Alter Future - Doom Empire (2015, incompleto)

Questo racconto è basato su un possibile "futuro post-apocalittico" di uno dei miei primi universi narrativi. Sfortunatamente, ho perso di vista il mio obiettivo dopo appena 7000 parole. Ciononostante, alcune delle immagini e dei personaggi ritratti in questa breve finestra su un mondo mai completato mi sono rimasti nel cuore. Probabilmente non lo finirò mai, ma almeno così non sarà perso per sempre... e potrà far vivere questi personaggi, almeno per quel paio di pagine in cui sono comparsi. Come curiosità aggiuntiva: la protagonista, Gea Salvati a.k.a. Taijitu, è ispirata a una versione alternativa di Sakuyamon.
1.
Il bastone si fa strada tra gli ingranaggi, spacca le ruote dentate, la cinghia di trasmissione. Un occhio rosso luccicante, brilla ancora per un attimo. Un istante prima di spegnersi, di tornare al buio. Le braccia meccaniche si fermano a due centimetri dal mio viso, le lame quasi a sfiorarmi la pelle. Solo quasi, per fortuna. Di menomazioni fisiche ne ho già a sufficienza.
Estraggo l'arma dal nucleo, la lascio scorrere tra le lamiere accartocciate, ancora sporca d'olio lubrificante. Respiro profondamente, riempio i miei polmoni d'aria fresca e incontaminata.
Un vero toccasana... se si trascura la polvere nera, le nuvole di detriti, i residui di combustione scaricati nell'atmosfera dai motori degli Attuatori. Il Sole si è già rintanato dietro gli scheletri dei grattacieli. Niente lettura rilassante nel dolce tepore della sera, stavolta.
Pazienza, non si può avere tutto dalla vita.
Forse, è già tanto averne una al giorno d'oggi, qui a Weslingen.
Mi guardo attorno, controllo la situazione.
Il bestione era da solo, lasciato allo sbaraglio. Di solito, ci sono almeno due agenti di sorveglianza, armati di cannoni a impulsi. Attendo qualche secondo, in silenzio, ascolto il battito del mio cuore. Niente. Sono sola. Solo il vento a farmi compagnia.
Ripulisco accuratamente la punta del bastone, cerco di riportarlo al suo colore naturale – un bianco perlaceo, quasi lunare. Lo stesso colore della mia corazza, una scintilla nelle tenebre. Appariscente, forse troppo. Una torcia elettrica a venti metri di distanza e risalto come un pinguino nel deserto.
Ed è proprio quello che voglio.
Uno stridio metallico, un clangore inumano.
Mi volto di scatto, l'arma stretta nella mano. Proviene dal corpo sventrato dell'Attuatore. Un grido continuo, un suono ripetuto, prolungato.
I robot non provano sentimenti, non questi almeno.
Mantengo la posizione di guardia, il contatto visivo, punto i piedi a terra.
La carcassa sfrigola, si spacca. Frammenti arrugginiti si staccano dalla pelle, impattano rumorosamente con l'asfalto. Il rintocco di una campana, un rimbombo assordante.
Ed è allora che la vedo.
Una mano. Due mani. Cinque dita, il pollice opponibile. Fessure scarlatte, un fuoco inestinto. Il torace emerge dai rottami, le gambe seguono a poca distanza.
Una figura umanoide. Due braccia, due gambe, tutto come da copione. Se non fosse per la seconda testa.
Le due bocche si aprono all'unisono, urlano alla Luna nascente, in perfetta sincronia. In questo istante, vorrei potermi tappare almeno un orecchio. Sfortunatamente, non posso. Sono costretta ad ascoltare il lamento d'inferno del Cacciatore, il ruggito di guerra con cui esordisce prima di ogni assalto. Uno strillo acuto, insopportabile. La prima volta che lo ascolti ti mozza il fiato, ti si sgranano gli occhi dal terrore, il tuo cuore parte per la tangente, inizia a battere in modo ossessivo. Dopo la quarta, ci fai l'abitudine.
Se sopravvivi.
I servomeccanismi portano alla luce le quattro canne mozze, due per avambraccio. Un sorriso crudele, binario, flash di luci spettrali nella notte.
E l'urlo, il suo maledetto urlo nero. Ancora una volta.
Roteo il bastone, lo faccio passare sopra la testa, bilancio il peso, salto, piroetto su me stessa. Prima che possa capire cosa sta succedendo, il suo fianco destro esplode in una marea di scintille. Metallo contro metallo, armatura leggera in kevlar sfondata come se fosse burro. Il Cacciatore scalpita, consolida la posizione, una testa analizza i danni, l'altra mi segue con lo sguardo. Un balzo all'indietro, l'atterraggio su quattro arti, gli occhi puntati su di me. Si è portato a distanza di sicurezza, sa che da qui non posso colpirlo.
Lo shotgun sinistro rientra nel braccio, una mitragliatrice calibro nove a sostituirlo. Faccio solamente in tempo a gettarmi dietro ad un muro diroccato, prima di sentire gli spari, il rombo assordante della FireVulcan, i trecento colpi al minuto che graffiano i mattoni, strappano l'intonaco, feriscono il cemento armato. Una grandinata interminabile, una pioggia di bossoli.
Appoggio il bastone a terra, sfioro delicatamente la capsula agganciata alla mia cintura. Uno strappo deciso, il cilindro brilla di luce azzurra. Conto mentalmente fino a tre, mentre i proiettili continuano inesorabilmente a crivellare il mio nascondiglio. E i passi risuonano sull'asfalto. Il Cacciatore si avvicina, crede di avermi in pugno.
Beh, non è così distante dalla realtà. I miei trucchi, i miei giochi di prestigio funzionano meglio con gli esseri biologici. È difficile fare appello alla sospensione dell'incredulità di un robot.
