o nel torto, se sono una vittima o una dei carnefici. La risposta è nessuna delle due: io sono la pioggia...”

L'indice della mano destra emerge dalla manica, sfiora la punta del naso di Elany.

“... e tu sei la bimba.”

Elany si raccoglie in un muto silenzio, i capelli castani ricadono a ciocche sul corpo.

“...”

Un sorriso sottile si fa largo sul viso – un sorriso vero, non come quello di CHI.

“...grazie...”

Le parole d'affetto si fondono col delicato clacchettio di mille, agili ballerini di tip tap – lo scroscio di una cascata di minuscole perle tintinnanti, chicchi di riso che rimbalzano sul lucido metallo.

E il concerto della pioggia cinge Elany in un abbraccio, come il caldo ventre di una madre, vanificando le preoccupazioni, riportando un briciolo di serenità.

Nuvole nere, turbolenze, acquazzoni.

E, infine, l'arcobaleno.

A risvegliare la speranza.


**


Lo scricciolo


Vedo una luce,

là in fondo.

So cos'è la pioggia.

Paura. Timore. Speranza.

Uniti. Inscindibili.

Un unico tutto.

Inizio a capire, inizio a vedere.

E scruto il mio corpo.

Non è come il loro, ha corna e striature.

Rimembrando, ricordo un granchio.

E, specchiandomi, vedo un cervo.


**


Sicut Cervus


Una serie di soprammobili di vetro, finemente soffiati da validi artigiani. Ampolle, statuine, oggettini di cristallo scintillante. Una mano affusolata accarezza la superficie liscia, le quattro dita a seguire i contorni delle suppellettili, con delicato interesse. Uno specchio, nella sala. Un enorme specchio, antico, la cornice levigata ed intessuta di arabeschi in ebano. Il riflesso di una stanza, ampia, ariosa, le finestre aperte su un cortile luminoso. Una figura femminile al centro del locale, slanciata, lunghi capelli ramati a ricadere dolcemente sulle spalle, scivolando giù fino all'ombelico. Incarnato chiaro, un sottile velo di abbronzatura, curve dolci ma non prosperose, iridi di un giallo solare, intenso – quasi brillanti. Mani tetradattili, zoccoli in luogo dei piedi. Corna ampie, ramificate, protuberanze di trenta-quaranta centimetri a contornare un viso arrotondato su cui si aprono due occhi sottili, da cerbiatta. Tatuaggi neri, tribali, lungo la schiena, un pizzico di azzurro a completare la composizione.

Un diorama, un istante cristallizzato nel tempo. La ragazza contempla immobile i fragili oggetti disposti, esposti in fila. Non un sussulto, solo il lento ritmo del respiro, le dita salde, le unghie ben curate. Lo scorrere degli istanti scandito da un sonoro ticchettio. Tre sferette metalliche sospese, una quarta oscilla, colpisce le altre, la prima rimbalza e torna indietro, rimettendo in moto la quarta, ripetendo il ciclo all'infinito.

Passi pesanti, sgraziati. Rovinano la composizione, la perfezione dell'immagine.

Ma un Kravna non sa cosa sia la perfezione. Un Kravna non sa cosa sia la delicatezza.

“Hirschkuhprinzessin? Devo riferire notizie importanti.”

La giovane risponde con un cenno del capo, un lieve fruscio tra le corna armoniose. Agili pupille inquadrano il nuovo arrivato, lo scandagliano da capo a piedi.

Rozzo, possente. Spalle e deltoidi ipertrofici, pettorali mostruosi. Pelle verde, squamosa, nessun attributo sessuale identificabile. Tre dita per mano, tre dita per piede, artigliate. Una testa piatta, da rospo, denti irregolari di lunghezza variabile, occhi da rana, lingua estensibile a penzoloni – un metro, un metro e mezzo di estensione.

“Catturato autoctono, trovato in fogne. Femmina. Collegabile.”

La lingua massaggia le labbra screpolate, le inumidisce contraendosi ritmicamente. La giovane chiude le palpebre, le corna scintillano, emettono luce fluorescente, segnali chimici per superare l'handicap.