Serro le labbra, digrigno i denti, fin quasi a sentir male alle gengive. Respiro, respiro. Con calma, tranquillità. Troppa fretta e sono morta. Conto ancora, ancora una volta. Milleuno. Milledue. Mille e tre. Lancio il cilindro in aria, con un'ampia parabola. Il Cacciatore lo nota immediatamente, alza una testa per seguirne l'andamento, mentre l'altra continua a puntare nella mia direzione. La mitragliatrice si solleva, cambia bersaglio. Un colpo preciso, i dardi trafiggono il rivestimento esterno, lo riducono a brandelli. Uno sbuffo di fumo, una nube azzurrognola, i raggi di Luna rifratti da migliaia di particelle sospese. La prima testa attiva i fari, tenta di rischiarare la notte.
Povero idiota.
Le lampade alogene balenano nel buio, si schiantano contro lo scudo di polvere riflettente, deflesse in decine di strali privi di direzione o verso. E il suo apparato visivo va in crisi.
Un decimo di secondo per attivare il visore termico, l'ecoscandaglio, i sensori di pressione. Un decimo di secondo soltanto. Un tempo infinito.
Il braccio col cannemozze sollevato, puntato al mio volto.
Troppo tardi.
Il bastone spacca l'arto a metà, tra il radio e l'ulna, prosegue il suo percorso, trafigge il corpo d'acciaio e titanio. Quando sento l'urlo di guerra, sorrido istintivamente. Non è più sincronizzato, l'andamento è casuale, il volume cambia in modo repentino. È il segnale che la manovra è riuscita perfettamente. Il Cacciatore ha perso una testa.
Il cranio si apre a metà, il cervello elettronico perforato con estrema precisione. Uno scatto, uno strappo, il collo staccato di netto, il teschio artificiale conficcato sulla punta.
Libero l'arma del moncherino, osservo i resti del mio avversario.
Un solo braccio, una sola testa, una mitragliatrice carica. Equipaggiamento sufficiente a farmi passare un brutto quarto d'ora. Prima che possa reagire, lo colpisco alle gambe, sfondando il ginocchio sinistro. Un colpo secco, l'androide crolla a terra, sbatte la nuca sull'asfalto.
Avverto l'odio nei suo occhi di sangue, l'odio folle e disperato di una marionetta programmata per uccidere. Apre la bocca, la spalanca per gridare, forse.
Ma non ne ha il tempo.
Gli conficco il bastone in gola, trapasso la testa, la attraverso da parte a parte.
Il corpo freme, si dimena, come attraversato da spasmi muscolari.
Poi, all'improvviso, il silenzio.
E la falce di Luna si riflette sulla mia armatura bianca, salutandomi attraverso le nuvole.
1a.
Il trillo della sveglia mi desta dolcemente dal mondo dei sogni. Apro gli occhi, abbasso le coperte morbide, calde, mi metto a sedere sul letto. Arrotolo la coda attorno al corpo, lascio che i terminali sensoriali mi solletichino le gambe. Ne accarezzo la punta con il secondo dito, il più lungo. Una scossa elettrica si propaga lungo il mio corpo, tremo per un istante, mentre il fascio filamentoso si ritrae all'interno del guscio, al sicuro. Gli altri recettori lo seguono a ruota, si allontanano dal mio tocco. Un mistero della nostra biologia, qualcosa che non siamo ancora in grado di comprendere. Questi tentacoli sono parte di noi, sono un'estensione del nostro io... eppure, agiscono come se fossero dotati di volontà propria, come se nel nostro corpo coabitassero più menti. Mi diverto un mondo a giocare con loro, appena dopo il risveglio. Sfiorarli a mani nude mi pervade di uno strano senso di eccitazione.
Lascio che la coda si disponga naturalmente in posizione di riposo, mentre mi stiracchio alzando le braccia al cielo. Abbandono il letto, mi alzo in piedi, mantengo l'equilibrio sul parquet di... legno (credo si chiami così), raggiungo la finestra, la spalanco completamente. La luce della Luna filtra all'interno della mia camera, disegnando ombre appena accennate ed eleganti riflessi. Ammiro il cielo puntellato da stelle luccicanti, un manto prezioso di una bellezza inarrivabile. Abbasso lo sguardo, verso i bagliori corruschi della città. Aloni soffusi rischiarano a tinte calde il blu notturno, mentre le attività iniziano lentamente ad avviarsi.
La Terra è un pianeta meraviglioso, lo amo con tutta la mia anima. Devo ringraziare i miei generatori, se ho avuto l'occasione di stabilirmi qui, lontano dalla nostra caotica, ipertecnologica, prevedibile culla. La scienza governa ogni aspetto della vita, controlla l'atmosfera e le condizioni meteo, decide persino il colore degli animali e delle piante. Nelle colonie, i tecnocrati non hanno alcun potere. Qui è il caso a comandare.
Sporgo lo sguardo un po' più in là, al di fuori dei limiti del CORE. Palazzi altissimi, ridotti a scheletri di acciaio e vetro. Rovine, frammenti di esistenze distrutte. Il prezzo della guerra.
Cerco di non pensarci, di distogliere la mente dal conflitto, dalle notizie che arrivano dal fronte. Preferisco godermi il dolce tepore serale, il vento fresco che spira attraverso le guglie.
Mi sfilo la camicia da notte, la lascio cadere per terra. Prendo lo specchio dal comodino, osservo la mia immagine, l'incarnato bianco, il mio viso liscio, i capelli semitrasparenti, il mio corpo snello e longilineo e... i miei occhi, due rubini incastonati nella neve. Abbasso lo specchio, lievemente in imbarazzo. Gli occhi sono la porta dello spirito. Non bisogna mai, mai fissare negli occhi qualcuno. È come averlo in pugno, lasciarlo senza possibilità di difesa, di fuga. Riuscire a scoprire gli occhi di un mio simile equivale a spogliarlo nudo. Per questo indossiamo sempre una visiera nera, monodirezionale. Così, possiamo guardare senza essere osservati.
Apro il cassetto, estraggo un paio di abiti puliti. Indosso la maglia, lascio che i connettori spinali si facciano largo attraverso i fori sulla schiena. Quando sono sicura che l'adesione sia perfetta, mi infilo anche i pantaloni, chiudo il laccio al di sopra della coda, tiro su la zip, assicuro la fibbia della cintura. Prima di uscire dalla camera, attivo il visore e ritiro le appendici sensoriali all'interno della coda. Se essere guardati negli occhi è imbarazzante, sfiorare qualcuno con i terminali lo è ancora di più. Dato che trasmettono sensazioni in entrambi i versi, è permesso usarli solamente su oggetti inanimati. Vi lascio immaginare quale sia il significato del gesto su un essere vivente.
Scendo le scale di fretta, non voglio perdere nemmeno un istante.
Il cielo è troppo bello, questa sera.
Il momento ideale per svagarsi un po'.
2.
Il risultato finale è di un Attuatore e un Cacciatore. Dopo la sorpresa uscita dall'uovo di pasqua, non ho incontrato altro. Nessun agente in tenuta antisommossa, nessun drone di classe inferiore. Sorveglianza inesistente. Sembra quasi che abbiano perso interesse in questa città.
Comprensibile, sotto un certo punto di vista.
Raggiungo la porta d'ingresso, celata dalle rovine di un bar. Inserisco il codice, una cifra alla volta, con almeno tre secondi di distanza tra un numero e quello successivo. Una misura di sicurezza: se qualcuno provasse a violare il database per ottenere la chiave d'accesso, il computer riconoscerebbe ogni tentativo come errato. Certo, un colpo ben piazzato di lanciagranate farebbe direttamente piazza pulita della porta, ma non sottilizziamo.
Il gancio di sicurezza scatta con un sonoro CLACK, disattivando la serratura. Faccio scorrere il portellone nell'alloggiamento laterale, lo richiudo alle mie spalle.
Cerco l'interruttore della luce a tentoni, lo trovo dopo un paio di tentativi. L'unica lampadina ad incandescenza appesa al soffitto rischiara il mio minuscolo rifugio, un open space con angolo cottura e bagno. Allacciamento illegale alla rete elettrica e alle condutture dell'acqua potabile. Un controllo incrociato avrebbe identificato questa stanzetta di venticinque metri quadrati in un attimo, ma per fortuna hanno altro a cui pensare.
Sono una spina nel fianco, ma non così seccante da stanziare mezzi e risorse per localizzarmi.
Premo il simbolo al centro della mia corazza, un taijitu logoro e graffiato. Il pettorale si apre a metà, le placche bianche si disassemblano, rientrando nell'alloggiamento posteriore. Le spalline perdono la loro consistenza, seguono il flusso candido. La fibbia della cintura si allarga, scorre sino a raggiungere la base della schiena, si aggancia a quello che potrebbe sembrare uno zaino tattico. La cintura si slaccia, viene assorbita dalla fibbia, diventa un tutt'uno con lo zaino. Gli schinieri viola si ripiegano a soffietto, spariscono nelle calzature meccanizzate. La protezione per il braccio si contrae allo stesso modo, rientrando in un bracciale bianco come il latte. Il bastone si contrae fino a raggiungere le dimensioni di un testimone da staffetta. Sgancio lo zaino dalla schiena, ripongo l'arma nell'alloggiamento laterale, sfilo il bracciale e le scarpe, le attacco ai sostegni magnetici.
Per oggi, non dovrei più averne bisogno.
Mi guardo allo specchio, come ogni sera, e mi domando che cosa io stia osservando. Una ragazza, ventitré, ventiquattro anni. Capelli biondo cenere, a caschetto. Iride grigia. Due strisce di trucco viola, una per guancia. Pitture di guerra. Una tuta grigia aderente a coprire completamente il collo e il resto del corpo. Chi è questa sconosciuta? Chi è questa stupida, sadica imbecille che vive alla giornata, rintanata in un cubicolo sotterrato dalle macerie di un condominio? Sono veramente io?
Massaggio la benda di garza, tento di percepire una risposta dalla mia stessa pelle. Nulla. Quello che è rimasto sotto questa fascia è completamente insensibile. Rimuovo la medicazione, osservo nuovamente il riflesso. Tessuto cicatriziale nero come il carbone, tre solchi profondi tra la fronte e il naso, sulla palpebra sinistra. Sembro uscita da un incontro ravvicinato con un leone. Un leone con artigli di fuoco. Un occhio carbonizzato, bruciato dall'esterno. Non sento dolore, non provo più nulla. È come se quella parte del viso non esistesse più. Distolgo lo sguardo, non ho nessuna voglia di commiserarmi. Adesso, ho solo bisogno di una doccia calda. Premo con gentilezza un secondo taijitu sulla tuta, stampato al centro del mio petto. La veste si ritrae, libera i miei piedi, le braccia, il collo, scopre la mia pelle, fino ad assumere la forma di un collarino segnato dall'abbraccio di yin e yang. Lo slaccio con tranquillità, lasciandolo accanto allo zaino. Tutto ciò che mi resta è una cinghia pesata arrotolata attorno all'omero sinistro. Quella preferisco non toglierla.
L'intimo è un lusso che non posso permettermi. Se avessi l'occasione di uscire per fare shopping riempirei il mio rifugio di abiti e scarpe... ma il primo negozio intatto è ad almeno dieci chilometri di distanza, in pieno territorio nemico. Mentre apro il rubinetto, lottando contro le incrostazioni calcaree, immagino la scena. Un bel giorno di Sole, nella città perfetta. La campanella del negozio squilla, la porta scivola lungo la rotaia superiore, ed ecco che entra questa ragazza con una benda di garza sull'occhio sinistro, vestita soltanto di una tuta grigia aderente. La commessa alza lo sguardo, celato dal solito visore nero, la osserva col suo volto liscio, privo di lineamenti, mentre sistema con un rapido gesto i suoi capelli rigidi – come se fossero fissati col gel.
“Buongiorno, vorrei comprare una t-shirt e un paio di jeans”
“Mi dispiace, qui non serviamo esseri umani. Vendiamo solamente abiti per liaki.”
“Se vanno bene per voi, possono andare bene anche per me.”
“Non credo proprio, a meno che lei non possieda una coda biomeccanica e la sua colonna vertebrale sia provvista dei fori necessari per i connettori.”
L'acqua inizia a scorrere nelle tubature, emerge dalla doccia, scioglie le pitture di guerra, accarezza gentilmente le mie ferite, le abrasioni, i tagli che costellano il mio corpo. Scuoto il capo. Questo dialogo non potrebbe mai avere luogo. Tempo due secondi e la sicurezza calerebbe su di me come un falco su una lepre in fuga.