Il Kravna si inchina, gli artigli trattenuti per non ferire il pavimento.

“Porto qui. Chiaro.”

Il colosso si rialza, alza il braccio, il primo dito agitato in segno di invito. Due Kravna compaiono dalle tenebre del corridoio, sottili differenze tra uno e l'altro. Cingono una ragazza, capelli a caschetto azzurri, sporca, gli abiti in pessimo stato – vent'anni al massimo. Le lingue dei carcerieri come catene, serrano il corpo inerme in una morsa, si aggrovigliano sulla pelle diafana, bloccano ogni singolo muscolo.

“Compatibile ottantatré per cento.”

Le corna scintillano ancora una volta, trasmettono il messaggio. I Kravna sciolgono la presa, la prigioniera crolla sul pavimento, esanime.

“Andiamo. Chiaro.”

Il primo Kravna indica l'uscita, i due accoliti abbandonano la sala, si immergono nuovamente nell'oscurità senza fine. Il capo segue a stretto giro, le gambe ruvide abbandonano la sicurezza della luce, dirigono verso il corpus del palazzo.

Silenzio, silenzio pesante, rotto soltanto dal ticchettio del pendolo.

Gli occhi di cerbiatta incontrano iridi rosse, fredde, ostili. Determinazione, angoscia, raccapriccio, coraggio, odio, odio, odio! Sentimenti condensati in uno sguardo, in un'immagine da conservare al riparo dallo scorrere del tempo.

“Non ho niente da dirti, hirsch. Non saprai nulla da me!”

Uno sputo, la saliva gorgoglia, si appiccica al pavimento.

Indole ribelle, indomabile, il fuoco dell'insurrezione.

“Spero che ti taglino quelle corna e le espongano assieme alla tua testa in qualche museo di storia naturale! Morte ai cervi!”

Il pugno serrato, sollevato come un simbolo politico. La ragazza-cervo osserva con curiosità la nuova arrivata. Giacca e pantaloni di jeans, scarpe sdrucite nere, le stringhe slacciate, t-shirt nera ricoperta da scritte incomprensibili. Capisce solo due parole – le uniche scritte in caratteri latini, Azure Esperanto.

E le associa alla creatura in sua mercé.

Azure si porta in ginocchio, le braccia tese, nessun segno di resa. Fissa schifata il corpo della cerva, gli zoccoli rigidi, le orecchie animalesche, i mignoli mancanti. Una sola benda di tessuto ceruleo, a fasciare il collo sottile. Nessun altro abito, solo i lunghi capelli a celare i dettagli anatomici.

L'aria lacerata dall'invettiva di Azure, intrisa di rancore allo stato puro.

“Mi avete catturato, ma la ribellione non è finita! Degenstadt sarà di nuovo nostra e presto, presto...”

Azure si ferma, frena la lingua.

Qualcosa non va.

“Dico, mi stai ascoltando? Capisci... capisci quello che dico?”

Nessuna risposta, nessun movimento. Le dita della cerva continuano imperterrite ad accarezzare i soprammobili. La cerva volta la schiena, interrompe il contatto visivo.

Devo approfittarne.

Azure cerca freneticamente nelle tasche, in tutte le tasche. Spera di trovare un'arma, una delle sue armi, magari sfuggita alla perquisizione.

Se uccido la hirschkuhprinzessin, questi maledetti finiranno nel caos!

Una pistola, un coltello, qualunque oggetto in grado di arrecare ferite.

Invano.

>Non serve che ti affanni, Azure Esperanto. Non hai nulla.

Una voce aspra, artificiale, un led brilla sul nastro azzurro, le labbra chiuse.

Il rimbombo degli zoccoli sul pavimento, passi in avvicinamento.

Azure trasalisce, un attimo di panico. Un rapido controllo, gli altoparlanti individuati, sulla volta affrescata. Una piccola tastiera sul tavolo, accanto agli oggettini di vetro, le dita della cerva trafficano sui pulsanti virtuali.