Mi chiamano semplicemente Taijitu nei loro rapporti. È il mio simbolo, il simbolo con cui ho deciso di distinguermi, il simbolo che imprimo su ogni carcassa metallica che lascio sul mio percorso. Perché voglio che sappiano chi li sta distruggendo, poco per volta, robot dopo robot. Tiro la tenda per non trasformare il salotto in un lago, inizio a massaggiarmi i capelli sotto il getto bollente, le palpebre chiuse ad assaporare il momento. Accarezzo le ciocche cenerine sul lato destro del capo con delicatezza e precisione. Inarco il busto, la mano scorre lungo la nuca, scioglie i nodi dall'altro lato. È frustrante e complicato mantenere la simmetria della mia pettinatura, ma faccio quello che posso. Curare la mia capigliatura mi fa sentire normale, in qualche senso.
La banda pesata mi permette di mantenere un equilibrio perfetto, è tarata per simulare ciò che mi manca. Sollevo il viso, lascio che l'acqua scivoli sulla mia palpebra morta, che lavi via il ricordo. Ma non sento nulla. Neppure l'impatto delle gocce sulla pelle bruciata. Un sospiro, una delusione. Chiudo il rubinetto a fatica, la pioggia artificiale arresta la sua corsa, colpisce il pavimento grigio ancora una volta, il canto del cigno. Apro la tenda, afferro l'asciugamano e il fohn – un modello antidiluviano rimediato durante un ispezione, ma ancora funzionante – domo i miei capelli lisci, li riporto all'ordine. Ed è allora che sento lo squillo.
Raggiungo la postazione, i capelli ancora umidi, l'asciugamano sulle spalle come una sciarpa ispida. Belva e Il Baro hanno posizionato i nuovi ripetitori, a quanto pare. Apro il contatto, attivo il monitor, la telecamera, le casse audio. Dopo pochi secondi, il volto del Baro riempie completamente lo schermo.
“Ciao, Taijitu. Ti ho presa in un brutto momento?”
Un sorriso di scherno si disegna sul mio volto. Ho orientato l'occhio elettronico del sistema in modo da non rivelare nulla del mio corpo, se non il mio viso. Mi sento tremendamente in imbarazzo, ma non devo farglielo capire: sarebbe come sanguinare in un mare infestato da squali. Credo che Il Baro pagherebbe oro per poterla angolare anche solo una decina di centimetri più in basso.
“No, sono appena uscita dalla doccia. Oggi giornata tranquilla: solo un Attuatore con sorpresa.”
“Meglio così.”
Osservo il suo viso, la chioma verde chiaro, il viso fasciato da bende di garza, a coprire ustioni peggiori delle mie. Iridi scarlatte balenano nel buio della sua stanza, occhi vivaci e attenti.
“Abbiamo ripristinato il sistema di comunicazioni, senza particolari problemi. Non sembrava un sabotaggio intenzionale, credo si sia trattato di uno stupido malfunzionamento.”
“Un uccello si è schiantato contro un'antenna?”
“Qualcosa del genere.”
Il Baro ridacchia ancora per un istante, prima di chiudersi in un silenzio ostinato.
Sospiro con tranquillità. Devo preparare la cena, i morsi della fame iniziano a farsi sentire.
“Se non c'è altro...”
Una nota acuta nella voce, le pupille guizzano come pesci in un acquario.
“L'ho trovata.”
Il cuore mi balza in gola, il battito accelera in modo brutale.
“C... come, scusa? Non... non stai scherzando, vero?”
“No, per niente. Vediamoci tra mezz'ora in Piazza delle Vittime Innocenti.”
“Ehi! Aspetta! Non...”
Un CLICK improvviso, la comunicazione interrotta.
Rimango come una scema a fissare lo schermo nero, sperando che si rianimi, che dia qualche segno di vita. Tremo come una foglia, il mio corpo pervaso da una strana eccitazione.
Spero con tutto il cuore che Il Baro non si stia prendendo gioco di me.
Lo spero per lui.
2a.
Passeggio lentamente per le vie, ammirando il caotico brusio di fondo, la gente affaccendata nelle commissioni. Vestiti luccicanti, briosi, collarini fluorescenti. Un mare di stelle nel buio appena accennato. Mi piacciono troppo i colori del cielo poco dopo il crepuscolo, poco prima della notte. È il momento ideale per liberarsi delle preoccupazioni, per lasciar scorrere i sentimenti. Un senso di tranquillità pervade tutto il mio corpo, donandomi benessere e pace interiore. C'è poca sorveglianza, in giro. Solo un paio di Attuatori, accompagnati dal alcune guardie armate. Anche loro osservano il cielo, la schiena appoggiata al muro di un palazzo neonalista. I loro connettori sono nascosti dalla corazza, non hanno il permesso di condividere la mente in servizio.
Negli ultimi tempi, il numero di agenti di stanza a Welingen è diminuito parecchio. La maggior parte di loro è stata richiamata a Concordia, la capitale. Dicono che la guerra sta andando alla grande, che è solo questione di tempo. Gli umani sono in rotta, tenuti a bada senza troppi problemi dalle nostre truppe. Un triplo scacco: aereo, navale e terrestre. È per questo che stanno smobilitando l'esercito, per farlo tornare ai suoi compiti di protezione e salvaguardia della popolazione civile. Non riesco ad essere completamente felice, ad ogni modo. La guerra è il modo peggiore e più sbagliato per imporsi, ma non potevamo fare altrimenti. Nessun popolo cederebbe la sua culla ad un estraneo, figuriamoci ad un essere così differente. Un passo alla volta, supero gli agenti, i loro cannoni a braccio, i volti inespressivi degli Attuatori. Bestioni di tre metri montati su cingoli, dotati di artigli e cannoni antiaerei. Artiglieria pesante, dicono, in grado di far saltare in aria un palazzo. Secondo me, sono orribili. Nessun colore, nessuna sfumatura. Solo un maledetto, monotono grigio metallizzato. Un dettaglio attira la mia attenzione, un minuscolo particolare. Uno dei militari tiene qualcosa, tra il secondo e il terzo dito. Un piccolo oggetto di forma cilindrica, con un estremo acceso. Piccoli tizzoni di brace, carta bruciata, un fumo aspro e dolciastro in sospensione.
Una sigaretta.
Trattengo a stento la curiosità, freno i giochi della mente. Che diavolo ci fa uno di noi con una sigaretta? Non abbiamo una bocca con cui aspirare, ne siamo totalmente sprovvisti. Osservo il volto della guardia, tento di capire, di comprendere.
Invano.
Discute con i suoi colleghi, mulinando la mano, come se il loro discorso vertesse sull'oggetto del mio interesse.
Potrei lasciar perdere, continuare il mio viaggio in solitaria per le vie illuminate, tra i palloncini rossi e le insegne iridescenti. Ma non posso. Non sono programmata per ignorare. Tutto ciò che mi incuriosisce, merita di essere investigato. Supero i tre commilitoni con nonchalance, mi nascondo dietro il palazzo. Controllo che nessuno mi guardi, estrofletto i terminali dalla punta della coda, li appiccico all'intonaco, chiudo gli occhi, inizio l'immersione. I miei sensi si estendono al di là della parete, a pochi centimetri dalla schiena del soldato. Posso percepire le vibrazioni, i suoni, come se fossi lì, assieme a loro.
“... non avevi smesso di fumare?”
“Senza bocca, sono stato costretto a farlo. Però ho ancora l'automatismo. Devo accendermi una sigaretta, ogni tanto, e portarla alle labbra. Anche se non le ho più. I vizi sono difficili da abbandonare.”
“Da quanto ti hanno trasferito?”
“Due mesi. Non mi sono ancora abituato del tutto. La coda mi è d'impiccio.”
“Quanti anni avevi?”
“Ventuno. Ventuno anni terrestri.”
“Allora sei giovane! Vedrai che il tuo cervello si abituerà, è solo questione di tempo!”
“Dici così perché tu ci sei nato, con quest'affare.”
Una risata sguaiata, il rumore di una pacca sul tessuto rigido. Ritraggo i connettori, lascio che rientrino in modo disordinato nel loro guscio, riapro gli occhi. Nessuno può avermi notata, la mia schiena copriva perfettamente la visuale. Mi allontano dal muro ocra, per riflettere.
Un Impiantato. Una mente umana caricata in un corpo liaki. Avevo sentito dire che la pratica era illegale, che non avremmo mai permesso ad un essere umano di diventare uno di noi. Ma...
“Hai finito di origliare?”
Una scarica di adrenalina, il battito accelera, i cuori fuori sincronia. Il ritmo del petto si biforca, segue due partiture opposte, dissonanti. E i miei terminali spiralizzano impazziti, mentre mi rendo conto di essere stata scoperta.
Mi faccio coraggio, ruoto su me stessa, pronta ad incontrare la visiera opaca, la divisa bluastra, il cannone da braccio. Una ramanzina e finisce lì. Nessuno viene sbattuto in carcere per aver ascoltato una conversazione privata.
La mia risoluzione dura meno di un istante.
Sorpresa, sgomento, terrore, terrore puro. Arretro di un passo, mi stringo nella coda, ritiro i sensori. L'agente... il poliziotto con la sigaretta... mi sta guardando. Con i suoi occhi. Senza alcun filtro.
“Ehi, cos'hai? Tutto a posto?”
Avverte l'imbarazzo, la ragione del mio malessere, ma non fa nulla per evitare il contatto. Continua a fissarmi, con il viso scoperto. Neppure i capelli scuri nascondono il suo sguardo.
“N... no.”
“Cosa c'è che non va?”
Sollevo la mano, il primo dito, indico ciò che mi mette in soggezione.
“... i tuoi occhi.”
“I miei...”
Una pacca sulla fronte, le palpebre chiuse per un secondo.
“Ah, già. Scusa, non ci avevo pensato.”
Un tocco leggero sulla tempia, il visore si riforma dai lati, si compatta in un'unica banda nera.
“Così va meglio?”
Rispondo con un cenno del capo, tentando di non perdere la calma. L'agente scuote il capo, spegne la sigaretta con il terzo dito, rivolge la sua attenzione a me.
“Perché ti sei messa a spiarci? Guarda che ce ne siamo accorti tutti e tre che ti sei fusa con la parete. Hai fatto troppo rumore.”
“... la sigaretta.”
Mi fissa sorpreso, come se avesse incontrato un alieno. Un attimo soltanto, prima di rivolgermi nuovamente la parola.
“Capisco.”
Si volta di scatto, porgendomi la schiena. Un passo, un altro passo. Si allontana senza fiatare, in direzione dei colleghi. Lo vedo fermarsi a pochi metri dall'Attuatore, la coda quasi immobile, come se non fosse parte di lui.
“Se sei così curiosa di sapere la mia storia, fatti trovare tra due ore al ponte vecchio. Ti aspetterò per dieci minuti, non di più.”
Annuisco, senza quasi accorgermene. So che non può vedermi, che è completamente inutile, ma il gesto scaturisce spontaneo. Un brivido mi attraversa la spina dorsale, giù fino ai fori di trasmissione, sento l'eccitazione scorrere nelle vene. Un incontro ravvicinato con una mente aliena, una mente estranea alla mia società.
Quando mai mi capiterà di nuovo un'occasione del genere?
3.
“Era ora. Ce ne hai messo di tempo.”
Il Baro mi accoglie con un'espressione di rimprovero. Un mantellaccio nero ricopre le spalle, la sua tuta verde scuro, la fondina ascellare. Mi schernisce, lasciando oscillare un orologio a cipolla a mo' di pendolo. L'ottone consumato risplende alla luce dei lampioni vittoriani in vetro e ferro battuto. Osservo le lampade, i nugoli di mosche attirati dai bagliori giallastri, il moto casuale degli insetti attorno all'ostacolo trasparente che li separa dalla loro fonte di attrazione. La fontana al centro della piazza è ricolma d'acqua pulita, limpida e trasparente. Statue monumentali di tritoni e sirene ornano ogni angolo della vasca, puntano gli occhi verso il centro, verso il gigantesco Nettuno privo di volto che domina il panorama.