>Vorrei poterti parlare normalmente, ma non posso. Non ho voce.

Il secondo dito della mano indica la fascia azzurra, ne afferra un'estremità, la scioglie con calma innaturale.

>Non più.

Un'orribile cicatrice, cinque centimetri all'altezza della laringe. Ferita da taglio. Un coltello umano.

Azure arretra, tenta di guadagnare il corridoio.

Ma la porta è chiusa.

Chiusa dall'esterno.

>Secondo le nostre leggi, dovrei ucciderti per tentato regicidio. Tuttavia, sei compatibile con me.

La cerva avanza, un passo alla volta, rumore di zoccoli in movimento. Zoccoli lindi, freschi di lucidatura. Le quattro dita esposte, a cercare la fronte. Azure scatta, tenta la fuga, cerca di allontanarsi.

Ma è tutto inutile.

La mano raggiunge il bersaglio, annulla la mente, il cervello spento. I neuroni ubriacati, stimoli visivi multipli, allucinazioni auditive. Azure interdetta, non può sottrarsi, non ne ha la forza. I muscoli cedono, crolla come una bambola, sotto il giogo del contatto neurale.

Un istante di lucidità, un'immagine nitida e allo stesso tempo indistinta.

Un picco arido, incendi senza fine, il cielo violaceo, infestato di nubi sanguigne. Distese di sabbia polverosa color dei mattoni, pietre spezzate, frammentate. Centinaia, migliaia di gusci di granchio spaccati, sparsi tra piume infangate – ali strappate, massacrate da lame infernali. Una creatura mostruosa in volo, membrana planante, occhi di pece, vuoti, tristi. Un lungo lamento, dal cor disperato, al Sole celato da nuvole rese rossastre dal fuoco bruciante che il mondo divora.

>Se sarai la mia voce, ti sarà tutto chiaro.

Poi, il buio.

E il rumore pressante di jet in decollo.


**


La creatura


Domata la pioggia, rivisto il passato, con garbo volò verso il nido.

Lo scricciolo attende, attende il ritorno del padre dal viaggio fecondo.

Un corpo sì acerbo, in pieno sviluppo, sgorgato dal guscio rotondo.

Le corna si impennano, prendono forma, emergon dai capelli d'oro.

Seta sottile, dal biondo colore, già sparsa su membra minute.

Nel nido lei aspetta, protetta dall'ombra, da luce, da ogn'altro elemento.

Un mondo ormai privo di riferimento richiede implorante il risveglio.

La creatura scende, si abbassa di quota, lontano ormai il treno ed il sogno.

Lontano il grigiore, le tinte e i colori, lontano il palazzo dei cervi.

Un solo pensiero, un solo obiettivo per porre al disastro rimedio.

Collasso dei cieli, crepuscolo e morte, la guida che ormai non c'è più.

La creatura freme, le membra già treman, gli arti convulsi e contorti.

Relitti di guerra, rovine di morte, nessun vincitore o trionfo.

L'amore diffuso, gentile, paterno – amore inadatto all'aspetto.

Con delicatezza e un po' di timore, gli artigli si posan sul bordo.

E l'ali sottili abbracciano strette del mondo il futuro sbocciato.


**


Sicut Cervus


Il rombo assordante dei motori, dei lanciamissili. Bombardamento a tappeto, Degenstadt sventrata, colpita al cuore. Le mille fontane esplose, distrutte. Statue secolari mutilate da razzi. Kravna spacciati, intrappolati dalle macerie, umani in assetto da guerra, diretti al palazzo. Grida in strada – le teste dei cervi! – gli hirsch e le hirschkuh cacciati come bestie. I ramponi in mano, gli arpioni trafiggono la pelle delicata degli Altri, danneggiano gli organi interni. Gli hirsch si arrendono, non oppongono resistenza, si arrendono alla carneficina. Implorano pietà, in ginocchio, le corna spezzate, avvilite. Ma non basta.

Nulla placa il desiderio di vendetta, di rivalsa, nessun tributo od offerta. La furia cieca degli esseri umani sovrasta la pace, l'indole quieta dei cervi, non lascia alcuno scampo.