“Ho trovato traffico.”
Rispondo svogliatamente, non sono in vena di ramanzine. Per arrivare qui ho dovuto saltare la mia cena ed accontentarmi di una barretta ai cereali. Scaduta da due mesi.
Il Baro sorride, il suo braccio sinistro rimane immobile, adagiato al fianco. Carbonizzato.
“Potevi venire direttamente così com'eri. Avresti risparmiato qualche minuto.”
“Non ci tengo a farmi vedere nuda da te.”
“Come desideri...”
Una sorta di inchino raffazzonato accompagna il suo tono di voce mellifluo.
“... era solo un suggerimento per rendere la serata più interessante.”
La sua mano destra è ricoperta completamente da bende e tamponi, proprio come la sua faccia. Nemmeno un centimetro di pelle scoperto. Sempre che di pelle ce ne sia ancora.
Punto il bastone a terra, il taijitu sulla mia corazza brilla sotto i tiepidi strali delle lampade.
“Non perdiamo altro tempo. Dammela.”
Le dita sottili si inerpicano nelle tasche dei pantaloni, frugano per qualche secondo.
“Intendi dire... questa?”
Un'espressione soddisfatta si delinea sul suo viso, mentre mostra con teatralità una minuscola chiave di acciaio.
Aggancio il bastone ai sostegni magnetici, allungo la mano per prendere ciò che mi spetta. Prima che possa toccarla, Il Baro chiude il pugno, allontana il braccio.
“Ehi!”
“Ogni cosa ha un prezzo, lo sai. E il mio è piuttosto alto.”
Serro le dita, mi faccio forza, trattengo il desiderio di spaccargli la faccia.
“Sai benissimo che non ho più nulla. L'incendio al mio rifugio ha ridotto tutto ciò che possedevo in cenere, esclusa la mia tenuta tattica e qualche effetto personale che ero riuscita a trasferire nei giorni precedenti. Prima che tu aggiunga altro, il mio corpo non è in vendita.”
“Non l'ho pensato nemmeno per un istante.”
Bugiardo. È attirato dalle donne come le mosche dalla luce dei lampioni. Così come le mosche trovano una barriera invisibile a frenare la loro corsa, anche il suo desiderio è costretto a fermarsi ad un centimetro dal bersaglio. Il mio orgoglio è un muro che non sarebbe mai capace di incrinare.
“Allora taglia corto, Christian. Cosa vuoi da me?”
Il Baro sobbalza, mentre lo chiamo per nome. Un istante soltanto, prima di tornare all'usuale contegno.
“Beh... per esempio...”
Accade tutto in un attimo. La mano del baro afferra la pistola, rotazione rapida del torso, uno sparo nel vuoto, diretto al nulla. O almeno, così credevo.
Un urlo stridulo, un lamento artificiale. Il camuffamento perde efficacia, energia ridotta al minimo. Ed ecco che un Cacciatore bicefalo emerge dalla notte, con un foro di dieci centimetri all'altezza dello sterno.
“... potresti aiutarmi a ricacciarli da dove sono venuti.”
Prima che me ne renda conto, il buio comincia a spararci. Sgancio il bastone, mi getto a terra, cerco di localizzare l'altro robot. Christian scarica il caricatore, preme il grilletto con rinnovata ferocia. Il Cacciatore evita l'assalto, una testa puntata su di me, una sul Baro. Roteo la mia arma a livello delle ginocchia, sperando di colpire qualcosa. Dopo il primo giro a vuoto, attivo l'estensione massima, spazzando due metri e mezzo attorno a me. Il rumore del metallo accartocciato riempie l'atmosfera notturna, mentre le articolazioni del Cacciatore saltano in aria, lasciandolo carponi per terra. Non gli do il tempo di spararmi, di prendere la mira. Riduco la lunghezza del bastone, sfrutto il momento residuo, colpisco con violenza entrambi i colli, uno dopo l'altro. Le teste si staccano dal busto, senza poter nemmeno gridare. Un ultimo giro e vibro la stoccata finale, diretta al generatore. Lo estirpo dal torace, esibendolo come macabro trofeo. Mi volto verso Il Baro, tento di capire se ha bisogno d'aiuto. La risposta me la danno i suoi occhi, rossi come il fuoco, mentre la sua spada attraversa la carcassa del Cacciatore.
Un secondo di agonia, spasmi, movimenti casuali. Poi, il nulla. Il robot si arrende al suo destino, incapace di reagire.
Christian libera l'arma dal rottame, la trasforma in un stecca più corta – prodigi del metallo polimorfo – ma pur sempre difficile da portare in giro senza destare sospetti. Non faccio in tempo a chiedergli da dove l'abbia tirata fuori. Non ne ho bisogno. Mi basta osservarlo mentre la inserisce all'interno del braccio morto, tramite un foro a livello del polso. Sento la carne schioccare e sfrigolare, mentre la spada si fa largo tra il tessuto bruciato, spinta verso la spalla con tranquillità surreale. Trattengo un conato di vomito.
“Che... schifo!”
“Quale nascondiglio più sicuro? Chi mai perquisirebbe un braccio carbonizzato?”
“Non... non ti fa male?”
“La risposta sotto le tue garze.”
Mi tocco l'occhio sinistro, cercando un riscontro. Nessuna reazione, come al solito.
“Capisco. È soltanto un guscio vuoto, non è così?”
Il Baro mi risponde con un cenno del capo, poi si china ad esaminare il nostro aggressore.
“Cacciatori con camuffamento ottico. Interessante. Devono essere appena usciti di fabbrica.”
Ripongo il bastone nel suo alloggiamento, mi siedo sui gradini della fontana.
“Sono riuscita ad estrarre un generatore intatto. Domani lo installo nel mio rifugio, così magari posso tenere acceso il frigorifero anche quando uso il piano cottura o il fohn.”
“Io l'ho dovuto spappolare. La mia lama non è adatta per lavori di precisione.”
La pistola ancora fumante adagiata a terra, lo sguardo divertito.
“Cosa ne dici se torniamo a parlare di affari?”
“Va bene. Parla, sono tutta orecchie.”
Il Baro estrae una carta dalla tasca, una carta da gioco di prestigio, di quelle truccate. La lascia cadere sui resti esanimi del Cacciatore, marchiandolo con la sua firma.
“Forse sai già che ENiGMA ha dato una sonora lezione alla terza flotta di quei bastardi. Il ventitreesimo stormo ha spazzato via completamente le forze di difesa stazionate a Revoli.”
“Sì, ne ho avuto notizia. Belva mi ha inviato un messaggio due giorni fa, prima che l'antenna si spezzasse.”
“Quello che non sai è che la FSS Qasbah effettuerà un bombardamento orbitale della loro seconda città più grande, sfruttando la debolezza del nemico.”
“Weslingen CORE?”
Il Baro risponde inclinando la testa, annuisce con un cenno.
“Devo recuperare una cosa, prima che la distruggano. Dalla prigione Tigris. E ho bisogno di una mano.”
Porto il pugno a contatto col fianco, in posizione di riposo, tento di ricollegare i pezzi del puzzle.
“Tigris è abbandonata da almeno tre mesi, la sorveglianza è pari a zero. Perché hai bisogno del mio aiuto?”
Le chiavi tintinnano tra le sue dita, il canto di una sirena a cui non posso sottrarmi.
“Se accetti lo scambio, lo scoprirai.”
Tento di sorridere, di trovare divertente il suo modo di fare. La verità è che lo detesto. Non mi sono mai piaciuti i ragazzi che tentano di sedurti comportandosi da stronzi. Proprio per questo, mi sono innamorata di Daniel.
“Va bene, ma ad una condizione.”
Rispondo con cattiveria, veicolando tutto il ribrezzo di cui sono capace.
“Se accetto, ti farai finalmente amputare quell'orribile, disgustoso moncherino nero che ti ostini a chiamare braccio.”
Christian sputa per terra, prima di alzare lo sguardo, di incrociare il mio occhio con braci fiammanti.
“Sì, certo. E magari sostituirlo con un anello pesato per mantenere inalterato il mio equilibrio? No, grazie. Non ci tengo proprio a diventare come te.”
4.
La porta cede senza il minimo sforzo, cadendo platealmente sulle piastrelle incrinate. Il Baro mi precede, penetra all'interno del locale, la torcia elettrica stretta nella mano sana.
“Via libera. Andiamo.”
Lo seguo a breve distanza, impugnando il bastone. Tigris è soltanto un vecchio carcere in rovina, ma non si sa mai. Specie perché è stato proprio Il Baro a chiedermi di venire.
“Sai già dove cercare?”
“Terzo piano, cella venticinque.”
Lo osservo smarrita nel buio di pece, un'oscurità penetrante che si appiccica alla mia corazza, insudiciandola, opprimendo i miei sensi. Faccio persino fatica a respirare. Il pavimento scricchiola ad ogni passo, un macabro cigolio metallico assillante, ripetuto. Ogni rumore mi fa trasalire, è come se potessi toccare la mia stessa ansia. Il fascio di luce divora le tenebre, le squarcia con violenza, mostrando dettagli celati alla vista. Scrivanie, armadietti, lo schermo di un computer. Una sorta di reception, sotterrata dalla polvere e dalle macerie. Il Baro tossisce, circondato da ombra strisciante.
“Non ci sono andati leggeri, a quanto pare.”
Avanziamo con lentezza, trascinando ogni passo. Il gelo mi stringe in una morsa, mozzandomi il fiato. Gocce di sudore freddo scorrono sulla mia fronte, impregnano le garze, scivolano lungo le guance. Il Baro mi precede di alcuni metri – troppi. Non voglio perdere il contatto visivo, non qui, in questo posto.
“È pieno giorno! Com'è possibile che sia così buio, qui dentro?”
“Ogni finestra è stata sprangata. Lui tiene parecchio alla sicurezza.”
“Lui?”
Il Baro non risponde, si limita a sorridere. E io mi astengo dal porre domande. Ci addentriamo nell'edificio, l'uscio rischiarato dal Sole sempre più lontano, sempre più distante. Se non fosse per la chiave...
“Concentrati, Taijitu. Un passo falso e ti rompi una gamba.”
Stringo l'impugnatura del bastone, fin quasi a sentire dolore. Le nostre voci rimbombano nel vuoto, nel silenzio assordante che ci circonda, ci osserva con occhi di fuoco. Ogni rumore amplificato all'inverosimile, lo sgocciolio dell'acqua da un rubinetto a marcare solenne il tempo.
La torcia si solleva, inquadra il pavimento, il muro, il soffitto. Un pannello di compensato compare dalle tenebre. Una scritta incisa nel legno morbido.
WheLlCoME!
Invitante, eh? Sono sempre più tentata di darmela a gambe.
“L'ascensore funziona ancora.”
Sobbalzo per la sorpresa, mentre le porte della cabina scorrono sui binari. Una lampadina penzolante ci invita a prendere posto, facendo leva sui nostri timori infantili. Il Baro si accomoda all'interno, appoggia la schiena al metallo arrugginito. Lo seguo a ruota, ingoiando la saliva. In circostanze normali, avrei preso le scale. Non sarei mai, mai salita su un vecchio ascensore malandato, specie se all'interno di un palazzo in rovina... ma ho più paura del buio che di cadere. La mia corazza è in grado di assorbire in parte l'energia cinetica dell'impatto, di resistere a proiettili calibro undici senza riportare alcun danno. Ma non può nulla contro l'oscurità penetrante che permea ogni angolo di questo inferno. Solo la luce riesce a darmi sicurezza, la fioca, tiepida luce di una lampadina ad incandescenza che oscilla come un pendolo.
Riduco le dimensioni del bastone, entro nella cabina. Il Baro passa in rassegna i pulsanti, preme il tasto tre, si allontana dal quadro comandi. Le porte si richiudono, imprigionandoci nella gabbia fredda, mentre il motore si attiva, sputacchiando ed imprecando. Sento il metallo vibrare, reagire alla nostra presenza, la sgradevole sensazione di separazione dal suolo. Il Baro ripone la torcia, si accarezza i capelli con calma innaturale.
“Non devi aver paura. Non ci farà nulla. È dalla nostra parte.”