I Kravna presenti non possono nulla, vani gli sforzi in difesa dei padroni. Sfocia la rivolta, si riversano in strada migliaia di manifestanti, aggrediscono le porte del palazzo, le sfondano a colpi di accetta. Degenstadt è degli uomini! Degenstadt è libera!

Presto raggiungono la stanza centrale, dove riposa la hirschkuhprinzessin, la reggente.

La trovano nuda, sdraiata sul letto, in spregio alle sue stesse leggi. Predicano decoro, puniscono chi si mostra. Evidentemente, per lei non vale.

L'ira cieca dei ribelli si riversa sul suo corpo, sul simbolo dell'occupazione.

E fiumi di sangue violaceo si spargono sulle coperte.

“Basta così.”

La voce di Azure, non i suoi pensieri. La cerva ne possiede la mente, la sfrutta per sé – parlare, parlare davvero! E Azure parla, tramite inerte di un'altra creatura.

“Davvero interessante, il contenuto della tua memoria. Non credevo che foste così ben organizzati, addirittura il supporto aereo...”

La cerva estrae uno strano apparecchio, un anello con sei protuberanze.

“Non sai quanto è bello parlare di nuovo, Azure Esperanto! Sono anni che volevo farlo! Però è scomodo rimanere collegata in questo modo: doverti toccare le fronte ogni volta che voglio dire qualcosa è orribile.”

La mano sinistra preme un pulsante, il meccanismo scatta, gli aghi estroflessi.

“Non sentirai nulla, te lo prometto.”

L'anello agganciato attorno al collo, la pelle traforata dalle punte. Un led verde acceso, brillante.

Le dita si allontanano dalla testa, Azure scrolla il capo, ritorna cosciente.

“Co... cosa è successo?”

Led rosso, occhi sbarrati, pupille ristrette.

“Ben tornata, Azure. Ora sei parte di me. Ora sono parte di te.”

Led verde, consapevolezza nelle iridi scarlatte.

“Mi... mi stai usando come mezzo?”

Led rosso, parole non sue, coscienza svanita.

“Sì. Ora sei la mia bocca. Fintanto che indosserai quel collare, quando vorrò dire qualcosa, sarai tu a parlare per me.”

L'anello afferrato con forza, Azure tenta di strapparlo. Un dolore tremendo, fitte attraverso i nervi, segnali impazziti al midollo.

“Fossi in te, non ci proverei. Hai degli aghi impiantati nella pelle, una manomissione del kontaktring causerebbe l'immissione di un potente veleno direttamente nella grande circolazione. Moriresti entro un paio di minuti, se ti può interessare.”

Gli occhi da cerbiatta contratti in un sorriso malevolo, la bocca si muove in sincro con le parole che non può pronunciare.

“Ah, sempre se può interessarti... quando io parlo, il kontaktring libera una droga lievemente eccitante. In pratica, il tuo corpo proverà sollievo ogni volta che lo utilizzerò per esprimermi.”

“Sollievo?”

Le dita sottili massaggiano il mento affilato.

“Vedrai che ti ci abituerai. Io ho assoluto bisogno di te...”

Uno luccichio nelle corna, una macabra risata emersa dalle labbra sbagliate.

“... tu non potrai più fare a meno di me.”

La cerva accanto alla finestra, uno sguardo al cielo sgombro da nuvole. Aeronavi di difesa stazionate, i cannoni a puntare il vuoto. Un guizzo ultraterreno, una sagoma scura, enorme. Le ali da pipistrello, il corpo immenso, tenebra pura.

La testa scossa con vigore, gli occhi chiusi e riaperti.

Nulla, solo l'azzurro infinito.

Un'allucinazione?

Cambiare discorso, tornare alla realtà, al momento corrente.

“Ah, ora che ci penso non ci siamo ancora presentate. Io ti ho chiamato Azure Esperanto perché erano le uniche parole che ho capito sulla tua maglia. Hai un nome?”