Ancora una volta, rinuncio a far domande. I segreti di Christian non mi interessano. Io sono qui solo per avere ciò che mi spetta.
L'ascensore sale con lentezza esasperante, trema come un frullatore. I led rossi sul display cambiano di tanto in tanto, indicandoci il cerchio infernale a cui siamo giunti. Zero, uno, due...
Non appena il tre compare sullo schermo, uno scossone annuncia l'arrivo.
Le porte si aprono, lasciano filtrare la luce all'esterno, delineando una stanza ampia, ricolma di mobili e detriti. Qualcosa si muove, di fronte a noi, qualcosa che il mio cervello fatica ad accettare. Un paio di scarponi sdruciti, calzati da una figura snella, sottile. Alzo lo sguardo, poco per volta, seguo il profilo del saio nero, delle toppe, inquadro le mani scheletriche, la mazza chiodata, la pelle grigiastra, il collo sottile, le labbra affilate, gli occhi luccicanti, iniettati di sangue. E l'espressione da maniaco omicida.
“Buh.”
Urlo. Urlo a perdifiato, butto fuori tutta l'aria che ho in gola, nei polmoni. Lascio cadere la mia arma, mi rintano nell'ascensore, tento di premere il pulsante. Mio Dio, voglio tornare al piano terra! Voglio andare via! Via!
“Ma cosa...”
Il Baro mi afferra il polso, mi getta a terra. Sbatto la schiena contro il pavimento, la testa rimbalza. Tento di rialzarmi, di fuggire. Ma la sua presa è salda come la roccia.
“C... Christian?!”
Le ombre ruotano attorno al mio corpo, al mio unico occhio. Non posso muovermi, non posso scappare. Mio Dio, Mio Dio! Aiutami! Non lasciarmi qui! No! Non voglio morire!
Il Baro apre la bocca, sta per parlare, per dire qualcosa. Ma non si rivolge a me.
“Perdonala, amico. Te lo avevo detto che era impressionabile.”
“A... amico?”
Respiro a fatica, cerco di recuperare la calma, di ragionare a mente fredda. La figura incappucciata trascina il passo, lascia che il saio si inzaccheri di polvere e ragnatele. Alla luce della lampada, il suo aspetto è ancora più inquietante. Non ha naso né pupille. Solo vuoti barlumi gialli immersi in un volto grigio topo. Sorride, sorride mostrando una fila di denti allineati, lordati dal tartaro. Appuntiti come quelli di uno squalo.
“Quando me l'hai detto?”
Voce è bassa, baritonale. Ogni parola ha l'effetto di un coltello piantato tra le costole, con gioia crudele. Il Baro mi lascia andare, si pone tra me e lo sconosciuto.
“Ehi! Non mi riconosci? Sono Christian, Christian Veyder!”
Il rumore inconfondibile del proiettile caricato in canna, l'oggetto che avevo scambiato per una mazza sollevato con entrambe le mani. Mi appiccico alla parete, tento di allontanarmi il più possibile. Una doppietta, vecchio tipo, a caricamento manuale, trafitta da spine e chiodi sporgenti. Puntata sulla faccia del Baro.
“Il Veyder che conosco io ha due braccia sane. E non va in giro bendato come una mummia.”
“Quel Veyder è morto due anni fa, durante i bombardamenti.”
Riesco ad alzarmi in piedi, le gambe tremano, sorreggono il mio peso a fatica. Poi, mi rendo conto di essere fissata dai suoi occhi. E crollo nuovamente a terra.
“Chi è la sgualdrina, Christian? Viene dalla stessa strada di tua madre?”
“Sempre gentile, eh? Al telefono, mi sembravi più cortese.”
Lo osservo mentre si lecca le labbra, mentre accarezza la canna del fucile con sincero entusiasmo.
“Al telefono non posso spappolarti la faccia con questa bellezza.”
Afferro la maniglia laterale della cabina, tiro con forza, mi appoggio ai pannelli del rivestimento. Il coraggio fa capolino dall'angolo in cui si era nascosto, si manifesta in tutto il suo finto splendore, riprende il controllo della situazione. Forse è arrivato il momento dei chiarimenti.
“Chi... chi è questo tizio?”
Il Baro emette un grugnito sconsolato, un sospiro diretto dall'anima.
“Il sicario prezzolato che ha fatto di questa topaia casa sua.”
L'uomo abbassa il fucile, ghigna compiaciuto.
“Sicario prezzolato non è male, ma manca di efficacia. Io preferisco farmi chiamare...”
La doppietta in spalla, la bocca allargata in un macabro sorriso.
“... Cupo Mietitore.”
Ora ricordo dove l'ho già visto: su una foto segnaletica.
Il Cupo. Il più ricercato tra i rivoltosi. Il primo uomo ad aver fatto a pezzi un Attuatore. Durante i primi mesi dell'occupazione, era diventato un mito vivente per tutti noi. Tutti tranne Daniel. Già, Daniel non era d'accordo col suo modus operandi, lo definiva troppo brutale. Credeva fermamente nella diplomazia, nella soluzione pacifica. Poi sono arrivati i Cacciatori.
“Te lo chiedo ancora una volta, poi sparo, conto fino a tre e sparo di nuovo. Chi è la ragazza che ti porti dietro?”
“Taijitu. Ne hai mai sentito parlare?”
“No, ma fa lo stesso.”
Scuote il capo, ruota su se stesso, preme un interruttore sulla parete. La luce invade la stanza, pervade ogni angolo, ogni anfratto, delinea il cimitero di macchine e robot da guardia, ammassati in mucchi di arti aggrovigliati e teste mozzate. I generatori a parte, collegati tra loro, una batteria multipla ad alimentare l'intero impianto ausiliario. Il Cupo scrolla le spalle, appoggia la doppietta ad un attaccapanni.
“Sei qui per Vicka, vero? Prendila e vattene. Io ho altro da fare.”
“Sai che questo posto sta per essere bombardato?”
Le labbra contratte in una smorfia indecifrabile, un velo di eccitazione vibrante sul viso.
“Un motivo in più per sbrigarti e levarti dalle palle, una volta per tutte.”