“Non lo verrò certo a dire a te, sporca hirschkuh!”

“Molto bene, Azure. Io sono Wilhelmina Edenore Helleana, hirschkuhprinzessin di Degenstadt. Vorrei dire che è un piacere, ma non è così.”

La cerva si accomoda sulla scrivania, le lunghe gamba incrociate, gli zoccoli a contatto.

“Dato che odio sprecare troppe parole, preferirei che mi chiamassi Helle. Poi, fai come vuoi. Il mio è solo un consiglio. Piuttosto...”

Le iridi luminose, le corna scintillano mentre le mani spazzolano i capelli ambrati.

“... non pensi sia meglio lasciare questo palazzo prima che i tuoi amici bombardino entrambe?”


**


La creatura


La creatura sospirò con vigore, ma l'unico risultato fu quello di emettere un latrato di morte. Un corpo non fatto per provare emozioni, solamente per reciderle. Il viaggio era giunto al termine, al tramonto del giorno successivo. Aveva attraversato i cieli del mondo, sorvolato città incolori e città iridescenti, treni di passaggio e palazzi sfarzosi, occupati da uomini-cervo. Un mondo frammentato, eppure ancora unito. Nessun simbolo, nessuna bandiera, la coesione svanita in un lampo. I ricordi si tuffarono nel recente passato, tornarono all'esplosione del monte, alla pioggia di fango, di melma carbonizzata. Le truppe di entrambi gli schieramenti annientate, spazzate via dalla valanga di fuoco nero. I comandanti in capo incapaci di reagire, solo di uccidersi a vicenda.

E fu il buio.

E le morte stagioni.

Bene e male estinti, annichilitisi a vicenda, le spiagge dorate e feconde ridotte a distese di cadaveri, le uova disciolte dalla massa magmatica, il cielo annerito. Minuscole creature, in forma di granchi, estinte del tutto – lo stadio basale dei primi tre anni.

La creatura era lontana, al momento, inviata a portare rovina. Aveva lottato, distrutto, ucciso e vinto – ma invano. Non c'era più niente per cui combattere.

Nulla più che il buio.

Atterrò sulla sabbia, la rena rossastra, si guardò attorno – in cerca di un segnale, di un qualsiasi segnale, in cerca di qualcosa per cui sopravvivere.

Fu allora che vide.

Un piccolo granchio, il guscio nero, rotondo. Minuscole corna, occhietti vispi verdi sul carapace chitinoso, di carbone. Aveva solo quattro zampe – due avanti, due dietro – e chele tridattili a completare gli arti anteriori. Cercava la madre, il padre, cercava famiglia. Ma era l'ultima rimasta.

La creatura riconobbe in essa la larva del nemico mortale, di ciò che aveva odiato e assalito. Tuttavia, il vuoto lasciato dalla devastazione lacerò la sua anima nera.

E accolse lo scricciolo come una figlia, decise di crescerla forte, e sana, e completa.

Sul picco del monte, sulla lava rappresa, in poco produsse il suo nido.

Una nuova casa per il suo unico amore.


**


Generico ufficio delle poste, generica città nel generico stato


L'uomo un po' meno grigio si muove per la strada lastricata. Le luci soffuse, lampade grigie appese a muri d'asfalto essiccato o piastrelle scheggiate. Teme l'ombra, l'uomo un po' meno grigio, ha paura che si stacchi dal suolo e l'aggredisca, senza il minimo preavviso. Eccolo, stretto nel suo grigio cappotto, il cappello calato sulla fronte piatta, sui pochi capelli, il naso assente.

È uscito di nascosto dall'ufficio postale, prima che l'uomo un po' più grigio se ne accorgesse. E aveva con sé una lettera, una raccomandata. Non aveva resistito alla tentazione, l'aveva rubata dalla pila destinata al macero. Era così invitanti, con quel bagliore colorato. Non grigio, non bianco! Qualcosa di diverso, di unico! Emozioni, le chiamava il suo capo. Sentimenti.

Non poteva permettere che venissero distrutti, sprecati.


(Non) fine